Alzi la mano, tra le signore e i signori di una certa età, chi non ha mai
gridato almeno una volta Yankee, go home. Alzi la mano chi non
ha mai detto almeno una volta – la Coca-cola non la bevo, perché è un segno
dell’imperialismo americano. Certo, oggi farebbe alzare il sopracciglio agli
astanti, ma quelli di noi che sono cresciuti a pane e Vietnam sapevano
che a bruciare le bandiere americane non c’erano solo gli studenti dei campus,
c’erano i veterani che tornavano da quella guerra. E quelli, avevano visto
com’erano le cose. Sapevamo che a una postazione antiaerea con i nipotini di
zio Ho si era fatta fotografare Jane Fonda – Hanoi Jane. We are all
un-americans, avremmo potuto rivendicare tutti tranquillamente, rovesciando
la metafora inquisitoria della Commissione McCarthy, quella che aveva
perseguitato e messo all’indice per attività anti-americane mezza Hollywood.
Era anti-americanismo di principio, quello? No. Quelli che
crescevamo a pane e Vietnam amavamo il cinema di Peckinpah e Paul Newman e
Robert Redford che facevano Butch Cassidy e Sundance Kid – come potevamo essere
anti-americani? Quelli di noi che sapevano che la United Fruits era il
vero motore della politica estera americana in Centro e Sud America, e faceva
golpe su golpe – quelli, che avevamo amato Steinbeck e Dos Passos, come
potevamo essere anti-americani? Quelli di noi che vedevamo da lontano la
pop-art di Rauschenberg e Lichtenstein e il dripping di Pollock, come potevamo
essere anti-americani? E quelli che ascoltavamo Zappa e i Velvet,
l’’inno americano straziato da Jimi Hendrix e la voce disperata di Janis
Joplin, quelli che ripetevamo il ritornello di Bob Dylan – how many
times must the cannonballs fly / Before they’re forever banned? / The answer,
my friend, is blowin’ in the wind – come potevamo essere
anti-americani? Eravamo contro i golpe che la Cia organizzava, eravamo
contro Nixon, eravamo contro il napalm nel Vietnam, eravamo contro la continua
minaccia di guerra che la Nato rappresentava – Fuori l’Italia dalla Nato, fuori
la Nato dall’Italia: questo gridavamo. Per la verità, continuerei a dirlo
ancora oggi che molto probabilmente le basi americane in Italia sono punti di
partenza per operazioni di guerra in cui ci troviamo coinvolti senza avere
alcuna voce in capitolo.
È stato l’atto di guerra – di terrorismo? davvero conta? le guerre
asimmetriche non sono ormai questo strano e orribile miscuglio tra
tattiche militari da accademia e operazioni di terrorismo? – contro il generale
iraniano Qasem Soleimani a far ripartire ovunque l’odio contro l’America. Death
to America, gridavano ieri in Iraq, in Siria, in Iran, e non ci vuol molto
a immaginare che le piazze del sud-est asiatico si infiammeranno presto. Le
chiacchiere in Italia si sono sprecate. C’entra questo anti-americanismo con il
nostro anti-americanismo? Non c’entra nulla, direi.
«Siamo tuti americani», scrisse de Bortoli, allora direttore del Corriere
della Sera all’indomani dell’11 settembre. Non era così. L’attacco alle
Torri Gemelle di bin Laden lasciò tutti attoniti, ma le sfumature di quello
sbalordimento erano, per così dire, in un ventaglio molto ampio. Per me, ad
esempio, la domanda era semplice: si poteva stare dalla parte dei mullah o
degli sceicchi? Un califfato, una teocrazia poteva essere augurabile?
La risposta era forte e chiara: no. Ma, per tanti, quello che era chiaro
oltre ogni evidenza – al Qaeda aveva pianificato per anni uomini e mezzi per
quella cosa inimmaginabile – divenne sfocato, oscuro, contestato. C’era lo
zampino del Mossad, un aereo non era mai davvero caduto sul Pentagono, le
agenzie segrete americane si erano organizzate l’attentato – bin Laden, non
l’avevano allevato loro? – per giustificare i propositi di guerra. Scempiaggini
colossali – anche quando sciorinate da professoroni e giornalistoni – che
avevano un solo segno in comune: l’anti-americanismo di principio. L’anti-americanismo
di principio ha un solo articolo costitutivo: gli Stati uniti sono il male
assoluto.
Per le bizzarre incongruenze della storia, l’anti-americanismo di principio
è associato alla sinistra radicale europea e italiana. Che non ha mai fatto
nulla, va detto, per scrollarselo di dosso. Vi alligna,
bellamente. Ma l’anti-americanismo di principio è in realtà un pensiero
teorico profondamente radicato nella destra.
Per Martin Heidegger l’Europa era stretta «nella grande
tenaglia tra Russia e America», fra il totalitarismo sovietico da un lato e il
regime monopolista dall’altro, ma accomunati entrambi dal fatto di esprimere
«lo stesso triste correre della tecnica scatenata». Per Carl Schmitt,
i nuovi “padroni del mondo”, quegli Stati Uniti che erano riusciti attraverso
la talassocrazia (il potere sul mare) a imporsi sulle potenze di terra europee,
sarebbero riusciti a trasformare l‘hostis, il nemico, in un criminale,
al fine di eliminarlo. L’universalismo dell’egemonia anglo-americana avrebbe
sancito un sistema unico globale cancellando distinzioni e pluralità
spazio-temporali. Un mondo dominato dalla tecnologia generata da una sola
potenza, da strategie economiche transnazionali e finanche da una “polizia
internazionale”. Per Heidegger e per Schmitt l’idea che l’individuo fosse
rivestito di diritti avrebbe significato solo che lo Stato sarebbe finito ai
suoi piedi – anti-liberalismo, anti-globalizzazione, anti-cosmopolitismo, sono
queste le tracce ricorrenti dell’anti-americanismo di principio. Tracce che
certo richiedono profondità e complessità di analisi e riflessione, suggestive
come sono e a volte profetiche, ma che nulla c’entrano con la battaglia
politica contro questa o quell’amministrazione americana, contro i suoi
provvedimenti, i suoi interventi, i suoi programmi, proprio perché qualunque
scelta gli Stati uniti facciano – sia quella del “gendarme del mondo” sia
quella dell’isolazionismo – finisce sempre per modificare tutti gli equilibri.
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