mercoledì 29 gennaio 2020

Censura e autocensura in Cina - Andrea Berrini


Ho vissuto due anni e mezzo a Pechino. Ed ero affascinato, sì, dalle trasformazioni, dalla città che si espandeva all’esterno come una macchia d’olio costruendo quartieri moderni e fabbriche e dormitori per milioni di giovani immigrati dalle campagne, diventando loro operai da contadini poveri che erano, e tanti altri ceto medio in corsa verso nuove vite così simili alle nostre, oltre il terzo mondo e la subalternità all’occidente che durava da secoli. Il mondo multipolare, le nuove società, le grandi metropoli d’Oriente mi facevano gola, avevo voglia di vedere e di capire, di esserci. Ma da scrittore e editore che incontrava scrittori e editori in Cina non ho potuto fare a meno di incocciare la censura, la repressione furente delle idee, le lamentele di alcuni, la malinconia di chi lasciava le pagine scritte nel cassetto o era obbligato a cercare una pubblicazione all’estero, la frustrazione nel dover ammettere che sì, certi pensieri e sensazioni erano ormai espunti dalle proprie pagine. Nel 2014, quando arrivò la notizia della prima rivoluzione degli ombrelli a Hong Kong, i partecipanti a una riunione di artisti a Pechino autoconvocatisi per discuterne, erano stati arrestati a grappoli e non si sapeva più niente di loro, e a qualche giornalista occidentale era stato chiesto di lasciare il paese, ma i loro assistenti cinesi pure erano spariti. Qualche ricercatore mi raccontava i problemi del lavoro in fabbrica, le mille e mille rivolte ambientali e operaie nel paese che si concludevano così spesso con arresti e deportazioni. Insomma sì, tutto molto bello a Pechino e fascinoso, in movimento, ma sotto a una cappa opprimente di negazione della libertà di pensiero e azione.



A distanza di anni il fascino resta, e soprattutto può essere condiviso: c’è finalmente un’onda montante di attenzione per il gigante cinese destinato a divenire il gigante assoluto. Sono lontani gli anni in cui i corrispondenti a Pechino lamentavano la difficoltà di far passare in redazione una notizia, un racconto. Dovevano inventarsi ogni volta la stranezza, la curiosità, lo spunto. Oggi la Cina ci viene finalmente sbattuta in faccia già dai notiziari del mattino, se non altro perché il braccio di ferro è iniziato – Trump, i dazi – e quindi c’è n’è da parlare di risulta, e poi c’è questo fantasma, la Via della Seta, i Memorandum of Understanding che il nostro governo firma o non firma, e la stampa ricorda quanto la Cina stia penetrando il nostro sistema di infrastrutture, il porto di Savona, forse quello di Trieste, la Pirelli, fino a tutto il dibattito sul 5G gestito, chissà, da aziende cinesi. Insomma, la Cina è sulle pagine dei nostri giornali. Ebbene, come conciliare l’entusiasmo di tutti noi che di Cina ci occupiamo in vario modo, con la necessità imprescindibile di criticare il regime, di prendere distanze dalla repressione feroce della minoranza musulmana in Xinjiang e del movimento democratico a Hong Kong, dal modello oligarchico di dominazione della società, di sfruttamento micidiale della manodopera salariata?

Questo interrogativo mi si pone anche a livello spicciolo. Ricordo una cena con amici, nella quale magnificavo l’apertura al futuro della Cina, e mi dicevo felice di frequentare un paese nel quale le tematiche sociali erano a fior di pelle, lo sviluppo, l’emigrazione interna, la costituzione di una classe media, e quindi lo shock degli individui per trasformazioni che li portano nello spazio di trent’anni dal villaggio povero in campagna alla metropoli avveniristica. Paragonavo la ricchezza del discutere di Cina in Cina con l’irrealtà di ogni discussione sull’Italia in Italia, i temi farlocchi imposti al dibattito da piccole convenienze politiche, l’incapacità di prendere atto delle difficoltà del vivere e farne oggetto di riflessione, le occasioni per sfoghi verbali senza nessuna capacità né voglia di approfondire le questioni, di ragionarne in modo piano. E mi capitò di dire che sì, in Cina poi c’era la censura e questo era straordinario perché ogni scrittore doveva misurarsi con essa, fatto concretissimo che svelava le attitudini di ciascuno, la sua stoffa. Mi brillavano gli occhi, e stavo parlando di censura: venni ripreso da un amico, giustamente.



Altrove accadde il contrario: quando discutevo con sinologi, persone che con la Cina lavorano. C’è una rivista che porta in Italia, in lingua italiana, racconti di autori contemporanei cinesi, ma è la traduzione in forma antologica di una rivista cinese, pubblicata come è naturale da un organo dello stato cinese e quindi composta secondo criteri di censura: insomma, ci si trova a valle di scelte repressive della libertà di pensiero. Quando feci notare la cosa alle due stimatissime amiche che la curano, l’inevitabile risposta fu: ma come, sono anni che ci battiamo perché si parli di Cina in Italia, e ora tu critichi questa occasione. 
Beninteso, non si pensi che la censura sugli scrittori in Cina comporti l’ostracismo assoluto o il gulag per legioni di autori. Anzi, negli ultimi anni perfino a voci scomode e critiche è stato consentito di venire a galla, anche sulle pagine della rivista in questione, sempre però con testi dai quali fosse espunta ogni critica. A me vengono in mente i metodi che utilizzava il fascismo in Italia: era ovvio che molti fossero critici nei confronti del regime, e non finivano certo tutti in galera. Ma ad esempio quando si impose ai docenti universitari l’obbligo di prendere la tessera del Partito Fascista, solo una manciata di questi rifiutò, e perse il posto. In Cina la repressione delle idee prende analogamente la forma di un’autocensura previa di ciascuno sul proprio operare, e di un’autocensura delle case editrici, in questo caso delle riviste. Una repressione subdola, perché difficile da identificare con chiarezza, non c’è mai una linea definita.

Si tratta di fare spallucce, e dimenticare certi temi, e certi toni, e magari di abbandonare al loro destino di paria i colleghi meno fortunati, per non parlare di quelli che passano la vita agli arresti domiciliari.
Anche in Italia, di fronte agli interrogativi etici sul proprio operare e cooperare con una dittatura, si finisce con il fare spallucce. Insomma proprio noi, che dell’emergenza di una nuova Cina e di una nuova Asia abbiamo fatto oggetto di discussione, noi che indichiamo all’italietta nostrana spazi inesplorati, suggestioni, declinazioni differenti di temi consueti, noi che affermiamo stentorei: guardate gente, guardate laggiù perché da quei paesi non più lontani abbiamo molto da imparare per la loro vivacità, perché molto si muovono e si agitano, perché svolgono a modo loro il compito sul quale noi ci siamo arenati, insomma proprio noi rischiamo di chiudere gli occhi davanti allo scempio dei diritti umani e sociali.

È partito nei mesi scorsi un accenno di dibattito, tra gli operatori culturali legati alla Cina. Qualche voce coraggiosa (in Italia non si rischia certo la galera, ma il posto di lavoro si) ha provato a mettere sul piatto bocconi succulenti che molto poco sono stati raccolti. L’occasione era, certo, la rivolta di Hong Kong: lì si vive ora una pausa di riflessione, e qui allora il dibattito si è spento, peccato. Ma la responsabilità degli operatori culturali è immensa, in questioni siffatte: proprio noi dovremmo essere capaci di stare all’avanguardia. E considerando le fatiche degli editori, degli autori, degli operatori culturali in Cina, in qualche modo avremmo il dovere di essere all’altezza. 
La trappola autoritaria è quella di sempre: beh, in fondo non sono io l’unico a comportarmi in un certo modo, lo fanno tutti. E sì, certo, io critico, ma non c’è bisogno che alzi poi troppo la voce. Inutile farmi notare, no?

Nessun commento:

Posta un commento