“Pane
e coraggio ci vogliono ancora che questo mondo non è cambiato. Ma
soprattutto ci vuole coraggio a trascinare le nostre suole, da una terra
che ci odia ad un’altra che non ci vuole”
(Ivano
Fossati)
Era il 4 novembre 2018 quando, dopo due mesi
di lavoro sul campo insieme al Collettivo Checkmate,
sono rientrato in Italia per raccontare quel che succede alle porte dell’Unione
Europea, lungo una linea immaginaria che tuttavia è terribilmente reale e
sferra botte, umilia, respinge tutti coloro che non hanno i requisiti per
poterla oltrepassare.
Sono da poco tornato lungo la frontiera
bosniaco-croata e le violenze continuano, nonostante le continue denunce da
parte di associazioni, giornali e attivisti.
Quanto si dovrà attendere ancora prima di
porre fine alle quotidiane violazioni dei Diritti Umani che si verificano lungo
tutto il perimetro dei confini dell’Unione Europea?
La frontiera bosniaco-croata è oramai
diventata il più evidente simbolo d’ipocrisia e di fallimento di un’Unione che
sbandiera “unità nella diversità” come suo motto, che risulta però totalmente
incapace di tradurre l’essenza di queste parole in pratica quotidiana.
“Aspettiamo
qui al campo fino a marzo, poi cercheremo di ripartire. Fa troppo freddo
di notte e si rischia di morire”
Ali è un iracheno partito da Bagdad ormai due
anni fa. Porta sulla pelle i segni della “tempesta nel deserto”, bombardamenti
aerei che vennero scagliati addosso a Iraq e Kuwait durante la prima Guerra del
Golfo e che mieterono moltissime vittime civili.
Ali si appoggia a una stampella, ha il corpo
dolorante ed è la seconda volta che si trova lungo le rotte dei Balcani. La
prima, nel 2008, l’avevano lasciato passare. Era riuscito a raggiungere la
Svezia, terra in cui ha lavorato per alcuni anni prima di dover tornare a
Bagdad per stare al fianco della madre, durante i suoi ultimi anni di vita. Ali
si è poi ritrovato costretto a ripercorrere nuovamente il viaggio via terra; in
Svezia aveva un permesso di soggiorno legato al suo contratto di lavoro
temporaneo. La moglie di Ali vive in Finlandia e lui spera di rivederla
presto.
“L’Unione
Europea si presenta come terra misericordiosa. Sono tutte bugie, ci stanno
mentendo.”
In questo momento si trova al campo Miral,
alle porte di Velika Kladusa, città che dista pochi chilometri dalla frontiera
croata. E’ stato trasferito all’incirca un mese fa, dopo che l’11 dicembre
l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM) ha dichiarato la
chiusura del campo di Vucjak, in cui oltre mille persone hanno vissuto, per
lunghi mesi, in condizioni disumane.
Il centro d’accoglienza Miral, dedicato
esclusivamente all’accoglienza di uomini singoli, è uno dei cinque centri
d’accoglienza presenti nel cantone di Una-Sana, gestiti
dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), ed è stato aperto
nel novembre del 2018 dopo lo smantellamento del campo spontaneo di Velika
Kladusa, per molti mesi rifugio temporaneo per centinaia di persone.
L’OIM lavora congiuntamente all’Alto
Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (ACNUR), al Danish Refugee
Council e al Jesuit Refugee Service, costola internazionale del centro Astalli,
realtà nazionale che si occupa di rifugiati sin dal lontano 1981.
Il campo Miral, come tutti i centri
d’accoglienza presenti sul territorio della Bosnia ed Erzegovina, espone con
fierezza la bandiera dell’Unione Europea al suo ingresso.
La stessa Unione è pertanto chiamata a
intervenire e rispondere ai bisogni delle persone che vivono in questi spazi,
che non si possono in alcun modo definire luoghi di transito dal momento in cui
non sembra esserci alcuna possibilità di proseguire la propria emigrazione.
“Non
c’è acqua calda, il cibo è scadente, non c’è nulla da fare e gli addetti alla
sicurezza sono spesso violenti. Ci scagliano addosso la loro rabbia, ci
insultano urlandoci di tornare nel nostro paese; questo quel che è successo
ieri sera.”
Ali racconta che la sera del 5 gennaio, dopo
una rissa scoppiata a causa delle tensioni tra alcuni gruppi residenti
all’interno del campo, gli addetti alla sicurezza si sono scagliati
addosso ai presunti responsabili, infliggendo loro colpi di manganello e pugni
in pieno volto.
Il racconto di Ali non è in alcun modo un caso
isolato. Già nel gennaio del 2019 Are you Syrious?,
Ong nata nell’estate del 2015 dall’unione di alcuni attivisti croati,
condannava le violenze compiute all’interno del centro, rendendo pubblico
un video ricevuto
da un ospite del campo, che fuga ogni dubbio sulla veridicità di ciò che veniva
denunciato da mesi.
“Non
ho la carta d’identità del campo, dormo all’aperto o in qualche casa
abbandonata.”
Questo centro d’accoglienza può accogliere
fino a un massimo di 550 persone; molte, però, rimangono escluse sia da questa
sia dalle altre strutture presenti nel cantone Una-Sana, che si dichiarano
tutte al completo. Molti decidono tuttavia di sostare in questo territorio data
la sua vicinanza alla frontiera, presenza assillante per le persone bloccate in
queste terre.
Vite senza diritti, circondate
da interminabili respingimenti
“Viviamo
in condizioni terribili. Non abbiamo una casa, non abbiamo cibo e nemmeno
dell’acqua per farci la doccia.
Asan, ragazzo afgano diciannovenne, esprime
l’umiliazione di dover vivere nei sotterranei del mondo. Lui, come centinaia di
persone escluse dal sistema dell’accoglienza bosniaco, è costretto a vivere in
un’ex fabbrica abbandonata a pochi chilometri di distanza da Bihac, città
situata nel nord ovest della Bosnia che rappresenta, insieme a Velika Kladusa,
il luogo più vicino alla porta d’uscita dall’inferno.
Asan vive in una struttura abbandonata,
simbolo di una terra che non garantisce alcun futuro e teatro di violazione
quotidiana della Convenzione di Ginevra del 1951 che delinea lo statuto dei
rifugiati. Viola, nello specifico, l’articolo 33 che vieta il respingimento
verso territori in cui la vita dell’individuo e le sue libertà sono
minacciate “a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza,
della sua appartenenza ad un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche”.
Perché la vita di Asan, come quella di
migliaia di persone che si ritrovano intrappolate in Bosnia ed Erzegovina, ha i
movimenti impediti dalle discriminazioni circostanti. Non esistono solamente le
violenze fisiche e psicologiche dei respingimenti alla frontiera; la maggior
parte dei locali pubblici nega l’accesso ai “migranti” che si ritrovano
obbligati a vivere all’interno dei campi, quando possiedono la carta d’accesso
o, in molti casi, in case abbandonate, invisibili alla vista.
“Anche
noi siamo stati rifugiati, non più di 25 anni fa. Per questo capiamo le ragioni
che spingono queste persone a emigrare”
Biro, ufficiale di polizia in servizio da
molti anni a Velika Kladusa, parla dei primi arrivi in città. Racconta come
l’iniziale spinta ad accogliere, resa possibile da un istintivo processo
d’immedesimazione e riconnessione con il proprio passato, sembra aver perso la
presa a vantaggio dell’emersione di nuovi pregiudizi. Molti locali, continua
Biro, “si sono sentiti abbandonati
dalle istituzioni che si sarebbero dovute occupare di quest’emergenza” e
queste fatiche si sono riversate addosso ai nuovi arrivati.
La vita alla frontiera bosniaco-croata, oggi,
confina l’esistenza al solo perimetro del proprio corpo, fermo e immobile.
La frontiera è inoltre un lembo di terra in
cui si coltiva solamente odio e violenza. I respingimenti sono quotidiani e le
persone che ritornano dopo l’ennesimo “game”, così
viene crudamente definito il tentativo di superamento della frontiera in questo
parte del mondo, portano sul corpo i segni evidenti del rifiuto. Ho conosciuto
Abdil pochi giorni fa: il 5 gennaio l’ho accompagnato all’ospedale di Bihac,
dopo aver ricevuto una segnalazione di richiesta d’intervento da parte di No Name Kitchen,
associazione spagnola che opera ormai da tre anni lungo le rotte dei Balcani e
che condanna le violenze di frontiere attraverso il canale Boarding Violence
Monitoring Network, piattaforma nella quale si stanno accumulando
centinaia di testimonianze.
Abdil ha il corpo dolorante e gli occhi tinti
dell’umiliazione subita. Sale in macchina e, stremato, si addormenta al mio
fianco fino all’arrivo in ospedale. Le radiografie fotografano limpidamente
l’abuso di potere inflitto sul suo corpo. Ad Abdil sono state rotte due ossa,
della mano sinistra e dell’avambraccio destro.
Chi è da ritenersi responsabile di questa
violenza?
“L’Unione Europea deve
ritenersi responsabile di quel che sta succedendo”
Anas, con voce salda, chiede all’Europa di
porre fine a questa barbarie. Lo chiedono Abdullah, Emal, Ahmed, Samina, Rashid
e Imran, incontrati nel maggio del 2018 e ancora lì, al punto di partenza, in
attesa che la frontiera apra un varco. Lo chiedono tutte le persone che
incontro, stremate da un’interminabile attesa.
Insieme al Collettivo Checkmate, mi unisco al
loro grido affinché le voci e i messaggi intrappolati alle porte dell’Unione
Europea varchino i confini, per risvegliare un senso d’umanità che si sta
smarrendo, nel nome dell’integrazione europea.
(*) ripreso da www.pressenza.com
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