Molti anni fa, nel 2002, scrissi un libro che si intitolava L’opera
dello sguardo che, in breve, proponeva, sulla scorta di tanti percorsi
e tanti autori, una sorta di terapia del nostro modo di vivere fondata su
una conversione della sensibilità (dello
sguardo, per analogia). Perché il
problema, secondo me ma non solo, risiede
in qualcosa che è a monte anche dell’economia, o di un’economia come
quella che domina da tanto tempo la nostra società, perché faticherei a
interpretare l’economia in quanto tale come il male (leggi anche Fuori dall’economia di Paolo
Cacciari con un commento di Lea Melandri, ndr).
Il problema risiede nella postura dell’uomo
nei confronti di qualsiasi oggetto sia inquadrato dal suo
sguardo (o sensibilità), da quando ha smesso di sentirsi parte di un tutto. Questo fenomeno si è
compiuto con lentezza da Platone in poi e ha poi avuto dei momenti di
radicalizzazione con la nascita del pensiero scientifico, l’umanesimo, la
rivoluzione industriale e la nascita del capitalismo naturalmente. Solo che
oggi è insediato stabilmente dentro noi tutti. È la nostra concezione del mondo, fondata sull’idea che l’uomo può
disporre liberamente di ogni cosa ciò che lo circonda, compreso sé stesso, in
modo sostanzialmente illimitato.
Questo sguardo, oggettivante, strumentale,
profittatore, non è soltanto nell’occhio dell’economia ma di ogni nostra
azione, è insediato nelle
relazioni affettive, nell’educazione di bambini e degli adolescenti, nella
costruzione delle nostre case e dei loro giardini, così come nei
fenomeni solo apparentemente più macroscopici dell’economia, che a mio giudizio
è più figlia che madre di questa torsione della sensibilità nella direzione
del dominio e
dello sfruttamento (leggi
anche Senza dominio).
Il delirio rischiaratore che vi sta alle
spalle – così ben esaminato per esempio da Gilbert Durand nel suo Le
strutture antropologiche dell’immaginario già cinquant’anni fa o da
James Hillman in certi suoi saggi sull’io eroico – può essere curato solo da una terapia profonda della visione, dello
sguardo, della sensibilità, che va operata a partire dall’educazione. È
nella castrazione della sensibilità animale presente
nell’infanzia, nella sua deformazione in vista di un approccio di
oggettivazione calcolante, di spiegazione del mondo, di
azzeramento dell’ombra e del mistero, presenti anche solo nella modalità di
parlare e di scrivere poi assunta da quasi tutti noi, dopo il disboscamento
dell’ambiguità e della delicatezza, presi come siamo (anch’io, in questo
momento) dal desiderio di vincere e dominare con la ragione e con la
dimostrazione sopra la necessaria ricettività invece nei confronti delle
singolarità e delle differenze.
La fine di una visione sacrale del mondo ha coinciso con questo delirio di
distruzione. E se non può sussistere per molte buone ragioni una nostalgia per
una visione di tipo dottrinario-religioso del mondo, credo invece che per una
visione mistica si possa avere desiderio, almeno nel senso in cui ne parla
ancora Durand quando introduce al regime notturno mistico dell’immaginario,
più disposto a vedere il mondo nel senso della dolce discesa, della resa, del calice e del mescolamento, che in quello della
diairesi, della scissione, dell’astrazione e della luminosità schizoide della
verità o dell’ascensionalità di ogni successo vitale.
Si tratta di un percorso
complesso, da favorire fin dall’inizio del nostro venire al mondo,
attraverso la compensazione necessaria di un linguaggio poetico, di un’espressività più simbolica che
razionale, di una disposizione ad
accogliere le zone d’ombra di ogni singolarità e a offrire loro
campo per manifestarsi. Pensiamo, all’opposto, anche solo al delirio
rischiaratore delle pratiche di ortopedìa sempre più diffuse nel tessuto della
formazione scolastica per ovviare ad ogni stortura o differenza e produrre
soggetti con le medesime credenziali in termini di competenze.
A tutto questo si tratta di offrire un farmaco attraverso la coltivazione
di vie differenziali, attraverso la valorizzazione di linguaggi altri (specie analogici, la
musica, il corpo, l’immaginazione creatrice). Imparare a vedere, secondo la
grande lezione di spiriti enormemente sensibili, da Rilke a Klee a tutti gli
artefici del pensiero poetante digli ultimi secoli, ultimi testimoni di uno
sguardo partecipativo, cioè capace di guardare soggiornando vitalmente in ciò
che si guarda e dunque avvertendo la sua ciascunità e
destinazione.
Questo sarebbe rivoluzionario. Senza pretendere di soffocare la petizione
luminosa della visione ma procedendo a contenerne il deliro (la pazzia del
sole, la chiamava un grande esploratore del notturno, Joe Bousquet).
Non possiamo obbligarci alla tenerezza, al dono e
all’empatia se il nostro alfabeto immaginario e gestuale è stato disboscato del
suo humus poetico e arrendevole. Formare uomini con il gusto di stare nel
mondo, di esserci, come diceva Rilke, semplicemente, nel ritmo concorde
delle stagioni, vicini alla terra, che è chiara e scura, e nel
reticolo degli influssi dove le stelle si sentono sicure.
Su tutto questo, che non ha bisogno di spiegazioni, dovremmo fondare la via di una visione
accogliente e vitale, così come desiderante e arrendevole, sulla base della quale poi capire quale
economia partecipe, al dolore delle cose per esempio, e alla loro
vocazione, possa prendere forme.
Intrigante, convincente, condivisibile. Grazie.
RispondiEliminatutte le cose sono complicate, quando le complichiamo...
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