Ho vissuto
due anni e mezzo a Pechino. Ed ero affascinato, sì, dalle trasformazioni, dalla
città che si espandeva all’esterno come una macchia d’olio costruendo quartieri
moderni e fabbriche e dormitori per milioni di giovani immigrati dalle
campagne, diventando loro operai da contadini poveri che erano, e tanti altri
ceto medio in corsa verso nuove vite così simili alle nostre, oltre il terzo
mondo e la subalternità all’occidente che durava da secoli. Il mondo
multipolare, le nuove società, le grandi metropoli d’Oriente mi facevano gola,
avevo voglia di vedere e di capire, di esserci. Ma da scrittore e editore che
incontrava scrittori e editori in Cina non ho potuto fare a meno di incocciare
la censura, la repressione furente delle idee, le lamentele di alcuni, la
malinconia di chi lasciava le pagine scritte nel cassetto o era obbligato a
cercare una pubblicazione all’estero, la frustrazione nel dover ammettere che
sì, certi pensieri e sensazioni erano ormai espunti dalle proprie pagine. Nel
2014, quando arrivò la notizia della prima rivoluzione degli ombrelli a Hong Kong,
i partecipanti a una riunione di artisti a Pechino autoconvocatisi per
discuterne, erano stati arrestati a grappoli e non si sapeva più niente di
loro, e a qualche giornalista occidentale era stato chiesto di lasciare il
paese, ma i loro assistenti cinesi pure erano spariti. Qualche ricercatore mi
raccontava i problemi del lavoro in fabbrica, le mille e mille rivolte
ambientali e operaie nel paese che si concludevano così spesso con arresti e
deportazioni. Insomma sì, tutto molto bello a Pechino e fascinoso, in
movimento, ma sotto a una cappa opprimente di negazione della libertà di
pensiero e azione.
A distanza
di anni il fascino resta, e soprattutto può essere condiviso: c’è finalmente un’onda
montante di attenzione per il gigante cinese destinato a divenire il gigante
assoluto. Sono lontani gli anni in cui i corrispondenti a Pechino lamentavano
la difficoltà di far passare in redazione una notizia, un racconto. Dovevano
inventarsi ogni volta la stranezza, la curiosità, lo spunto. Oggi la Cina ci
viene finalmente sbattuta in faccia già dai notiziari del mattino, se non altro
perché il braccio di ferro è iniziato – Trump, i dazi – e quindi c’è n’è da
parlare di risulta, e poi c’è questo fantasma, la Via della Seta, i Memorandum
of Understanding che il nostro governo firma o non firma, e la stampa ricorda
quanto la Cina stia penetrando il nostro sistema di infrastrutture, il porto di
Savona, forse quello di Trieste, la Pirelli, fino a tutto il dibattito sul 5G
gestito, chissà, da aziende cinesi. Insomma, la Cina è sulle pagine dei nostri
giornali. Ebbene, come conciliare l’entusiasmo di tutti noi che di Cina ci
occupiamo in vario modo, con la necessità imprescindibile di criticare il
regime, di prendere distanze dalla repressione feroce della minoranza musulmana
in Xinjiang e del movimento democratico a Hong Kong, dal modello oligarchico di
dominazione della società, di sfruttamento micidiale della manodopera
salariata?
Questo
interrogativo mi si pone anche a livello spicciolo. Ricordo una cena con amici,
nella quale magnificavo l’apertura al futuro della Cina, e mi dicevo felice di
frequentare un paese nel quale le tematiche sociali erano a fior di pelle, lo
sviluppo, l’emigrazione interna, la costituzione di una classe media, e quindi
lo shock degli individui per trasformazioni che li portano nello spazio di
trent’anni dal villaggio povero in campagna alla metropoli avveniristica.
Paragonavo la ricchezza del discutere di Cina in Cina con l’irrealtà di ogni
discussione sull’Italia in Italia, i temi farlocchi imposti al dibattito da
piccole convenienze politiche, l’incapacità di prendere atto delle difficoltà
del vivere e farne oggetto di riflessione, le occasioni per sfoghi verbali
senza nessuna capacità né voglia di approfondire le questioni, di ragionarne in
modo piano. E mi capitò di dire che sì, in Cina poi c’era la censura e questo
era straordinario perché ogni scrittore doveva misurarsi con essa, fatto
concretissimo che svelava le attitudini di ciascuno, la sua stoffa. Mi
brillavano gli occhi, e stavo parlando di censura: venni ripreso da un amico,
giustamente.
Altrove
accadde il contrario: quando discutevo con sinologi, persone che con la Cina
lavorano. C’è una rivista che porta in Italia, in lingua italiana, racconti di
autori contemporanei cinesi, ma è la traduzione in forma antologica di una
rivista cinese, pubblicata come è naturale da un organo dello stato cinese e
quindi composta secondo criteri di censura: insomma, ci si trova a valle di
scelte repressive della libertà di pensiero. Quando feci notare la cosa alle
due stimatissime amiche che la curano, l’inevitabile risposta fu: ma come, sono
anni che ci battiamo perché si parli di Cina in Italia, e ora tu critichi
questa occasione.
Beninteso,
non si pensi che la censura sugli scrittori in Cina comporti l’ostracismo
assoluto o il gulag per legioni di autori. Anzi, negli ultimi anni perfino a
voci scomode e critiche è stato consentito di venire a galla, anche sulle
pagine della rivista in questione, sempre però con testi dai quali fosse
espunta ogni critica. A me vengono in mente i metodi che utilizzava il fascismo
in Italia: era ovvio che molti fossero critici nei confronti del regime, e non
finivano certo tutti in galera. Ma ad esempio quando si impose ai docenti
universitari l’obbligo di prendere la tessera del Partito Fascista, solo una
manciata di questi rifiutò, e perse il posto. In Cina la repressione delle idee
prende analogamente la forma di un’autocensura previa di ciascuno sul proprio
operare, e di un’autocensura delle case editrici, in questo caso delle riviste.
Una repressione subdola, perché difficile da identificare con chiarezza, non
c’è mai una linea definita.
Si tratta di
fare spallucce, e dimenticare certi temi, e certi toni, e magari di abbandonare
al loro destino di paria i colleghi meno fortunati, per non parlare di quelli
che passano la vita agli arresti domiciliari.
Anche in
Italia, di fronte agli interrogativi etici sul proprio operare e cooperare con
una dittatura, si finisce con il fare spallucce. Insomma proprio noi, che
dell’emergenza di una nuova Cina e di una nuova Asia abbiamo fatto oggetto di
discussione, noi che indichiamo all’italietta nostrana spazi inesplorati,
suggestioni, declinazioni differenti di temi consueti, noi che affermiamo
stentorei: guardate gente, guardate laggiù perché da quei paesi non più lontani
abbiamo molto da imparare per la loro vivacità, perché molto si muovono e si
agitano, perché svolgono a modo loro il compito sul quale noi ci siamo arenati,
insomma proprio noi rischiamo di chiudere gli occhi davanti allo scempio dei
diritti umani e sociali.
È partito
nei mesi scorsi un accenno di dibattito, tra gli operatori culturali legati
alla Cina. Qualche voce coraggiosa (in Italia non si rischia certo la galera,
ma il posto di lavoro si) ha provato a mettere sul piatto bocconi succulenti
che molto poco sono stati raccolti. L’occasione era, certo, la rivolta di Hong
Kong: lì si vive ora una pausa di riflessione, e qui allora il dibattito si è
spento, peccato. Ma la responsabilità degli operatori culturali è immensa, in
questioni siffatte: proprio noi dovremmo essere capaci di stare
all’avanguardia. E considerando le fatiche degli editori, degli autori, degli
operatori culturali in Cina, in qualche modo avremmo il dovere di essere
all’altezza.
La trappola
autoritaria è quella di sempre: beh, in fondo non sono io l’unico a comportarmi
in un certo modo, lo fanno tutti. E sì, certo, io critico, ma non c’è bisogno
che alzi poi troppo la voce. Inutile farmi notare, no?
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