L’avevano
chiamato il “popolo del sì”, la “parte sana del Paese” che si ribella alla
dittatura dei NO-TUTTO, il 10 novembre dell’anno scorso. Erano stati battezzati
come quelli del “Basta con l’immobilismo di Torino” e della “Torino che si
ripulisce” (sic), nei commenti esilarati sulla Piazza Castello delle
“madamine” che chiamavano i SI TAV di tutto il mondo a unirsi. Paolo Griseri si
era spinto a definire le promotrici “le magnifiche sette”, celebrando il loro
storico e stentoreo “Torino non può restare isolata”. Era,
nella retorica “di sistema” che nell’occasione non aveva trovato limiti, la
“piazza pulita” di quelli che vogliono continuare a “credere nel futuro”, che
“pensano positivo”, che “non si arrendono”, e che alla fine – “Partito del si”
– salveranno la Nazione dal dispotismo del “Partito del No”.
Qualcuno li aveva paragonati anche alla “marcia dei 40.000” che nell’autunno dell’80 aveva chiuso la stagione del riscatto operaio, ma con un segno nobile, di modernismo e progressismo. A noi, di Volere la luna, era sembrata, quell’adunata in cui il colore prevalente non era stato l’arancione delle pashmine delle promotrici ma il grigio dei capelli dei partecipanti, un rimbalzo, fortemente regressivo, della Torino gozzaniana. Una sorta di grande, dilatato e affollato, salotto di nonna Speranza, segnato dalla nostalgia di una Torino che fu, inconsapevole delle sfide drammatiche del presente e del futuro, conformista fino all’autolesionismo nella subalternità alle logiche di Corte. Ma non sapevamo, allora – o per lo meno, lo sospettavamo e lo immaginavamo, ma non ne avevamo l’evidenza empirica – che tra i soprammobili e i velluti di quel salotto buono, mescolato al pubblico inconsapevole di quasi tutto, c’era anche qualche “invitado incomodo” – come direbbe il politologo latino americano Benjamin Arditi -, qualche ospite poco presentabile. Come dire? Un “omino nero” – più di uno -, per usare un topos della psicanalisi junghiana, qualcuno non troppo limpido, dagli affari non troppo puliti, che so?, un portatore di conflitto d’interessi, un colluso con cricche innominabili. Magari, dio ce ne scampi, uno ‘ndrangheto… Poi sono successe delle cose. Un mese fa, a un anno quasi esatto dalla manifestazione delle “madamine”, una delle figure che più si erano allora date da fare per celebrare la propria partecipazione allo storico evento, l’allora europarlamentare Lara Comi, era stata arrestata e finita ai domiciliari ”con le accuse di corruzione e truffa ai danni dell’Unione europea”. Da un paio di giorni figura nell’elenco dei “nuovi giunti” nel carcere torinese delle Vallette Roberto Rosso, che il 10 dicembre dell’anno prima era stato uno dei più ispirati aedi dell’impresa, proclamando che “lì c’è la Torino che produce, non quella dei professionisti della protesta o peggio della violenza… Quella piazza non è di nessuno se non di Torino e della sua provincia, cioè di un territorio che per troppi anni ha visto l’interesse dei tanti soccombere per quello dei pochi e che non ce la fa più” (esattamente così, testuale). E’ accusato di “scambio elettorale politico-mafioso” per l’acquisto di pacchetti di voti da rappresentanti di primo piano in Piemonte della cosca dei Bonavota (nomen atque omen) di Vibo Valentia.
Qualcuno li aveva paragonati anche alla “marcia dei 40.000” che nell’autunno dell’80 aveva chiuso la stagione del riscatto operaio, ma con un segno nobile, di modernismo e progressismo. A noi, di Volere la luna, era sembrata, quell’adunata in cui il colore prevalente non era stato l’arancione delle pashmine delle promotrici ma il grigio dei capelli dei partecipanti, un rimbalzo, fortemente regressivo, della Torino gozzaniana. Una sorta di grande, dilatato e affollato, salotto di nonna Speranza, segnato dalla nostalgia di una Torino che fu, inconsapevole delle sfide drammatiche del presente e del futuro, conformista fino all’autolesionismo nella subalternità alle logiche di Corte. Ma non sapevamo, allora – o per lo meno, lo sospettavamo e lo immaginavamo, ma non ne avevamo l’evidenza empirica – che tra i soprammobili e i velluti di quel salotto buono, mescolato al pubblico inconsapevole di quasi tutto, c’era anche qualche “invitado incomodo” – come direbbe il politologo latino americano Benjamin Arditi -, qualche ospite poco presentabile. Come dire? Un “omino nero” – più di uno -, per usare un topos della psicanalisi junghiana, qualcuno non troppo limpido, dagli affari non troppo puliti, che so?, un portatore di conflitto d’interessi, un colluso con cricche innominabili. Magari, dio ce ne scampi, uno ‘ndrangheto… Poi sono successe delle cose. Un mese fa, a un anno quasi esatto dalla manifestazione delle “madamine”, una delle figure che più si erano allora date da fare per celebrare la propria partecipazione allo storico evento, l’allora europarlamentare Lara Comi, era stata arrestata e finita ai domiciliari ”con le accuse di corruzione e truffa ai danni dell’Unione europea”. Da un paio di giorni figura nell’elenco dei “nuovi giunti” nel carcere torinese delle Vallette Roberto Rosso, che il 10 dicembre dell’anno prima era stato uno dei più ispirati aedi dell’impresa, proclamando che “lì c’è la Torino che produce, non quella dei professionisti della protesta o peggio della violenza… Quella piazza non è di nessuno se non di Torino e della sua provincia, cioè di un territorio che per troppi anni ha visto l’interesse dei tanti soccombere per quello dei pochi e che non ce la fa più” (esattamente così, testuale). E’ accusato di “scambio elettorale politico-mafioso” per l’acquisto di pacchetti di voti da rappresentanti di primo piano in Piemonte della cosca dei Bonavota (nomen atque omen) di Vibo Valentia.
Roberto
Rosso ha un consistente curriculum da militante SI TAV in servizio permanente
effettivo, tale da garantirgli un posto sicuro come giardiniere onorario nel
meleto delle madamine. E’ lui che il 20 maggio, insieme al collega Ghiglia,
aveva srotolato dal balcone del Municipio di Torino uno striscione con la
scritta a caratteri cubitali, rossi e neri, SI TAV e il simbolo “Giorgia Meloni
– Fratelli d’Italia”. Sempre lui, 20 giorni prima, aveva sfilato nel corteo del
Primo maggio ostentando la propria fede per il treno Torino-Lione, difeso da quello
stesso servizio d’ordine Pd e sindacale che aveva tenuto invece a distanza i NO
TAV. E ancora lui aveva dato battaglia nel centro-destra per non disertare la
seconda manifestazione delle “madamine”, il 17 maggio – quella meno partecipata
e più elettorale – motivando ciò con la necessità di “non lasciare a
Chiamparino il verbo Si Tav” (per Forza Italia ci sarà la solita Lara Comi, per
il Pd Maria Elena Boschi). Lo ritroviamo infine – ora Assessore regionale “alla
Legalità” (sic) – il 10 novembre di quest’anno, a “festeggiare
il compleanno della prima manifestazione” con una bicchierata
insieme al collega Mino Giachino e al forzista Paolo Zangrillo, ancora una
volta invocando il pugno duro della “Giustizia” contro i delinquenti dei centri
sociali e i “fautori dell’illegalità” della Val di Susa…
Si dirà a
ragione che non bisogna fare “di ogni erba un fascio”. E che qualche mela
marcia – nel solito meleto gozzaniano – non può contaminare l’intera piantagione.
E io sono convinto che, in quella piazza sbagliata, erano certo tante le
persone in buona fede, quelli che credevano davvero alla fake secondo cui senza
il super-treno e soprattutto il super-tunnel da 57 chilometri Torino resterebbe
del tutto scollegata dall’Europa, e al racconto del Chiampa secondo cui al
fondo di quella galleria si potrebbe contemplare il sol dell’avvenire anziché
il ghigno degli affaristi transfrontalieri. Gente per bene, magari mescolata ad
altra gente un po’ meno limpida, qualche commerciante di quelli che al bene
comune antepongono la cassa della propria bottega (e che proprio negli stessi
giorni conducevano la propria guerra privata contro la ZTL per conservare al
centro cittadino il carattere di camera a gas, remando in direzione ostinata e
contraria alla moltitudine dei giovani di Frydays for future che
proprio a Torino si ritroveranno, riportando, loro sì, la nostra città all’onor
del mondo); qualche imprenditore di quelli che più che ai futuribili e tutti da
vedere collegamenti con l’Europa pensa ai quattro soldi degli appalti da
accaparrarsi per coprire il deficit del proprio bilancio; qualche procacciatore
d’affari più o meno limpidi. Filistei – vogliamo chiamarli così? -, ma non
certo mafiosi. O criminali… E tuttavia, dai fatti, e dalle loro ricorrenze tali
da far pensare quasi a una legge storica, qualche riflessione bisogna ben
trarla.
Io la metterei così: “se è vero che non tutti i SI TAV sono mafiosi, è pur tuttavia altrettanto vero che tutti i mafiosi sono SI TAV”. Basta analizzare “scientificamente” – come direbbe Max Weber, “sine ira ac studio” – i fatti e la loro “invarianza”: questi ci dicono che dal momento in cui sono incominciate le maxi-indagini sulla penetrazione della ‘ndrangheta in Piemonte, non ce n’è stata una che non abbia tirato nella rete qualche pesce più o meno grosso di ‘ndrina coinvolto con gli appalti TAV o fortemente interessato ad essi tanto da interferire più o meno pesantemente con le politiche locali, comunali, regionali, di valle o di comprensorio. Così è stato per la maxi-indagine “Minotauro”, in cui era incappato Giovanni Toro (condannato a sette anni), quello del “La mangio io la torta Tav”, la cui ditta aveva asfaltato la strada per i mezzi della polizia nel cantiere di Val Clarea e il cui uomo di fiducia, Bruno Iaria (condanna a cinque anni), capo della locale ‘ndrina di Cuorgné, era stato capocantiere per la ditta di Fernando Lazzaro (anch’egli finito in carcere) che eseguiva i primi lavori di insediamento a Chiomonte . Così anche per l’indagine “San Michele” della procura di Torino, che portò a rivelare le azioni intimidatorie compiute dalla ‘ndrina di San Mauro Marchesato al fine di favorire ditte vicine “agli interessi della cosca nei lavori di costruzione della Tav Torino-Lione” : in quel caso è stata la stessa Corte di Cassazione a certificare che “la ‘ndrangheta era interessata a lavori di costruzione del Tav Torino-Lione in Valle di Susa”. E anche l’ultima retata nell’ambito dell’inchiesta “Fenice” non ha portato solo all’arresto di Rosso ma alla scoperta di un fitto intreccio di interessi da parte della ‘ndrangheta a che i lavori per il TAV in Valle Susa riprendessero e “il cantiere di val Clarea andasse avanti”, documentati dall’impegno di due presunti ‘ndranghetisti di rango, Francesco Viterbo (quello che dice “io i giudici li metterei tutti sopra una barca e poi gli sparerei”) e Onofrio Garcea, “figura importante della ’ndrangheta a Genova (condannato in attesa di Cassazione), ma da tempo attivo a Torino” dove è stato spedito a riorganizzare le file dell’organizzazione mafiosa nell’area di Carmagnola, scompaginate a marzo dall’”operazione Carminius”. Forse c’erano anche loro in Piazza, il 10 di novembre, a tutelare i propri affari futuri. O forse no. Se ne stavano tranquilli a casa a sghignazzare – come gli imprenditori ignobili per il terremoto dell’Aquila – a vedere tanta brava gente lavorare per loro e a contemplare lo scempio paesaggistico e sociale del cantiere in Val Clarea.
Loro, a differenza di tanta brava gente, non hanno falsa coscienza e non credono alle favole. Sanno benissimo che un’opera inutile, dannosa, e soprattutto molto, ma molto, costosa, serve solo a chi la fa. E fanno di tutto per essere tra chi la fa.
Io la metterei così: “se è vero che non tutti i SI TAV sono mafiosi, è pur tuttavia altrettanto vero che tutti i mafiosi sono SI TAV”. Basta analizzare “scientificamente” – come direbbe Max Weber, “sine ira ac studio” – i fatti e la loro “invarianza”: questi ci dicono che dal momento in cui sono incominciate le maxi-indagini sulla penetrazione della ‘ndrangheta in Piemonte, non ce n’è stata una che non abbia tirato nella rete qualche pesce più o meno grosso di ‘ndrina coinvolto con gli appalti TAV o fortemente interessato ad essi tanto da interferire più o meno pesantemente con le politiche locali, comunali, regionali, di valle o di comprensorio. Così è stato per la maxi-indagine “Minotauro”, in cui era incappato Giovanni Toro (condannato a sette anni), quello del “La mangio io la torta Tav”, la cui ditta aveva asfaltato la strada per i mezzi della polizia nel cantiere di Val Clarea e il cui uomo di fiducia, Bruno Iaria (condanna a cinque anni), capo della locale ‘ndrina di Cuorgné, era stato capocantiere per la ditta di Fernando Lazzaro (anch’egli finito in carcere) che eseguiva i primi lavori di insediamento a Chiomonte . Così anche per l’indagine “San Michele” della procura di Torino, che portò a rivelare le azioni intimidatorie compiute dalla ‘ndrina di San Mauro Marchesato al fine di favorire ditte vicine “agli interessi della cosca nei lavori di costruzione della Tav Torino-Lione” : in quel caso è stata la stessa Corte di Cassazione a certificare che “la ‘ndrangheta era interessata a lavori di costruzione del Tav Torino-Lione in Valle di Susa”. E anche l’ultima retata nell’ambito dell’inchiesta “Fenice” non ha portato solo all’arresto di Rosso ma alla scoperta di un fitto intreccio di interessi da parte della ‘ndrangheta a che i lavori per il TAV in Valle Susa riprendessero e “il cantiere di val Clarea andasse avanti”, documentati dall’impegno di due presunti ‘ndranghetisti di rango, Francesco Viterbo (quello che dice “io i giudici li metterei tutti sopra una barca e poi gli sparerei”) e Onofrio Garcea, “figura importante della ’ndrangheta a Genova (condannato in attesa di Cassazione), ma da tempo attivo a Torino” dove è stato spedito a riorganizzare le file dell’organizzazione mafiosa nell’area di Carmagnola, scompaginate a marzo dall’”operazione Carminius”. Forse c’erano anche loro in Piazza, il 10 di novembre, a tutelare i propri affari futuri. O forse no. Se ne stavano tranquilli a casa a sghignazzare – come gli imprenditori ignobili per il terremoto dell’Aquila – a vedere tanta brava gente lavorare per loro e a contemplare lo scempio paesaggistico e sociale del cantiere in Val Clarea.
Loro, a differenza di tanta brava gente, non hanno falsa coscienza e non credono alle favole. Sanno benissimo che un’opera inutile, dannosa, e soprattutto molto, ma molto, costosa, serve solo a chi la fa. E fanno di tutto per essere tra chi la fa.
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