Prendendo a prestito un’espressione dal
linguaggio dell’esegesi biblica, si potrebbe dire che le dimissioni di Lorenzo
Fioramonti dal Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca sono un “segno
contraddetto”. Un segno politicamente profetico: cioè un giudizio chiaro e
critico sulla realtà, e dunque l’annuncio di una possibile diversità. Ma,
appunto, un segno contraddetto: non riconosciuto come tale, contestato, non
compreso. Un gesto radicalmente antisistema: che il sistema, dunque, rigetta.
In Italia i ministri si dimettono
(quando, raramente, si dimettono) se travolti dallo scandalo, o più raramente
per questioni politiche, per esempio per un cambio di maggioranza. Non ha forse
precedenti nella storia repubblicana il caso di un ministro che si dimette
perché il governo di cui fa parte, e dunque in primo luogo il suo presidente
del Consiglio, non gli ha permesso di fare il proprio lavoro, onorando il
giuramento sulla Costituzione.
Naturalmente, alcuni suoi colleghi di
partito (o di movimento: ma davvero nulla cambia se non la parola) lo hanno
immediatamente attaccato: accusandolo di codardia, diserzione, “animabellismo”.
E così ha puntualmente fatto la stampa organica al governo. Segni tristissimi
del sistema in cui si è così velocemente cristallizzata una forza politica che
si diceva antisistema.
Ma la realtà è un’altra: ed è tanto
lineare da essere incomprensibile per chi ragiona con la mentalità irreale
della politica politicata. Dopo aver ben compreso, durante il disastroso
dicastero Bussetti, quale fosse il limite minimo di galleggiamento della scuola
e dell’università italiane in fatto di finanziamenti, Fioramonti aveva messo
come condizione della sua accettazione del posto da ministro il raggiungimento
di quel limite. In soldoni: due miliardi per la scuola, un miliardo per
l’università. Alla fine, le necessità minime della scuola sono state
soddisfatte, ma quelle dell’università no. Giuseppe Conte ha trovato in poche
ore 900 milioni per la Popolare di Bari, ma in tutti i mesi del suo secondo
governo non ha voluto mettere sul tavolo un miliardo per l’università italiana.
Fioramonti ha aspettato fino a quando la sua sconfitta non è stata certificata
dal voto finale sulla legge di stabilità. Pochi giorni prima di Natale ha
parlato con Conte e Mattarella, che sono stati capaci di dirgli soltanto che lo
capivano, e che la sua posizione era seria e rispettabile: ma non hanno alzato
un dito per creare le condizioni per farlo rimanere.
E così, alla fine, Fioramonti ha fatto
quello che aveva detto: debolezza evidentemente imperdonabile per un politico
italiano. Aspettare ancora, rimanere dopo la finanziaria, avrebbe voluto
dichiarare che l’obiettivo era cambiato: dal servizio alla scuola e
all’università alla gestione del proprio potere. Perché una cosa è evidente:
dimettendosi, Fioramonti si è suicidato, sul piano politico. Nessuno capirebbe
un suo sostegno “esterno” a quel Conte che ne ha determinato le dimissioni con
una scelta così grave. Né credo che un ennesimo gruppo parlamentare di
transfughi avrebbe alcun senso. La logica della situazione dice che, presto o
tardi, il futuro di Fioramonti sarà il ritorno alla sua vita di professore: a
quella vita “altra” dalla politica che gli ha consentito una libertà, un
coraggio e una determinazione che i professionisti della politica (inclusi
quelli, nuovissimi e tristissimi, a cinque stelle) non potranno mai avere.
Ma, a modo suo, Fioramonti non è uno
sconfitto: anzi è uno che ha con questo gesto ha avuto uno straordinario
successo. Ha scritto Michael Walzer: «Il successo così come viene misurato dal
mondo non è il metro adatto a valutare la critica sociale. Il critico si misura
dalle tracce che recano coloro che lo ascoltano e leggono le sue opere, dai
conflitti che egli li costringe a sperimentare, non solo nel presente, ma anche
nel futuro, e dai ricordi che quei conflitti lasciano. Egli non riscuote
successo convincendo la gente – poiché a volte ciò è semplicemente impossibile
– quanto mantenendo viva la discussione critica. Buber si sentì abbastanza
spesso come un profeta nel deserto, ma la reazione giusta a questa sensazione,
egli scrisse, non “è ritirarsi nel ruolo dello spettatore silenzioso, come fece
Platone”. Il profeta deve continuare a parlare, “deve trasmettere il suo
messaggio. Verrà frainteso, mal interpretato, usato in maniera impropria, o
potrà persino rafforzare e indurire la gente nella sua mancanza di fede. Ma il
suo pungiglione brucerà dentro di loro per tutto il tempo”».
Allora, la cosa davvero importante è
riflettere su chi sono i “loro” nei quali, in queste ore, brucia il pungiglione
di Fioramonti. A mio giudizio sono tre: il Movimento 5 Stelle, il governo
Conte, l’università italiana.
Fioramonti che lascia la poltrona (e in
prospettiva la politica) perché non è riuscito a ottenere il risultato minimo
necessario al cambiamento, ricorda ai Cinque Stelle la ragione per cui sono
nati: cambiare questo Paese. Arrivati al potere, l’hanno completamente
dimenticata: e infatti alle elezioni vengono massacrati, e avanti di questo
passo finiranno con lo sparire. Qualunque esponente del Movimento prenderà
quella poltrona senza ottenere quel miliardo mancante, finirà con l’essere il
certificato vivente del tradimento di un Movimento capace di cambiare solo la
vita dei miracolati che ha portato nei palazzi romani.
Quanto al Conte bis, un
ministro (e di quale ministero!) che sbatte la porta, fa capire che sarebbe
possibile cambiare: se solo lo si volesse. Se davvero questo governo tiepido,
flaccido, insapore volesse fermare l’ascesa di Salvini, investire in
istruzione, ricerca, università sarebbe la prima cosa da fare. La sconfitta di
Fioramonti dice, invece, che il presidente del consiglio è nudo: e cioè che il
fine di questo governo è solo stare al governo. Punto e basta.
Infine, c’è il magico mondo
dell’università italiana, cui appartengo anche io che scrivo. Una settimana fa,
la Conferenza dei rettori ha detto per la prima volta che è a rischio «la
tenuta del sistema universitario». Lo ha scritto a Mattarella, per sostenere le
richieste di Fioramonti. Ebbene, ora che è evidente che tutto è stato inutile,
i rettori stessi dovrebbero chiamare alla mobilitazione. E se le cappe di
ermellino vietano ai magnifici rettori movimenti troppo rapidi, dovremmo essere
noi professori a farlo: o infine gli studenti! In un paese minimamente ancora
reattivo, le università dovrebbero essere occupate, gli esami sospesi, le tesi
bloccate. È Natale, è vero: siamo tutti in vacanza. Ma quando la casa brucia,
si può restare a casa?
Il segno delle dimissioni di Fioramonti
è un segno grave e fatale. Indica la presenza di un bivio che da una parte
porta a una mobilitazione di massa del mondo universitario, fino a una
rifondazione dell’università pubblica; ma dall’altra porta a una sua massiccia
privatizzazione, a un sistema a due velocità (che sarebbe la definitiva
condanna del Mezzogiorno), a un tradimento del progetto costituzionale, e in
definitiva a un colpo micidiale alla nostra democrazia. Siamo ancora in tempo
per scegliere la prima strada. Ma queste clamorose dimissioni natalizie
potrebbero essere l’ultimo avvertimento.
L’articolo è
pubblicato anche su MicroMega
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