E chi se la ricorda questa storia? Dai, è passato un secolo! Eppure vale la pena raccontarla, tirarla
fuori dai vecchi cassetti. Ascoltala, vedrai che parla anche di noi, di quello che potremmo voler
essere. In fondo siamo noi, volenti o nolenti, a scegliere il nostro passato.
1919
Sono gli ultimi giorni di dicembre. Da Bologna e da Milano partono due treni carichi di
viveri e capi di abbigliamento. Ci sono anche le maestre,
“vigilatrici”. Sono stati organizzati dalle giunte comunali socialiste di
varie città italiane e dalle associazioni operaie. Vanno a Vienna, la capitale dello Stato
nemico per eccellenza, dell’esercito al di là delle trincee. Vanno là a prendere bambini, il
treno dell’Emilia Romagna ne prenderà oltre seicento. Non è una deportazione,
li prendono per salvarli, perché rischiano di morire di fame e di freddo. Sono i sindaci e assessori
socialisti di Bologna, Milano, Ravenna, Reggio Emilia e altre città che si sono
accordati con il nuovo borgomastro socialdemocratico di Vienna: accoglieranno i
bambini e le bambine per la durata dell’inverno, perché a Vienna è finito il carbone e manca
il cibo, i bambini pesano un terzo di quello che dovrebbero pesare e il dopoguerra è un
inferno.
È un inverno davvero terribile. Una grande campagna
internazionale di mobilitazione ha preso corpo in Europa e negli Stati Uniti.
Käthe Kollwitz, pittrice e scultrice tedesca di impegno sociale produce vari
manifesti per sollecitare l’aiuto: “Vienna sta morendo! Salva i suoi figli!”
recita uno di essi, dove una figura piegata di madre procede a fatica contro
una forza invisibile cercando di proteggere il neonato che ha in braccio e gli
altri bambini che si riparano sotto le sue braccia dalle frustate di una figura
scheletrica che rappresenta la morte. È la Vienna di Karl Polanyi, di Sigmund
Freud, di Arthur Schnitzler, Karl Kraus, Ludwig Wittgenstein, Arnold
Schoenberg… Dall’Olanda, dalla Svizzera, dall’Ungheria, dalla Norvegia
giungono treni per accogliere i bambini e accudirli durante l’inverno. Allora il 23 dicembre partono
– quasi vuoti – anche i due convogli da Milano e Bologna: tornano pieni
dell’“infanzia nemica” la mattina di capodanno del 1920, quasi l’auspicio di una nuova epoca
di solidarietà che invece non riuscirà a mettere radici.
Difficile
capire
L’aspetto
più arduo da comprendere oggi è la forza simbolica di questo atto politico. I socialisti si erano opposti
alla carneficina della Grande guerra e le giunte che si trovarono a governare
le città negli anni del conflitto dovettero faticare non poco a mantenere un
atteggiamento che non venisse accusato di disfattismo o che valesse loro
l’etichetta di austriacanti, di colludere con il nemico, ma che dall’altra
parte non divenisse una supina accettazione della guerra nazionalista. Furono
anni difficili, in cui le politiche comunali faticavano moltissimo nel
mantenere almeno una parte di quell’intervento sociale pensato e promesso negli
anni di pace. Quando la guerra finì la sua eredità fu caratterizzata dai lutti,
dalla fame e dalla disoccupazione. Così in quell’inverno la scelta di porgere una mano a
quell’Austria che per tre anni era stata “il nemico” per eccellenza era una
scelta coraggiosa, significava mettere la fratellanza universale al posto della
appartenenza nazionale, “prima chi soffre”, potremmo tradurre, e non
“prima gli italiani”.
Con
questi treni prendeva corpo il tentativo di costruire, al di là delle divisioni
della guerra, una nuova società che non si facesse irretire dai confini
sciovinisti e dalle appartenenze e puntasse sull’internazionalismo di coloro che
non possedevano nulla, allora chiamati proletari.
La
speranza non aveva targhe nazionali, ma etiche e politiche. Tandler, il medico
assessore alle politiche sociali di Vienna, parlava in questi termini: “La
guerra ha tentato di dividere i popoli, ma i bambini saranno i nuovi apostoli
per la ripresa dei sentimenti di solidarietà tra gli uomini”. L’editoriale de “La Stampa” del primo gennaio 1920,
pur con toni retorici fastidiosi, ci aiuta a comprendere cosa rappresentasse
questa operazione di solidarietà attraverso i confini: “Molti padri di quei
bambini hanno ucciso il padre ai nostri figlioli; molti di essi ebbero il padre
ucciso da padri italiani. Oggi le madri nostre stringono al seno le vittime
innocenti degli uni e degli altri e li bagnano tutti delle loro lagrime
vedovili”.
Costruire/decostruire
il nemico
Occorre fare un grande sforzo per immedesimarsi nel clima dell’epoca,
che sortiva dalla prima “guerra totale” della storia, cioè la prima guerra
combattuta anche dai civili, sul fronte interno. Bastano due episodi per comprendere
quanto fossero potenti e diffusi gli elementi catalizzatori dell’odio e come coinvolgessero direttamente l’infanzia.
Nel
1918 ad esempio sorse a Portogruaro un istituto, l’Ospizio
dei figli della guerra, per accogliere i bambini illegittimi delle terre
liberate, concepiti – spesso per stupri – durante l’anno dell’occupazione
nemica. Erano neonati chiamati “figli della colpa”, che andavano protetti
perché rischiavano non solo la marginalizzazione insieme alla madre ma anche
l’infanticidio, a causa dell’ingiusto e spietato giudizio che la comunità e la
famiglia proiettavano su di loro. Molti vedevano nei corpi di quei neonati non
delle vittime innocenti ma degli esseri contaminati dalla barbarie nemica,
pericolosi agenti di discordia.
I
discorsi di deumanizzazione del nemico avevano egemonizzato il discorso
pubblico. In un libro di lettura per la quarta classe del 1919 possiamo leggere
il racconto della morte di Lodoletta, una bimba povera italiana che sarebbe
stata intossicata da cioccolatini avvelenati lanciati da un aereo austriaco. È
con tutta evidenza una falsa notizia, una mitologia inverificabile
che serviva a suscitare l’odio verso il nemico, come ne circolavano tante
nell’Europa dilaniata dalla guerra. Nutrivano l’odio delle bambine e dei
bambini italiani di nove anni.
Queste
due informazioni di contesto credo aiutino a percepire la forza dirompente
dello spirito solidale – in controtendenza – che questi treni immettevano nelle
menti e nelle esperienze degli italiani dell’epoca, intossicate da tre anni di
guerra terribile e da una propaganda che era andata crescendo attraverso
strumenti molto più potenti che nel passato.
Da
nemici a ospiti
Torniamo
a Bologna, una delle città che ospitò i
bambini di Vienna. Per quattro mesi i piccoli austriaci vengono accolti in
collina nella colonia di Casaglia, struttura destinata a diventare in seguito
una scuola all’aperto, e in altre strutture. Vanno a fare il bagno in centro
città, nelle stanze predisposte in via Zamboni 15, dove oggi c’è la scuola
dell’infanzia e dove allora c’erano le docce usate dalle scuole per assicurare
l’igiene dei bambini poveri. Fanno attività all’aperto, sfruttando l’esperienza
delle vigilatrici comunali che gestiscono la colonia. Le foto riportate nel
giornale del Comune ce li mostrano in posa. Un gruppo misto di una trentina tra
maschi e femmine che avranno tra i sei e i nove anni assiste seduto ad un
grande tavolo sotto una grande lavagna portatile, grembiuli e camici eterogenei
scuri e lo sguardo vigile di una maestra; un altro gruppo di una trentina di
femmine con grembiuli bianchi o comunque chiari si fa fotografare in posa
ordinata sulla scalinata di ingresso della scuola insieme alla vigilante. Una
terza foto riprende l’insieme dei gruppi riunito nella campagna dove sorge la
scuola con gli educatori che probabilmente stanno distribuendo il pasto.
Nascono in città numerose iniziative
di sostegno – organizzate soprattutto dai socialisti, ma che guadagnano
un’adesione che supera gli steccati di partito. Pochi giorni dopo l’arrivo
viene organizzata dai circoli socialisti di zona una passeggiata domenicale Pro
bimbi viennesi nei quartieri popolari della Zucca e della Bolognina,
accompagnati dalla banda. Si raccolgono soldi per l’Ufficio comunale
d’Istruzione che gestisce l’ospitalità: “Era una gara per non dare meno del
vicino e uno spirito di emulazione che confortava e incoraggia”. In febbraio
sono le donne della sezione femminile socialista a promuovere una festa a
Casaglia, cui partecipa la banda municipale, si canta in italiano e in tedesco
guidati dalle maestre bolognesi e viennesi, e si conclude intonando
l’Internazionale. Offerte arrivano da ogni parte: circoli socialisti,
cooperative, luoghi di lavoro, sindacato, ma anche “raccolte nei dintorni di
Quarto Inferiore L. 18,65”, o “camerieri del Chianti L. 25”, o “raccolte in una
festa di famiglia il 7 febbraio a mezzo Rizioli Alfredo L. 30,05”.
L’ospitalità
dura fino ad aprile compreso, quando cessano i rigori dell’inverno e il momento
più tragico è superato. La ripartenza è festa ma è anche pianto di commozione: “Si sperava di vedere sui
teneri volti letizia e gioia e invece sgorgava copioso il pianto” (“La squilla”). “Il
saluto dato ai fanciulli dal popolo bolognese fu veramente grandioso. L’interno
della stazione rigurgitava di folla. Molte le rappresentanze delle associazioni
politiche ed economiche, molti i vessilli. Intervenne anche la fanfara
socialista. I bambini erano vivamente commossi. Si mescolavano in loro due
forti emozioni: il distacco dalle persone che per quattro mesi erano state come
loro secondi genitori ed il pensiero dell’imminente abbraccio dei genitori
veri, nella triste patria lontana” (“Il Resto del Carlino”). Con il ritorno a Vienna l’assistenza può trasformarsi
in sostegno a distanza, con i bambini riconsegnati alle famiglie o alle
istituzioni austriache.
Oggi
La
pratica di “costruire il nemico” accompagna la storia umana dalla notte dei
tempi. Eppure oggi questa attività si è “democratizzata”, diventando
una competenza intrinseca di ciascun possessore di smartphone, una app che ha
reso ogni cittadino esperto nell’invenzione di un “altro minaccioso”.
Purtroppo
in alcuni momenti sembra che – degli studi sulla storia e la sociologia del
razzismo – abbiano fatto tesoro non i suoi oppositori, ma quelli che lo
fomentano. I meccanismi della propaganda di guerra, della nascita e della
circolazione delle “false notizie” di cui scriveva Marc Bloch nelle trincee
della Grande guerra, oggi si dispiegano sui social con un’efficacia
moltiplicata, lanciati da imprenditori politici dell’odio che nelle nuove
piattaforme di comunicazione trovano schiere di ripetitori obbedienti e di
emulatori zelanti.
Da sempre, nei momenti di crisi, gli
animi collettivi si nutrono dei pregiudizi che possono trasformare le cattive
percezioni in verità inoppugnabili e i soggetti marginalizzati in comodi capri
espiatori: migranti, “zingari”, islamici… Si chiama hate speech, discorso di incitamento all’odio: politicamente procura
voti, individualmente regala il piacere di sfogarsi verso responsabili fittizi
del proprio disagio.
Tessere legami sociali concreti e
solidali è l’unico antidoto contro questa macchina dell’odio. Tanti ci provano
individualmente, altri si associano.
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