Intervista di Riccardo Carraro a Ahmed Abu Artema, ideatore della
Great Return March di Gaza
Come è nata l’idea della marcia?
Inizialmente è stata un’idea molto semplice e chiara, davanti alla
costatazione di quella che era la nostra condizione di vita a Gaza:
l’alternativa è morire in silenzio o rompere la porta. Durante la marcia del
ritorno abbiamo scelto di non morire in silenzio.
In Italia i media hanno tratteggiato la marcia come qualcosa dominato e
voluto da Hamas. Cosa è stata in realtà?
La marcia ha rappresentato il bisogno della popolazione di Gaza di far
sentire la propria voce, per questo è stata una proposta molto umana e
semplice, in cui tutti i partiti si sono trovati d’accordo. La proposta è nata
al di là delle fazioni politiche ed è avanzata in modo completamente
trasversale. Il 30 marzo del 2018 abbiamo marciato in 100 mila e da ogni
estrazione sociale e politica. Le divisioni all’interno hanno molto a che
vedere con il lavoro sociale che si svolge nella Striscia, ma rispetto all’idea
di ribellarci alla chiusura siamo stati tutti concordi.
La marcia, pur rimanendo completamente disarmata e popolare, ha incontrato
un’enorme repressione da parte di Israele, più di 300 morti e 30 mila feriti in
un anno e mezzo di manifestazioni popolari, perché?
Israele non vuole sentire la voce degli oppressi. C’è un popolo intero che
soffre di discriminazioni, Israele vuole che rimanga in silenzio. Inoltre
Israele è più importante della popolazione di Gaza nel resto del mondo e può
permettersi di reprimere rimanendo impunita. Non solo, al resto del mondo
fa comodo la violenza che avviene qui, perché se Israele viola i diritti umani
e le è concesso di rimanere un partner democratico nel mondo occidentale, con
l’appoggio di un sacco di paesi, vuol dire che tutti questi paesi potranno un
giorno violare gli stessi diritti rimanendo impuniti. L’Europa nell’ultimo anno
ha effettuato 36,2 miliardi di euro di scambi commerciali con Israele e questo
ha più valore del diritto internazionale.
Invece la comunità internazionale sembra avere sempre più abbandonato la
popolazione di Gaza, non credi?
Dicono che la colpa sia del potere di Hamas ma non è la realtà. In ogni
caso, dopo le elezioni del 2006, vinte da Hamas, la comunità internazionale ha
solo imposto sanzioni. Anziché parlare con tutto il popolo palestinese, si è
concentrata su chi aveva vinto le elezioni e ha peggiorato la nostra condizione
di vita. Al contrario, ora che l’unica grande potenza mondiale sono gli Stati
Uniti, bisognerebbe sostenere la lotta palestinese al di là di ogni
schieramento mondiale come una lotta per i diritti umani, per la libertà e
contro i muri.
La Great Return March è riuscita a cambiare la narrativa e la percezione
relativa alla resistenza a Gaza, che era focalizzata solo su forme di
resistenza armata. C’è un legame tra la vostra scelta e altri momenti di
resistenza popolare come la prima intifada?
Il movimento della resistenza popolare nonviolenta per i palestinesi iniziò
addirittura durante il Mandato britannico [l’occupazione della Palestina
storica da parte del Regno Unito tra la prima e la seconda guerra mondiale, ndr]:
apparteniamo a quella storia. C’è un legame forte con tutti i movimenti
precedenti, inclusa la prima intifada. La Great Return March con questa
strategia è riuscita a rendere la realtà di Gaza visibile al mondo intero ed è
esattamente quello che Israele non vuole, perché desidera che il mondo si
dimentichi come si vive dentro una prigione a cielo aperto. Vogliamo
andare avanti continuando in questa lotta e le generazioni future porteranno
avanti quello che non riusciamo a completare noi.
Abbiamo raccontato su Dinamopress il
confronto tra te e Hillel, un refusnik israeliano, quanto è
stato rilevante per te quel contatto?
Di sicuro è stato un confronto molto importante e dopo questo incontro
andrò in Finlandia dove vedrò un’altra attivista israeliana che è stata in
carcere per rifiutare il servizio militare. Non ci importano le persone ma
il sistema dell’apartheid e del colonialismo. Ho detto spesso che non siamo
contro gli ebrei, ma non solo, il nostro ragionamento va oltre. Siamo
profondamente convinti che quel muro non imprigioni solo noi, ma anche loro,
perché li mantiene nell’odio, nella paura, nel razzismo. E chiedo al
popolo israeliano, «volete far vivere i vostri figli in questo clima di odio e
razzismo o volete anche voi liberarvi e vivere assieme sulla base
dell’uguaglianza tra tutti gli esseri umani?».
Hai parlato spesso di uguaglianza e libertà, quanto questi valori per te
sono ricondotti a una soluzione al conflitto attraverso un unico stato
democratico in cui tutti possano vivere sulla base di pari diritti a
prescindere dalla religione o etnia?
Sì, personalmente credo profondamente in quella opzione. Accetto di vivere
assieme agli ebrei ma solo sulla base della uguaglianza, non del
razzismo. Questa visione non è ancora condivisa dalla maggioranza della
popolazione palestinese, ma questo è comprensibile. Non puoi chiedere agli
oppressi anche di risolvere il problema che vivono, loro lottano per mettere
fine all’ingiustizia che subiscono. Quando ci sarà la fine dell’occupazione e
della violenza, ci sarà anche la possibilità di vivere assieme perché non ci
saranno più le condizioni che determinano la sofferenza. Questo però può
avvenire solo con una pace con giustizia.
Hai parlato spesso di superamento di confini e di razzismo, credi che
questo orizzonte di lotta possa applicarsi anche a contesti diversi da quello
di Israele e Palestina?
Non mi sento di commentare molto la situazione qui in Italia perché la
conosco poco. Credo fortemente però che non ci debbano essere razzismo e
confini, perché sono quelli che alimentano odio e apartheid e perché le persone
sono simili. Se le separi, alimenti l’odio tra gli uni e gli altri e non potrai
mai vivere assieme in pace.
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