XII RAPPORTO (viaggio del 17-22 dicembre 2019)
(leggi
anche La speranza degli uomini scalzi)
Da tempo, per chi voglia informarsi, i dati
sulla situazione bosniaca sono numerosi e precisi, dotati anche di
sistematicità e progressione temporale, mentre la situazione peggiora
costantemente con l’inesorabilità di una frana. I nostri rapporti non
possono aggiungere nulla di nuovo se non nei dettagli, ma, come è noto, il
diavolo sta nel dettaglio. Per conoscere i dettagli bisogna andare sul posto.
Diamo subito degli esempi.
Abbiamo noi stessi involontariamente prodotto
proprio un esempio del comportamento “arbitrario” della “security” del campo
Bira, a Bihac, che ritiene opportuno punire un ragazzo, perché è uscito
con noi volontari la sera del 20 dicembre, giorno del suo compleanno. Lo ha
lasciato all’aperto nella notte di pioggia, malgrado si fosse presentato in
orario e avesse il tesserino per entrare. Un arbitrio di due o tre poliziotti
privati di guardia al cancello, pagati dall’IOM, cioè anche da noi. Sappiamo
benissimo che l’arbitrio è una modalità abituale di esercizio del potere, in
particolare del piccolo potere subalterno: una specie di salario sadico per i
subalterni. Ormai chi vuol sapere, e anche chi non vuole, sa che la
polizia croata agisce normalmente con metodi di violenza anche estrema. Lo
sanno perfettamente le istituzioni preposte, europee, UNHCR, IOM – ma nulla
cambia, se non in peggio.
Ancora davanti al Bira, un incontro
particolarmente doloroso: un ragazzo afghano sedicenne in carrozzella, con
piedi fasciati per i colpi di manganello della solita polizia croata. È chiaro
e preciso l’intento di colpire le gambe, il corpo in movimento. Un migrante in
carrozzella, privato della possibilità di camminare è una di quelle condizioni
insieme dolorosamente individuali ma significative di una condizione umana e di
una politica sciagurata, miserabile, dell’Unione Europea. Ricordiamo in
carrozzella Alì, poi morto per le conseguenze del game; e l’estate scorsa, al
campo spontaneo di Velika Kladuša ora scomparso, un altro ragazzo in quelle
condizioni.
Davanti all’ex hotel Sedra, a una quindicina
di chilometri da Bihac, il padre di una famiglia iraniana ci mostra i segni
evidenti di colpi fortissimi proprio alle articolazioni delle gambe ricevuti
durante un respingimento il 21 dicembre.
È invece del 27 dicembre 2019 l’ennesima
testimonianza, che leggiamo, di migranti catturati in Croazia e ricacciati
senza scarpe in Bosnia: “…ero a Zagabria, ho chiesto asilo ma loro non hanno
accettato… hanno preso il mio zaino e giacca, ci hanno tolto le scarpe e ci
hanno respinto in Bosnia “(traduzione dall’inglese).
Un ragazzo completamente avvolto in un sacco
di plastica per difendersi dalla pioggia e dal freddo: “Sembrava finto e invece
era reale – scrive G. A. Franchi – Quando la realtà sembra una finzione vuol
dire che è tragica”
Uno dei compiti del nostro ultimo viaggio in
Bosnia era, appunto, di andare all’ospedale di Bihac a ritirare i documenti del
ricovero di Benham Jebraelli, avvenuto un anno fa, migrante iraniano accolto in
Germania, che intende sporgere denuncia per i danni subiti durante uno dei
molti respingimenti che ha dovuto “vivere” (uso questo verbo perché i
pushback violenti fanno ormai parte della vita – mi viene da dire della
‘carriera’ – di ogni migrante).
Nei dintorni di Bihac, di Kladuša, lungo la
strada fra le due cittadine, che distano una cinquantina di chilometri, si
vedono sempre i gruppi che vanno o tornano dal game…
E poi, qui, a Trieste capolinea della
rotta, cerchiamo di accogliere, come possiamo, anche con interventi di tipo
infermieristico, quelli che ce la fanno, soprattutto quelli che vogliono andare
oltre per continuare il viaggio della vita. Si è formato infatti, finalmente,
dopo lunghi tentativi, un gruppo consistente che con regolarità interviene due
o tre volte alla settimana con i migranti che non vogliono far domanda d’asilo in
Italia.
Siamo arrivati a Bihac la sera del
17 dicembre, insieme al fotografo romano, Andrea Sabbadini e agli attivisti
Chiara Lauvergnac di Trieste e Franco Casagrande di Genova. Ormai, dopo tanti
viaggi, la cittadina ci è diventata familiare – con i suoi edifici storici,
come l’alto campanile dell’antica chiesa abbandonata, che spicca da
lontano sul centro storico e il minareto del XVI° secolo, inserito
nella chiesa medioevale di Sant’Antonio; con le sue vecchie case che
portano ancora i segni della guerra e, soprattutto, con il suo
bellissimo fiume: paesisticamente è l’elemento più vitale, con le sue
anatre felici (tralasciamo i brutti edifici postbellici, cresciuti caoticamente
qua e là, segno di uno sviluppo economico che non c’è stato).
“A Bihac al momento situazione “festiva” con
luminarie e un sacco di gente in città, i migranti sono o dentro i campi
ufficiali o in tre squat (stadio, pensionato, fabbrica) e chi ha il passaporto
e la richiesta di asilo e paga può stare legalmente in appartamento privato”
(comunicazione di un operatore internazionale a Bihac, fine dicembre 2019).
Il clima è mite: l’ecocidio può avere questa
minima ricaduta vantaggiosa per chi deve percorrere a piedi la distanza fra la
Bosnia e l’Italia. Comincerà a guastarsi quando saremo a Kladuša, con
piogge desolanti sul terreno fradicio. Il freddo verrà sicuramente verso
gennaio.
La mattina del 18 siamo andati all’ospedale
per ritirare i documenti sanitari cui abbiamo accennato prima: che ci sono
stati consegnati subito con gentilezza, sventando i nostri timori di lungaggini
burocratiche. Così abbiamo avuto il tempo di fare un giro nei dintorni del
Borici, dove abbiamo incontrato un gruppo di afghani respinti che vivono
in un piccolissimo edificio abbandonato subito sotto l’ex-studentato. La
loro presenza e anche di altri è evidente: la polizia quindi sembra tollerarli.
Si tollera quando non si riesce a controllare.
A loro abbiamo consegnato scarpe e sacchi a
pelo. Il numero degli abitanti dei cosiddetti squat è ovviamente incerto – alcune
centinaia, pensiamo -; comunque si vedono in giro non solo in periferia e nei
dintorni. Poco dopo abbiamo fatto lo stesso con alcuni ospiti del Borici,
comunque bisognosi e altri che partivano per il game.
Alle 14,30 siamo arrivati di fronte al grande
capannone del campo Bira, ormai parte integrante della nostra iconografia
mentale quale immagine del campo ufficiale dell’UNHCR-IOM-UE, contrapposto al
campo comunale di Vucjak, ora disfatto.
“In questo momento al campo che dovrebbe
ospitare 1.500 persone ce ne sono 2.000. Il motivo per cui le persone dormono
per terra o nelle tende dentro il campo è perché ufficialmente (politica
bosniaca e decisioni cantonali) non si può superare le 1500 persone. Nonostante
questo e senza pubblicizzarlo, IOM sta facendo comunque entrare le persone al
campo quantomeno per dormire. Non possono però dare loro il cibo perché il cibo
viene dato solo a chi è registrato nel campo (id card IOM). Ogni martedì
mattina da sempre si fa la disinfestazione e derattizzazione del campo. Quando
le persone rientrano devono fare vedere il tesserino del campo. Per questo
motivo non entrano quelli non registrati che però dopo entrano dalle entrate
laterali e tutti fanno finta di niente” (comunicazione citata).
Qui, fra i numerosi gruppetti di ragazzi che
sostano fuori del campo – usciti con tesserino, “ospiti” semiclandestini o
sopravviventi fuori – abbiamo incontrato il nostro amico ventunenne, che il
giorno dopo porteremo a cena con le conseguenze punitive di cui sopra. E qui
incontriamo anche il ragazzo afgano in carrozzella con i piedi fasciati…
Parliamo anche con un gruppetto di una
quindicina di minori (14-16 anni), alcuni provenienti dall’Egitto. Si allarga
la tragica platea di chi è costretto ad andarsene dalla propria terra. È del 29
dicembre la notizia dello sbarco a Pozzallo, dalla nave Alan Kurdi, di famiglie
libiche, definite dai telegiornali “benestanti” o “borghesi”, in seguito al
peggioramento della situazione in Libia, dove la guerra fra le due principali
opposte fazioni di Serraj e Haftar sta precipitando con l’apporto sciacallesco
di varie potenze europee e non!
Alcuni di noi si mettono a curare piedi, i
piedi del game, di cui siamo diventati specialisti. sembra una battuta: ma lo
dico con grande tristezza…
Davanti al Bira incontriamo anche la troupe
televisiva di Tv 2000, con la quale avevamo fatto a Roma un’intervista
nell’aprile di quest’anno. È venuta a incontrarci, guidata dal giornalista Vito
D’Ettore, che intervista noi due e Franco Casagrande. Dobbiamo riconoscere a
quest’azienda televisiva vescovile un interesse genuino e non strumentale per
la problematica delle migrazioni, intervistando senza diaframmi operatori di
cultura laica come noi. È questo un sostegno indiretto
alla petizione fatta da Lorena, indirizzata alle istituzioni
europee, che ha raggiunto quasi 55.000 firme e che non ha sortito altri
effetti oltre a quello di coinvolgere per un momento i firmatari –
ovviamente. Non siamo ingenui credenti nel carattere democratico dell’UE.
Una petizione è solo un modesto strumento per agitare un problema, insistendo
nella denuncia di una politica scellerata, che tuttavia continua indifferente.
Il 19 facciamo l’ennesima spesa di scarpe, al
Bingo con una volontaria bosniaca. Più tardi incontriamo un ragazzo ferito in
una rissa, a quanto ci dicono provocata da afghani. Il ragazzo è stato dimesso
dall’ospedale con la ferita ancora aperta, cioè con una semplice
disinfettazione, senza i punti che sarebbero stati necessari e con la
prescrizione medica di un antibiotico generico: evidentemente il medico che
l’ha visitato non lo ha ritenuto degno di un intervento completo.
Dopo un’altra distribuzione dell’oggetto più
importante, le preziose scarpe (ci ricordiamo della figura del “greco”
di Primo Levi nella Tregua che insegnava sulle scarpe come
base vitale per chi affida la sua vita a un cammino?), verso le due, partiamo
per Kljuc, a trovare la bravissima Sanella.
Arriviamo a Velečevo, il piccolo paese
vallivo sul fiume Sana, al confine cantonale, dove vive e opera Sanella. È già
buio sullo sterrato al margine della strada per Sarajevo, attraverso un tratto
della Repubblica srpska, ostile ai migranti. Possiamo vedere per la prima volta
un container appena montato e una struttura in legno, che rendono meno
intollerabile lo scarico dei migranti dalle corriere da Tuzla e da Sarajevo,
che due poliziotti, in sosta lì giorno e notte, provvedono a scaricare.
Aspettiamo tre pullman. Questa volta nessuno. Andiamo in un locale di Kljuc a
mangiare qualcosa con Sanella, cui abbiamo lasciato delle scarpe. Poco dopo le
arriva una telefonata: c’è qualcuno che ha bisogno, sulla strada di Velečevo.
Sanella ci saluta e corre via.
Il giorno dopo (20) incontriamo un’altra
bravissima volontaria bosniaca, che ben conosciamo, cui lasciamo una somma di
denaro. Ci accoglie nella sua casa ordinata e pulitissima. Una scrivania con il
computer, piena di carte ben ordinate, testimonia della serietà e complessità
del suo impegno.
I volontari locali devono stare attenti:
un’altra donna, seriamente impegnata, con cui ci siamo incontrati la sera, ci
racconta che, per aver permesso a un migrante di fare una doccia in casa sua,
aveva ricevuto una multa altissima, sproporzionata rispetto alle condizioni di
vita “normali” in Bosnia.
Più tardi, andiamo davanti all’edificio abbandonato
sul fiume, dove parliamo con due ragazzi afghani che stavano in cima a uno dei
terrazzi del rudere. Promettiamo di tornare la sera con delle scarpe. Promessa
che non riusciamo a mantenere, perché i ragazzi di sera non si mostrano o non
ci sono, forse per la presenza di un gruppo di magrebini, che si mostrano con
noi troppo disinvolti.
Il pomeriggio ritorniamo davanti al Bira a
parlare con i ragazzi. Distribuiamo scarpe e ci occupiamo anche un poco di
curare piedi provati dal game. Molti i minorenni, soprattutto egiziani e
marocchini che mostrano i segni dei colpi polizieschi (croati) sempre negli
stessi punti, articolazioni e piedi, con l’evidente scopo di impedire il
camminare. Qui incontriamo anche il ragazzo afghano minorenne con i piedi seviziati
dalla polizia croata tanto da dover stare in carrozzella, cui abbiamo accennato
prima.
A sera, infine, andiamo a cena con il nostro
giovane amico in un albergo sul fiume: una bella serata per lui, che non si
accorge degli sguardi non amichevoli di una famiglia bosniaca al tavolo accanto
(colui che appariva come il capofamiglia addirittura si sposta per non doverlo
avere sotto gli occhi). Ci ricordiamo di un altro sguardo poco simpatico,
quello del padrone del nostro albergo a Bihac, quando ci ha visto in compagnia
di migranti. Queste sono le emozioni sociali più diffuse o comunque più
visibili a Bihac e nel Cantone. Soltanto la sera dopo, il nostro amico ci
avvertirà al cellulare che la security gli aveva impedito di entrare, malgrado
ne avesse il diritto e che lo avrebbe lasciato fuori anche per quella notte.
Così la bella serata, che avevamo creduto di offrirgli, si era conclusa per lui
nella pioggia e nel vento, a ribadire che un profugo non può esser felice
neppure per una sera.
Sabato 21 partiamo per Velika Kladuša. Una
frana che blocca la strada principale ci costringe a un giro tortuoso, lungo la
strada per Bouzin per poi arrivare a Kladuša. In una vallata fra alti colli, su
cui passa il confine, incontriamo gruppi che tornano dal game, nella sera che
scende rapida sotto la pioggia battente: almeno una quindicina di persone.
A Kladuša andiamo a incontrare i
volontari di NoNameKitchen, nell’appartamentino dove vivono: una decina di
ragazzi, spagnoli, italiani, tedeschi, anche un americano. Il coordinatore, con
nostro stupore data la lunga pratica con l’associazione, ci sembra avere
qualche resistenza a parlare liberamente con noi. Indubbiamente, NoNameKitchen
vive difficoltà crescenti, anche sotto il profilo organizzativo, per il continuo
ricambio delle persone.
Arrivano, poi, anche i volontari di
“Ospiti in arrivo” di Udine, con cui abbiamo coordinato in nostri aiuti in
denaro a Kladuša, e una bravissima volontaria locale che ben conosciamo.
NNK ha problemi con la polizia, che ha tentato
una perquisizione pur senza un mandato: evidentemente a scopo intimidatorio. La
polizia ferma i volontari e chiede spesso i documenti. NNK ha dovuto chiudere
la distribuzione regolare dei vestiti e dovrà chiudere anche la lavanderia.
Senza dare nell’occhio, raggiunge quotidianamente 80-100 persone migranti fra
punti concordati e “squat” (ci sono molti più “squat” di quanto si sappia). NNK
paga anche cure mediche.
I volontari di “Ospiti in arrivo” sono stati
fermati al confine e poi, a Kladuša, portati alla polizia per un controllo. Una
settimana fa, un camion in arrivo dalla Spagna è stato fermato dai croati,
costretto a scaricare il materiale, che arriva a Kladuša a piccoli blocchi e
con difficoltà.
Parliamo della situazione locale. Sopravvivono
800 persone nel campo Miral e circa 600 in giro. Medici senza frontiere ha una
clinica mobile tre volte alla settimana (lunedì, mercoledì, venerdì), per una
quarantina di persone assistite al giorno. Fra le situazioni
problematiche, ci parlano d’un ragazzo rimasto cieco d’un occhio e d’un
altro con il braccio rotto. Sul versante dei rapporti con la popolazione, due
locali sono stati chiusi perché servivano i migranti. Peggiorano anche i
rapporti fra le diverse aree culturali: il piccolo ristorante Albanian restaurant,
il locale dei migranti, dove si consumano cibi tradizionali e non si vendono
alcolici, non accetta magrebini.
Veniamo informati che adesso, contrariamente a
qualche tempo fa, i migranti possono viaggiare in autobus, se muniti di
biglietto.
Ovviamente il problema maggiore è il
freddo, che pure non è ancora arrivato in forze. In questi giorni piove
insistentemente e i campi nei dintorni sono pieni di fango. Le nuvole basse,
l’atmosfera umida e grigia danno un aspetto triste alla cittadina, proiettata
verso il confine non solo per i migranti, ma anche per molti bosniaci che
lavorano in Unione Europea, come ci costringe a capire la lunghissima fila di
automobili, tutte le volte che abbiamo varcato il confine domenica sera – noi
che possiamo.
Per concludere, la situazione è desolante
perché affonda dentro il fango di ciò che appare come una mancanza di
progettualità da parte di chi istituzionalmente dovrebbe
occuparsene. Sembra tutto delegato alle polizie, quella croata in primis,
pagata per questo, anche con il prossimo ingresso nell’Europa di Schengen e poi
anche a quella slovena, che comincia a incattivirsi, alla serba, per non
parlare di paesi come l’Ungheria. Cominciano a farsi avanti anche
organizzazioni private paramilitari.
Le organizzazioni ufficiali presenti
gestiscono l’esistente in termini di mera sopravvivenza, anzi un poco al di
sotto. Infatti, i migranti soffrono, si ammalano e anche muoiono. Questa
mancanza diventa di fatto un progetto: quello di umiliare, avvilire, stancare
una sotto-umanità. E se ci scappa il morto – più di trenta nel solo cantone
bosniaco – pazienza…
Non dimentichiamo, però, un dato importante –
questo si che è un progetto implicito, ma anche esplicito e spiega tante
cose: migliaia di persone che si muovono continuamente verso i confini
d’Europa e vi si accalcano e comunque riescono a passare, sono anche un
serbatoio di mano d’opera a costi minimi, servile e semischiavistica. Questo è
un punto che va sottolineato, dato che il criterio economico,
politico, culturale dello sfruttamento, è alla base delle nostre
società delle merci e del denaro. L’apparente disordine sotto il cielo di
Bosnia rimanda a un ordine inesorabile.
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