venerdì 24 gennaio 2020

Quel muro imprigiona anche gli israeliani


Intervista di Riccardo Carraro a Ahmed Abu Artema, ideatore della Great Return March di Gaza

Come è nata l’idea della marcia?
Inizialmente è stata un’idea molto semplice e chiara, davanti alla costatazione di quella che era la nostra condizione di vita a Gaza: l’alternativa è morire in silenzio o rompere la porta. Durante la marcia del ritorno abbiamo scelto di non morire in silenzio.
In Italia i media hanno tratteggiato la marcia come qualcosa dominato e voluto da Hamas. Cosa è stata in realtà?
La marcia ha rappresentato il bisogno della popolazione di Gaza di far sentire la propria voce, per questo è stata una proposta molto umana e semplice, in cui tutti i partiti si sono trovati d’accordo. La proposta è nata al di là delle fazioni politiche ed è avanzata in modo completamente trasversale. Il 30 marzo del 2018 abbiamo marciato in 100 mila e da ogni estrazione sociale e politica. Le divisioni all’interno hanno molto a che vedere con il lavoro sociale che si svolge nella Striscia, ma rispetto all’idea di ribellarci alla chiusura siamo stati tutti concordi.
La marcia, pur rimanendo completamente disarmata e popolare, ha incontrato un’enorme repressione da parte di Israele, più di 300 morti e 30 mila feriti in un anno e mezzo di manifestazioni popolari, perché?
Israele non vuole sentire la voce degli oppressi. C’è un popolo intero che soffre di discriminazioni, Israele vuole che rimanga in silenzio. Inoltre Israele è più importante della popolazione di Gaza nel resto del mondo e può permettersi di reprimere rimanendo impunita. Non solo, al resto del mondo fa comodo la violenza che avviene qui, perché se Israele viola i diritti umani e le è concesso di rimanere un partner democratico nel mondo occidentale, con l’appoggio di un sacco di paesi, vuol dire che tutti questi paesi potranno un giorno violare gli stessi diritti rimanendo impuniti. L’Europa nell’ultimo anno ha effettuato 36,2 miliardi di euro di scambi commerciali con Israele e questo ha più valore del diritto internazionale.
Invece la comunità internazionale sembra avere sempre più abbandonato la popolazione di Gaza, non credi?
Dicono che la colpa sia del potere di Hamas ma non è la realtà. In ogni caso, dopo le elezioni del 2006, vinte da Hamas, la comunità internazionale ha solo imposto sanzioni. Anziché parlare con tutto il popolo palestinese, si è concentrata su chi aveva vinto le elezioni e ha peggiorato la nostra condizione di vita. Al contrario, ora che l’unica grande potenza mondiale sono gli Stati Uniti, bisognerebbe sostenere la lotta palestinese al di là di ogni schieramento mondiale come una lotta per i diritti umani, per la libertà e contro i muri.
La Great Return March è riuscita a cambiare la narrativa e la percezione relativa alla resistenza a Gaza, che era focalizzata solo su forme di resistenza armata.  C’è un legame tra la vostra scelta e altri momenti di resistenza popolare come la prima intifada?
Il movimento della resistenza popolare nonviolenta per i palestinesi iniziò addirittura durante il Mandato britannico [l’occupazione della Palestina storica da parte del Regno Unito tra la prima e la seconda guerra mondiale, ndr]: apparteniamo a quella storia. C’è un legame forte con tutti i movimenti precedenti, inclusa la prima intifada. La Great Return March con questa strategia è riuscita a rendere la realtà di Gaza visibile al mondo intero ed è esattamente quello che Israele non vuole, perché desidera che il mondo si dimentichi come si vive dentro una prigione a cielo aperto. Vogliamo andare avanti continuando in questa lotta e le generazioni future porteranno avanti quello che non riusciamo a completare noi.
Abbiamo raccontato su Dinamopress il confronto tra te e Hillel, un refusnik israeliano, quanto è stato rilevante per te quel contatto?
Di sicuro è stato un confronto molto importante e dopo questo incontro andrò in Finlandia dove vedrò un’altra attivista israeliana che è stata in carcere per rifiutare il servizio militare. Non ci importano le persone ma il sistema dell’apartheid e del colonialismo. Ho detto spesso che non siamo contro gli ebrei, ma non solo, il nostro ragionamento va oltre. Siamo profondamente convinti che quel muro non imprigioni solo noi, ma anche loro, perché li mantiene nell’odio, nella paura, nel razzismo.  E chiedo al popolo israeliano, «volete far vivere i vostri figli in questo clima di odio e razzismo o volete anche voi liberarvi e vivere assieme sulla base dell’uguaglianza tra tutti gli esseri umani?». 
Hai parlato spesso di uguaglianza e libertà, quanto questi valori per te sono ricondotti a una soluzione al conflitto attraverso un unico stato democratico in cui tutti possano vivere sulla base di pari diritti a prescindere dalla religione o etnia?
Sì, personalmente credo profondamente in quella opzione. Accetto di vivere assieme agli ebrei ma solo sulla base della uguaglianza, non del razzismo. Questa visione non è ancora condivisa dalla maggioranza della popolazione palestinese, ma questo è comprensibile. Non puoi chiedere agli oppressi anche di risolvere il problema che vivono, loro lottano per mettere fine all’ingiustizia che subiscono. Quando ci sarà la fine dell’occupazione e della violenza, ci sarà anche la possibilità di vivere assieme perché non ci saranno più le condizioni che determinano la sofferenza. Questo però può avvenire solo con una pace con giustizia.
Hai parlato spesso di superamento di confini e di razzismo, credi che questo orizzonte di lotta possa applicarsi anche a contesti diversi da quello di Israele e Palestina?
Non mi sento di commentare molto la situazione qui in Italia perché la conosco poco. Credo fortemente però che non ci debbano essere razzismo e confini, perché sono quelli che alimentano odio e apartheid e perché le persone sono simili. Se le separi, alimenti l’odio tra gli uni e gli altri e non potrai mai vivere assieme in pace.

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