Il titolo dell’incontro (Felicità ai tempi della fine della crescita,
promosso nell’ex Asilo Filangeri di Napoli) ci suggerisce un
movimento di uscita secca dal paradigma economico (vero dominatore della
modernità, assieme a una sua parente stretta: la tecnologia) verso
qualcos’altro, che rimane tuttavia ancora difficile da intuire e da immaginare.
Infatti, se l’economa è diventata “il tutto” (il fine e il mezzo della
cooperazione sociale), se l’economicismo ha invaso ogni spazio del pensiero e
dell’azione umana, così come l’economia politica ha fagocitato l’intera
politica, allora la dimensione non-economica, ultaeconomica, l’aneconomico
(per dirla con Derrida), è difficile persino da concepire, crea sgomento, come
quando ci troviamo di fronte al vuoto e all’ignoto.
Per questo motivo “tattico” a molti oppositori del sistema economico
dominante sembra più facile proporre la strada della “risignificazione” del
campo semantico dell’economia, aggettivandolo, emendandolo e qualificandolo,
piuttosto che abolire il sistema economico nella sua interezza. Fuoriuscire dal
giogo dell’economa, come scrive Anselm Jappe, Uscire dall’economia.
L’idea prevalente nei movimenti alternativi (anche in quelli più trasformativi,
che sostengono che “un altro mondo è possibile”) è quella di far uscire la
società da un determinato sistema economico (variamente qualificato come:
liberista, capitalista, estrattivista, mercantile, statalista, patriarcale,
etno e antropocentrico…) per farla entrare in un altro sistema economico (in
una una nuova economia de-economicizzata, se così si può dire) che sia più
socialmente connotato, più sostenibile, equilibrato, equo, inclusivo, capace di
prendersi cura delle vite di tutte le persone (umane e non umane) presenti e
future sulla faccia della Terra.
La tesi radicale che sostiene Serge Latouche nei suoi lavori più
problematici e impegnativi di storia del pensiero economico, in particolare
in: L’invenzione dell’economia, [Bollati e Boringhieri (2005) 201] è
che non sia possibile uscire dalla crisi sistemica epocale della civiltà
contemporanea senza mettere sotto accusa in toto il suo fondamento pratico e
teorico: l’economia nel suo insieme e nella sua essenza (leggi anche Uscire
dall’economia, ndr).
Non è facile entrare in questo ordine di idee, poiché siamo abituati a
pensare all’economia come qualche cosa di indispensabile a soddisfare i bisogni
fondamentali di ogni persona. Non è facile riuscire a immaginare una società
che possa pensarsi libera dalla necessità di strutturarsi in funzione delle
proprie esigenze di sussistenza e riproduzione, cioè principalmente materiali,
se accettiamo una definizione ampia e generica di economia come “le attività e
i mezzi volti a soddisfare i bisogni umani” (Ina Praetorius, L’economia
è cura. La riscoperta dell’ovvio, IOD Edizioni, 2016). Anche Latouche
ammette che sono sempre esistite pratiche economiche concrete, “sostanziali”
(come le definiva Polanyi. Un filone ripreso e aggiornato recentemente dagli
economisti che parlano di “Economia fondamentale”, in quanto “necessaria alla
vita quotidiana”) volte alla sopravvivenza, alla produzione del “pasto
quotidiano” e a soddisfare la “necessità naturale” di “fuggire in primo luogo
il più grande dei mali che sono in natura: la morte” (Hobbes). Tant’è che
persino nelle società animali – scrive con una punta di ironica polemica
Latouche – potremmo individuare dei comportamenti “economici”, cioè
utilitaristici.
Non è quindi questa l’economia (informale, consustanziale alla vita) da
cui Latouche intende “uscire senza mezzi termini”. In realtà il campo semantico
dell’economia (nell’immaginario sociale e nella realtà) è molto più complesso:
investe tutte quelle attività che interagiscono con l’ambiente, che sono utili
a fornire i mezzi materiali e i flussi di beni che permettono la riproduzione
della società: produzione, circolazione, distribuzione, ripartizione, consumo …
di beni e servizi, materiali e immateriali, fisici e simbolici.
Latouche vuole mettere sotto critica, demitizzare e decostruire il lungo
processo (incominciando dalla Grecia antica, e sicuramente prima
ancora) di invenzione di un ordine sociale all’intero del quale l’azione
economica si separa progressivamente dalle altre condotte
umane (religiose, familiari, amicali, comunitarie, conviviali,
ludiche…), si autonomizza dalle altre forme di pensiero (si emancipa
dalla filosofia morale), si dà un proprio statuto di presunta
scientificità (al pari delle “scienze dure”, che studiano i fenomeni
naturali), autodefinisce la propria essenza “naturale” e
“universale” (indipendente dalla storia, dalle culture, dalle tradizioni
specifiche dei popoli), crea le sue istituzioni (moneta, commercio,
mercato, proprietà, lavoro retribuito…), elabora i presupposti ideologici
su cui plasmare un idealtipo umano omogeneo: l’homo oeconomicus. Quella
visione economica del mondo che conduce all’affermazione dell’individualismo
ontologico e metodologico, del soggetto autonomo, sovrano, “animale
desiderante” alla ricerca del piacere, della ricchezza, del potere esclusivo –
per risalire ad Aristotele. Un processo alla fine del quale, l’economia
trionfa, sia come pratica concreta che come teoria attraverso una successione
di strappi e di accelerazioni impressionanti (legati soprattutto alle continue
rivoluzioni tecnologiche generate dalle “sperimentazioni” in campo militare) e
giunge a invadere tutto lo spazio sociale, a condizionare le relazioni
interpersonali (a partire da quelle lavorative), riuscendo a imporre le sue
logiche regolative, la sua morale, la sua etica utilitaristica,
produttivistica, proprietaria. Con le conseguenze che ben abbiamo imparato
a conoscere: predazione delle risorse naturali e distruzione della biosfera, sfibramento
dei legami sociali solidali, diseguaglianze e ingiustizie, istupidimento,
competitività, aggressività e violenza … L’homo oeconomicus è
in realtà più lupus che sapiens (Thomas
Hobbes va preso tragicamente sul serio).
Viviamo oramai in una società interamente “economicizzata”, dominata
dalla ragione e dalla logica economica. Una società paneconomica. Una società
di mercato capace di misurare, prezzare e mercificare ogni cosa e ogni
relazione. L’economia è diventata la regina incontrastata delle scienze sociali.
Il suo linguaggio calcolatore (crediti e debiti, costi e benefici, dare e avere
…) è diventato universale, esclusivo. Altri tipi di valutazione delle cose e
delle azioni che non siano monetari sono relegati in ambiti privati, non
influenti sul piano politico.
In questa situazione facciamo quindi già molta difficoltà a ipotizzare
l’esistenza anche solo di forme di economie “altre”, diverse dall’iperliberismo
turbocapitalista. Figurarsi se riusciamo a immaginare un mondo non-economico,
una società aneconomica. Capace, cioè, di soddisfare i propri bisogni senza
ricorrere alle leggi auree dell’economia (domanda e offerta, plusvalore e
investimenti, capitale e lavoro, rendite e salari, ecc.).
La sfida di Latouche (liberarci dall’antropologia economicista), quindi,
è molto alta, investe nel profondo il sentire comune delle persone prima ancora
che la teoria dell’economia politica. Tuttavia – egli afferma – è una battaglia
ideale, culturale e pratica indispensabile da ingaggiare se vogliamo davvero
uscire dal modello di civilizzazione occidentalizzante del mondo.
Non basta infatti dare all’economia “una colorazione verde o di socialità
ed equità, immettendo dosi più o meno forti di regolazione statale o di
ibridazione con la logica del dono e della solidarietà.” (p. XI). Bisogna
andare a scalfire l’essenza del pensiero economico che è riduzionista,
funzionalista, utilitarista, antropocentrica. E, aggiungo
io, androcentrica e specista.
In questa opera di disvelamento dell’essenza
dell’economia Marx e il marxismo non ci sono di grande aiuto poiché
anch’essi “adottano il paradigma dell’uomo padrone e dominatore della natura”,
mentre il socialismo “si accontenta di abolire la società borghese per
consegnarla ai lavoratori” (p.71). Non basta socializzare i mezzi di produzione
per uscire dall’angusto dominio dell’economico, Né distribuire in modo più equo
i dividendi sociali, “a valle”.
Anche le affannose ricerche, oggi molto alla moda, di formule che
promettono di rendere compatibili i business con l’ambiente e l’equità sociale
(Environmental Social Governance, Corporate Social Responsability,
Sustainable and Responsible Investment, Impact Investing, ecc.) appaiono
del tutto inadeguate rispetto alla crisi sistemica, epocale in corso. Al
massimo, le più avanzate e “innovative” proposte di riforma delle politiche
economiche oggi sul tappeto (quando non sono palesemente delle truffe, Fake
Sustainability) chiedono di regolare e responsabilizzare gli attori
economici (il sistema delle imprese e della finanza) per riuscire a mitigare
gli effetti più devastanti che i loro comportamenti causano alla biosfera, alle
comunità umane e ai singoli individui. Si limitano a ipotizzare nuovi “modelli
di sviluppo” (cioè di espansione della sfera economica), nuovi sistemi di business e
di governance “multi fattoriali”, capaci di introiettare nei
loro bilanci non solamente gli interessi degli azionisti, ma anche quelli degli
abitanti della Terra. Tuttavia il traguardo della Triple Botton Line,
che contempla Profit, People and Planet, si allontana sempre di più
(vedi il Rapporto dell’European Environmental Bureau, Decoupling
Debunked. Evidence and arguments against green growth as a sole strategy for
sustainability). Così l’economia si fa un po’ più “civile”, un po’ più
“green”, più “bio”, un po’ meno sprecona e più “circolare”, più “inclusiva”, “condivisa”
e “solidale”, persino più “umana”… Ma resta saldamente “economia”! Cioè, ancora
ancorata ai parametri della ricerca della massima produttività dei fattori
impiegati, del massimo rendimento dei capitali investiti… insomma dalla
crescita! (Intesa come volume del valore monetario delle merci prodotte e
scambiate, cioè del Pil). Questa è la legge ferrea non solo del capitalismo, ma
dell’economia in quanto tale. Ci dice Latouche e, prima di lui, André Gorz,
Claudio Napoleoni, Giorgio Ruffolo e altri ancora: l’economia è il campo dove
si coltiva la crescita. Ed oggi (nell’Antropocene) l’umanità ha bisogno di
tutto fuorché di crescere.
Tuttavia, per riuscire a comprendere il successo di questo modello di
civiltà fondato sulla crescita economica (e cercare di trovare il modo in cui
poterlo sconfiggere) ci dobbiamo chiedere quali sono le ragioni
dell’avvento della teologia della crescita, della divinizzazione del denaro,
del feticismo delle merci. Ritengo, molto banalmente, che ciò derivi dal fatto
che per una parte non piccola delle popolazioni delle nazioni che per prime
hanno imboccato la via della seconda rivoluzione industriale
(fordista-keynesiana) la crescita economica ha coinciso con un aumento delle
dotazioni materiali, un maggiore autonomia economica, un allargamento delle
libertà civili e persino un senso di riscatto e di appagamento. La fortuna
dell’egemonia culturale che ancora oggi esercita la American way of
life resiste a dispetto della decadenza dell’impero che l’ha
concepita.
Non riusciamo, quindi, ad immaginare un sistema di vita diverso. Ha detto
un saggio: “È più facile immaginare la fine del mondo che la fine del
capitalismo” (Frase di difficile attribuzione, tra Slavoj Žižek e Fredric
Jameson). Figuriamoci la fine dell’economia.
Siamo infatti rimasti incastrati in una società dove la nostra esistenza
dipende oramai (quasi) completamente dalla nostra “capacità economica”, dalla
solvibilità sul mercato, dalla disponibilità monetaria, dall’accesso al
credito. Senza denaro non riusciamo a soddisfare le necessità più elementari.
Tutto è a pagamento. Dall’accudimento dei bambini alle cure degli anziani, dal
cibo alle medicine, dall’abitazione alla mobilità. Senza denaro ci sono solo le
mense della Caritas! E i modi per procurarsi del denaro non sono molti:
mettersi sul mercato e rendersi disponibili a qualsiasi tipo di prestazioni in
cambio di compensi.
Le nostre società “tardomoderne” sono entrate in un circuito paradossale:
per salvare la Terra (conversione ecologica, mitigazione, adattamento…) e per
arrivare anche alla fine del mese (parafrasando lo slogan dei gilet gialli)
servono più soldi, più investimenti, più lavoro retribuito, più occupazione.
Per avere le risorse necessarie a riconvertire le produzioni energetiche e
ridurre le povertà è stato calcolato che il Pil dovrebbe crescere di 3 o 4
punti all’anno. La politica viene quindi chiamata a creare le condizioni
(stimoli, incentivi, opportunità, infrastrutture …) affinché si investano
capitali, si produca e si consumi sempre di più. Dimenticando che le leggi
ferree dell’economia ci hanno insegnato che per fare più utili serve abbattere
i costi dei fattori di produzione a iniziare dalla terra e dal lavoro, dal
prelievo delle risorse naturali e dal costo del lavoro degli esseri umani. Il
cane finisce così per mordersi la coda. Tra crescita e sostenibilità – nel
cotesto economico – si instaura un “doppio legame” schizoide. È impossibile
ottenere ambedue le cose. Ogni punto di Pil – calcolava anni fa Giorgio Nebbia
– si porta con sé 893 milioni di tonnellate di materia estratta dalla natura.
La fisiologia dell’economia dei soldi è diversa da quella del’economia della
natura, se così possiamo chiamare i complessi cicli bio-geo-chimici che
regolano e rigenerano la vita sulla Terra. Possiamo immaginare di
“efficientare” i cicli produttivi, i trasporti, le abitazioni… ma è impossibile
ipotizzare alla “angelizzazione del Pil” (la battuta è di Herman Daly, l’autore
di Beyond Growth), cioè ad una completa de-materializzazione delle
merci. Per sperare di contenere le emissioni di gas climalteranti, ad
esempio, è stato calcolato che i paesi ricchi dovrebbero diminuire i loro
consumi di circa il 6 per cento ogni anno. L’antropologo Jason Hickel (The
Divide. Guida per risolvere la disuguaglianza globale, il Saggiatore,
2018) ha scritto che una strategia di ridimensionamento dei consumi di
tale portata si può trasformare in un collasso socio-economico se ogni paese
non adotta una politica di decrescita. Cioè una politica di riduzione mirata,
programmata, condivisa delle attività antropiche.
I libri di Latouche e di molti altri economisti non ortodossi, ci
spiegano che il libero mercato non è mai esistito. Che la competizione tra gli
agenti economici non si compone in nessuno spontaneo equilibrio. Che gli
interessi egoisti dei singoli individui non generano alcun bene comune. Che la
“mano invisibile” è in realtà manovrata dal braccio di ferro del mostro
Leviatano. Che il benessere conta, ma conta anche come lo si raggiunge e a
quale prezzo. Che l’economia non è affatto la regola di vita generale
razionale, logica, imparziale, asettica, “scientifica” a cui ogni essere umano
è tenuto a conformarsi per raggiungere l’armonia e la felicità di tutti. Ma è
solo uno dei tanti campi di battaglia (oltre a quelli giuridico, medico,
urbanistico, artistico, politico …) dove si confrontano visioni del mondo,
sistemi di valori, interessi e rapporti di forza contrastanti.
L’economicizzazione della società (resa possibile grazie alla
ideologizzazione dell’economa politica) è stata funzionale agli interessi dei
ceti sociali dominati. L’economia è stata forse la principale arma che ha
consentito di perpetuare il potere delle classi dei possidenti e di subordinare
le altre.
Uscire dalla logica economica – magari per gradi – significa quindi
imboccare una strada di liberazione e di emancipazione politica. Oltre che di
riparazione del buon funzionamento della biosfera. Per incominciare a
intraprendere questa strada occorre però riuscire a sostituire all’utilitarismo
produttivista e consumistico altri parametri di riferimento, altri paradigmi
antropologici, altri valori ideali, quali: la cooperazione, la
solidarietà, la reciprocità, la mutualità… attraverso l’empatia. Oltre alla
“economia della natura” va messa in campo l’“economia dei sentimenti”,
rivalutando il libro dimenticato di Adam Smith (Teoria dei sentimenti morali),
li dove scriveva che “una società è fiorente e felice” quanto più stretti sono
i vicoli dell’affetto, i legami di gratitudine, l’assistenza e l’amore
reciproci e disinteressati.
Non so se in una società del genere potremo ancora chiamare “economiche”
le azioni e le politiche volte agli obiettivi della riduzione degli impatti
ambientali, della diminuzione delle diseguaglianze sociali, della cura delle
relazioni umane, dell’aumento delle capacità di autogoverno delle
comunità locali, della realizzazione delle persone. O se dovremmo
chiamarle semplicemente attività di cura di sé, degli altri, del mondo. Come ha
scritto Ina Praetorius: “forme di esistenza tra cura, arte ed ecologia”.
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