Qual è il prezzo esistenziale, personale e politico, che le nuove
generazioni saranno chiamate a pagare per le nostre scelte educative, se non
ragioniamo accuratamente, nelle sedi opportune, sui nodi che si intessono tra
sviluppo psicologico, acquisizione di conoscenze e capacità, modi della
didattica, richieste del mondo produttivo e contesti economico-politici di
riferimento? Possiamo accettare acriticamente di concentrarci anche a
scuola sullo “sviluppo del mercato unico digitale”, come ci chiede l’agenda di
Europa 2020 che impone la tecnologia digitale, senza preoccuparci delle sue
implicazioni, rimuovendo il nostro disagio e la confusa consapevolezza della
nostra corresponsabilità di docenti che non si sono interrogati abbastanza sul
senso e sulle finalità ultime delle riforme dell’organizzazione e della
didattica degli ultimi vent’anni. Oppure possiamo contrapporre al feticcio
dell’innovazione digitale come unica innovazione possibile e ai suoi risvolti
in termini di disembodiment una serie di fattori di
protezione, che implicano sempre un’interazione vis-a-vis, un’attenzione
congiunta, un dialogo tra le persone e non tra un individuo e una macchina,
nella classe intesa come comunità ermeneutica che non ha alcun mercato
economico come orizzonte di riferimento. Riconoscendo
il valore irrinunciabile di una relazione didattica che non cessi mai di essere
‘incarnata’, in un percorso condiviso di progressivo e reciproco arricchimento
culturale che alle competenze digitali – o trasversali o standardizzate o
globali, come impone oggi l’Ocse radicalizzando la sua visione produttivistica
– anteponga ancora le “competenze umane”.
Quando ci poniamo il problema dell’insegnamento e dell’apprendimento, delle
modalità e degli strumenti con cui articoliamo la nostra attività didattica in
classe, non dobbiamo tralasciare questioni importanti che afferiscono alla
psicologia dello sviluppo. Lavoriamo con bambini e adolescenti, ma anche
nell’ambito dell’educazione degli adulti non possiamo ignorare in che modo
mente e corpo si coordinano – in noi e nei nostri studenti
e tra noi e i nostri studenti – nel condividere attività e
obiettivi in una interazione didattica. Certo, ci muoviamo soprattutto in una
dimensione empirica, dominata dall’osservazione quotidiana dei fenomeni
culturali, psicologici e sociali in cui i giovani sono immersi e che si
incarnano nei loro vecchi e nuovi bisogni educativi. Non quelli
burocraticamente definiti ‘speciali’ dal brutto acronimo BES, che può spingere
a inaccettabili forme di medicalizzazione o di stigma, ma quelli che si
configurano piuttosto come necessità specifiche per ciascuno dei nostri
studenti – ognuno con le sue peculiari esigenze – in un gradiente di
attenzioni, stimoli, metodologie, attività, offerta culturale e formativa che,
uno per uno, li comprenda tutti.
Rispetto a queste istanze educative di ampio respiro per i docenti e per
gli studenti, che richiederebbero studio, attenzione, investimenti, cura,
progettualità a lungo termine ma anche molta cautela nelle indicazioni
psico-pedagogiche e nelle politiche (e nei politici) preposti all’istruzione,
la risposta istituzionale oggi sembra essere invece, unica e a gamba tesa, solo
quella dettata dal mero interesse economico, sotto la spinta del mondo
produttivo: diffusione delle tecnologie informatiche, coazione all’uso di
smartphone, tablet, computer, LIM, ebook. ‘Innovazione digitale’ è la parola
d’ordine.
Sotto gli imperativi categorici dell’Agenda Digitale, uno dei pilastri
della strategia “Europa 2020” che indica i traguardi di crescita dell’Unione
europea, anche a scuola dobbiamo fare leva esclusivamente “sul
potenziale delle tecnologie ICT per favorire innovazione, progresso e crescita
economica, avendo come obiettivo principale lo sviluppo del mercato unico
digitale”. Lo ‘sviluppo del mercato unico digitale’: un obiettivo al
quale evidentemente occorre sacrificare interamente la problematicità della
didattica, da curvarsi a finalità formative che sembrano avere ormai ben poco a
che vedere con il lavoro paideutico. La pervasività del paradigma delle ‘competenze’
trasversali e trasferibili – che sta progressivamente scalzando il valore delle
conoscenze, delle discipline, ma soprattutto dell’astrazione e della teoria
come capacità di riconoscere e concettualizzare la complessità, con tutto il
corredo anticulturale di problem solving, compiti di realtà,
valutazione autentica, test standardizzati e computer based –
ne è la dimostrazione lampante.
Ma come docenti è nostro dovere esercitare costante vigilanza e spirito
critico, avendo bene a mente che, insegnando, con il nostro sapere offriamo
anche un modello. A fronte di leggi, norme e circolari che ci impongono
metodologie, strumenti e tipologie di verifica estranee ai nostri percorsi
didattici e sempre meno negoziabili, possiamo rispondere approfondendo le ragioni
del nostro atteggiamento critico, rivendicando il valore dell’osservazione
empirica insieme alla conoscenza degli studi scientifici su questi argomenti.
Da questo punto di vista, gli esiti della ricerca internazionale possono darci
preziose indicazioni sugli indicatori dello sviluppo psicologico tipico e
atipico nei bambini e negli adolescenti, che sembrano contrastare nettamente
con i nostri attuali orientamenti di politica scolastica e di cui sarebbe
opportuno che decisori e responsabili tenessero conto.
Secondo lo psicologo americano Peter Mundy, autore di “Autismo e
attenzione congiunta”, che a questi temi ha dedicato trent’anni di
ricerche, l’attenzione congiunta è uno dei fenomeni propulsivi dello sviluppo
infantile poiché consente al bambino che guarda nella stessa direzione di un
adulto di sintonizzare la propria attenzione sull’altro da sé, all’interno di
un mondo che non è più solo individuale ma è diventato sociale, condividendone
l’esperienza in modo coordinato. L’attenzione congiunta, spiega Mundy, è una
dimensione interpersonale che si manifesta a pochi mesi di vita ma si sviluppa
per tutto l’arco della nostra esistenza, assumendo nuove forme, espressioni
sempre più articolate e complesse, ed è profondamente legata, come possiamo
cogliere anche solo intuitivamente, a tutte le nostre dinamiche relazionali,
dunque anche a quelle coinvolte nelle attività di apprendimento. E’ una
capacità, profondamente incarnata, di mettersi in relazione con l’altro
attraverso lo sguardo, fortemente implicata nella condivisione di dinamiche
relazionali e regole sociali ma anche nell’attribuzione di stati mentali,
intenzioni, desideri, sentimenti a sé stessi e agli altri.
L’introduzione sempre più precoce di strumenti e metodologie informatiche
nella scuola e nella didattica può avere effetti negativi sullo sviluppo
dell’attenzione congiunta? Alcuni anni fa lo psichiatra tedesco Manfred
Spitzer, nel suo “Demenza digitale” ha affermato che “il
computer non velocizza l’apprendimento, né lo incrementa” piuttosto
influisce negativamente sulle nostre “capacità cognitive e sull’empatia
necessaria per avere rapporti sociali fisiologici” e la
neuroscienziata inglese Susan Greenfield, autrice di “Mind Change.
Cambiamento mentale”, ci ha messo in guardia sugli effetti organici dei
nuovi mezzi di comunicazione digitale, che agiscono sulla plasticità cerebrale.
Nelle pagine di questi libri, come in quelle di Peter Mundy, troviamo risonanze
profonde con il nostro disagio di educatori fronte a una platea di bambini e
adolescenti iperconnessi, totalmente immersi in un mondo virtuale che sembra
produrre modifiche non solo sotto il profilo psicologico ma addirittura
biologico. Un disagio che non nasce da un irrelato e apocalittico luddismo
generazionale, ma che si alimenta con l’osservazione dei tanti, troppi fenomeni
di isolamento virtuale, di deresponsabilizzazione, di allontanamento dalla
realtà e da sé stessi, di straniamento e desoggettivazione che l’uso pervasivo
delle nuove tecnologie informatiche e digitali sembra indurre nei nostri
studenti e che ci porta sempre più spesso a rilevare comportamenti e tratti
della personalità che vanno nella direzione della solitudine personale e
dell’incomunicabilità sociale.
Se con i tradizionali mezzi di comunicazione di massa, la tecnologia agiva
ancora in uno spazio esterno, sulla forma e sui contenuti della comunicazione,
ponendo il problema culturale di una egemonia, oggi la tecnologia digitale
agisce direttamente all’interno, nella nostra forma mentis,
esercitando un profondo dominio psichico. La questione che si pone alla nostra
responsabilità educativa ha dunque un profilo scientifico che ha anche una
forte rilevanza politica: quali molteplici effetti, psicologici e sociali, può
avere questo dominio delle nuove tecnologie informatiche sulla formazione,
sulla crescita e sullo sviluppo delle creature piccole? E anche se la
scienza sembra ancora lontana dal riconoscere un nesso tra l’aumento di
disturbi e patologie psicologiche e la diffusione delle nuove tecnologie, di
fronte ai tanti fenomeni di isolamento, mancanza di empatia, difficoltà nella
comprensione e nell’interazione con l’altro che osserviamo in classe, non è
legittimo per noi docenti pensare che forse sia più opportuno sfogliare e
leggere insieme a voce alta con i nostri alunni le pagine di un libro e
suscitare con lo sguardo un’attenzione congiunta piuttosto che fissare
isolatamente lo schermo di uno smartphone o di un computer?
Credo che ragionare su questi temi sia lecito e soprattutto urgente, dal
momento che la richiesta di adottare a scuola le nuove tecnologie informatiche
si fa sempre più pressante e cogente; come credo che, al di là di facili
slogan, sia importante approfondire la differenza tra il coding e lo studio
delle lingue classiche, tra metodo sperimentale e pensiero computazionale, tra
ragionamento critico e procedimento sistematico di calcolo, tra il linguaggio
della programmazione e la metacognizione filosofica o letteraria, tra un libro
e un video, tra una pagina di carta e una slide, tra lo svolgimento di un tema e
la risposta a un test, prima di arrendersi all’idea che quello che conta oggi
sia solo la capacità di produrre algoritmi e che, nei processi di
insegnamento-apprendimento, tutte le tradizionali forme di sapere meritino di
essere definitivamente abbandonate perché ‘improduttive’.
Il MIUR, l’INVALSI, l’INDIRE, con le loro specifiche responsabilità nelle
politiche educative, si stanno occupando in modo critico e approfondito di
queste questioni? L’Università italiana è in grado di interloquire con le
istituzioni e di orientare la riflessione su questi temi scevra da
opportunismi? La ricerca scientifica in Italia può dare un suo contributo
libero da interessi e pressioni? E il Ministro dell’istruzione non dovrebbe
cominciare a confrontarsi con il mondo della scuola in modo serio, sistematico
e costante, ascoltando esperienze e punti di vista di chi lavora sul campo? Il
problema della salute mentale e del benessere sociale è oggi davvero
centrale, in primis a scuola, dove istruzione, formazione e
educazione si intrecciano quotidianamente, riverberandosi nel futuro. Le nuove
tecnologie digitali non sono di per sé neutre e trascurare gli effetti della
loro utilizzazione precoce, anche solo empiricamente osservabili in contesti
informali, rischia di essere un’operazione del tutto funzionale al sistema
economico dell’industria 4.0 che le sta imponendo come strumenti e come metodi,
con una pervasività a tratti insopportabile. Ma qual è il prezzo esistenziale,
personale e politico, che le nuove generazioni saranno chiamate a pagare per le
nostre scelte educative, se non ragioniamo accuratamente, nelle sedi opportune,
sui nodi che si intessono tra sviluppo psicologico, acquisizione di conoscenze
e capacità, modi della didattica, richieste del mondo produttivo e contesti economico-politici
di riferimento?
Possiamo accettare acriticamente di concentrarci anche a scuola sullo
“sviluppo del mercato unico digitale” come ci chiede l’agenda di Europa 2020,
senza preoccuparci delle sue implicazioni, rimuovendo il nostro disagio e la
confusa consapevolezza della nostra corresponsabilità di docenti che non si
sono interrogati abbastanza sul senso e sulle finalità ultime delle riforme
dell’organizzazione e della didattica degli ultimi vent’anni. Oppure possiamo
contrapporre al feticcio dell’innovazione digitale come unica innovazione
possibile e ai suoi risvolti in termini di disembodiment, una serie
di fattori di protezione, che implicano sempre un’interazione vis-a-vis,
un’attenzione congiunta, un dialogo tra le persone e non tra un individuo e una
macchina, nella classe intesa come comunità ermeneutica che non ha alcun
mercato economico come orizzonte di riferimento. Riconoscendo il valore
irrinunciabile di una relazione didattica che non cessi mai di essere
‘incarnata’, in un percorso condiviso di progressivo e reciproco arricchimento
culturale che alle competenze digitali – o trasversali o standardizzate o
globali, come impone oggi l’Ocse radicalizzando la sua visione produttivistica
– anteponga ancora le “competenze umane”.
Nessun commento:
Posta un commento