Conviene partire dall’inizio.
Il 27 febbraio 2012, per protestare
contro gli espropri di terreni interessati al TAV, un giovane di Cels, Luca
Abbà, sale su un traliccio adiacente il cantiere della Maddalena. Inseguito da
un agente di polizia precipita a terra folgorato. Mentre, al CTO di Torino,
lotta tra la vita e la morte, la Val Susa scende in strada. Le forze
dell’ordine intervengono, talora in modo brutale. Il 3 marzo, dopo una
partecipata assemblea a Bussoleno, un folto gruppo di manifestanti raggiunge il
casello autostradale di Avigliana e blocca alcune entrate indirizzando gli
automobilisti verso due varchi nei quali è stato disattivato il sistema di
pagamento. Nel corso dell’azione dimostrativa sopravviene anche Nicoletta Dosio
che contribuisce a sostenere uno striscione con la scritta “Oggi paga Monti!”.
Per questo, insieme ad altre 10 persone, viene ritenuta responsabile dei reati
di violenza privata e interruzione di pubblico servizio e condannata alla pena
di due anni reclusione (ridotti, in appello, a uno). Passano gli anni, la
sentenza diventa definitiva e la Procura generale di Torino emette un ordine di
carcerazione, la cui esecuzione viene, peraltro, sospesa per consentirle di
chiedere la detenzione domiciliare (modalità ordinaria di sconto della pena per
gli ultasettantenni). Ma Nicoletta rifiuta di chiedere la misura alternativa e
dichiara che, in caso di concessione a seguito dell’iniziativa della Procura
generale (evidentemente consapevole dell’ingestibilità della situazione che si
sta innescando), non si atterrà alle prescrizioni (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2019/11/21/intervista-a-nicoletta-dosio-una-storia-intrecciata-con-il-tav).
Così il magistrato di sorveglianza nega la misura alternativa e nel pomeriggio
del 30 dicembre Nicoletta viene arrestata e tradotta in carcere.
«Giustizia è fatta!» recita un
comunicato del Procuratore generale di Torino. Ma è chiaro che, a prescindere
dai formalismi giuridici, non è così. Lo coglie persino La Stampa che,
per attutire l’impatto della notizia, la relega a pagina 53 dell’edizione del
31, in fondo alle cronache locali e dopo le rituali raccomandazioni sui botti di
Capodanno. Ovviamente non basta. In valle e in decine di città (da Nord a Sud)
si rincorrono manifestazioni e presidi per protestare contro l’arresto mentre
lo slogan “Nicoletta libera!” riempie i social. Tutti del resto – anche chi non
sa nulla del TAV – colgono l’assurdità di rinchiudere in carcere Nicoletta (il
cui reato, se reato c’è, non ha fatto male a una mosca e ha provocato alla
società autostrade un danno di poche decine di euro) mentre sono allegramente
in libertà bancarottieri, condannati per corruzione, politici che hanno fatto
strame del bene comune, responsabili di disastri e attentati alla salute di
tutti. L’ingiustizia è stridente e apre gli occhi su quel che davvero è
accaduto e accade in Val Susa. Con la sua ostinazione Nicoletta
– come il Bartleby di Melville con il suo irremovibile “preferirei di no” –
mette a nudo le prevaricazioni del sistema e la pratica, contro i dissenzienti,
di un “diritto penale del nemico” fatto di attenuazione del carattere personale
della responsabilità (Nicoletta è stata condannata non per comportamenti
specifici ma «perché ha partecipato scientemente alla manifestazione»), di
deliberata confusione tra presenza e concorso nel reato, di
applicazione spropositata della custodia cautelare in carcere (definita, in
alcuni casi di violenza a pubblico ufficiale, «il minimo presidio idoneo a
fronteggiare in modo adeguato le consistenti ed impellenti esigenze
cautelari»), di mancata concessione di misure alternative per la il solo fatto
di «essere No TAV e di abitare in Valle» (come accaduto a Luca Abbà: https://volerelaluna.it/tav/2019/09/15/la-vicenda-esemplare-di-luca-e-la-giustizia-nel-paese-del-tav/)
e di molto altro ancora. Grazie a Nicoletta “il re è nudo”.
Non è certo la prima volta in cui le
istituzioni reagiscono alle lotte sociali con un surplus di
repressione. Ma, nella storia nazionale, ci sono stati momenti in cui la
politica (una politica interessata, in qualche misura, al bene comune) ha
saputo riprendere il suo ruolo. È accaduto, per esempio, nella primavera del
1970 quando un Parlamento pur a maggioranza moderata (con un Governo a guida
democristiana) colse che l’aspra conflittualità dell’autunno caldo dell’anno
precedente, con oltre 10.000 denunciati per una pluralità di reati, non poteva
canalizzarsi, senza ferite permanenti, nelle aule dei tribunali. Venne così
varata l’ultima amnistia politica (concessa con l’art. 1 del
decreto presidenziale 22 maggio 1970) estesa a tutti i reati «commessi, anche
con finalità politiche, a causa e in occasione di agitazioni o manifestazioni
sindacali o studentesche, o di agitazioni o manifestazioni attinenti a problemi
del lavoro, dell’occupazione, della casa e della sicurezza sociale e in
occasione ed a causa di manifestazioni ed agitazioni determinate da eventi di
calamità naturali» punibili con una pena non superiore nel massimo a cinque
anni e, sempre alle stesse condizioni, per la violenza o minaccia a corpo
politico o amministrativo, la devastazione, gli attentati alla sicurezza di
impianti, il porto illegale di armi o parte di esse e l’istigazione a
commettere taluno dei reati anzidetti. Disse, allora, il relatore della legge
autorizzativa dell’amnistia che occorreva dare risposta al «disagio diffuso
nella pubblica opinione che, pur deprecando taluni episodi di autentica
delittuosità e pericolosità sociale, ritiene in gran parte sproporzionata e
sostanzialmente ingiusta la rubricazione di quelle vicende sotto titoli di
reato che erano stati dettati in un’epoca in cui era sconosciuta la realtà
storica dei conflitti che caratterizzano tutti gli Stati moderni».
Oggi il clima, avvelenato da furori
repressivi di diverso segno, è assai diverso, nella giurisprudenza come nella
legislazione. I decreti sicurezza approvati dalla maggioranza gialloverde (e
rimasti immodificati con quella giallorosa) hanno nuovamente penalizzato il
blocco stradale, aumentato le pene per le occupazioni di stabili e previsto
specifici e abnormi aggravamenti sanzionatori per la resistenza o violenza a
pubblico ufficiale e reati consimili se commessi «nel corso di manifestazioni»,
così ribaltando persino l’impostazione del codice fascista che prevedeva (e
formalmente prevede) come attenuante «l’aver agito sotto la suggestione di una
folla in tumulto». Quanto all’amnistia, la sua stessa evocazione è
considerata blasfema, tanto che, a seguito della sciagurata e
demagogica riforma costituzionale del 1992, occorrono, per vararla, maggioranze
parlamentari («due terzi dei componenti di ciascuna Camera») più ampie di
quelle previste per le modifiche della Carta fondamentale.
La politica si guarderà bene dal
riprendere un ruolo di governo lungimirante della società. E tuttavia la scelta
di Nicoletta non può restare relegata nell’ambito di una coerenza etica
individuale. Il suo è un gesto politico e deve avere un seguito politico.
Nell’immediatezza dell’arresto “Volere la luna” ha chiesto al Capo dello Stato
di concederle la grazia: non come provvedimento di clemenza individuale ma come
atto, sia pur tardivo, di giustizia e come segnale di cambiamento generalizzato
di una politica e di un intervento giudiziario che mostrano sempre più il loro
fallimento. Non ci sarà l’amnistia e, probabilmente, neppure la grazia,
riservata nel Belpaese a chi è organico al potere di sempre (da Sallusti, a
Bossi, agli agenti della CIA condannati per il sequestro di Abu Omar). Ma
l’apertura di una campagna per la grazia avrebbe comunque l’effetto di
costringere la politica, la cultura, il mondo del lavoro a schierarsi sulla
libertà di dissentire, sul valore della libertà personale, sull’entità del
potere punitivo. E non sarebbe poca cosa.
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