giovedì 30 gennaio 2020

La tribù bianca ha paura



Intervista di Gianluca Carmosino ad Alex Zanotelli


Oltre duecentocinquanta milioni di persone nel mondo, per ragioni diverse, hanno abbandonato il paese di origine, con un aumento del cinquanta per cento dal 2000. Mai nella storia dell’umanità si erano registrati livelli così alti di migrazione. La rotta più seguita e più in crescita per i flussi migratori è quella che va dal Messico agli Stati Uniti, seguita da quella che va dall’India all’Arabia Saudita e, a causa della guerra che il mondo ha dimenticato, da quella dalla Siria alla Turchia. Intorno alla questione migranti si intrecciano temi e storie che trasformano il mondo ogni giorno.
Di processi migratori, di Riace e di movimenti sociali ragiona in questa intervista Alex Zanotelli, missionario comboniano per molti anni in Sudan e Kenya, oggi a Napoli. Lo abbiamo incontrato a Riace dove insieme a Felicetta Parisi, pediatra in pensione, da un paio di anni in agosto trascorre diversi giorni per un campo destinato ai giovani (“Leggere la Bibbia a partire dal Dio dei poveri e del Creato”, un viaggio tra la disobbedienza di Rut, di Giona e del Samaritano…) e per accompagnare la rinascita del borgo dell’accoglienza più noto del mondo.
Il Mediterraneo è diventato un cimitero enorme: l’Europa ha già sulla coscienza oltre 50.000 migranti sepolti in mare. Quanto accade è prima di tutto il frutto di duecento anni di colonialismo e sfruttamento?
Bisogna riflettere bene, per alcuni aspetti sì, per altri no, come dimostrano le crescenti migrazioni provocate dai cambiamenti climatici. Secondo studi delle Nazioni Unite soltanto in Europa si temono a fine secolo cinque gradi in più di temperatura e sette/otto in Africa, tre quarti del continente africano sarà inabitabile, soltanto i rifugiati climatici nel mondo nel 2050 saranno almeno 250 milioni… Dati che fanno paura.
L’analisi coloniale resta fondamentale invece per capire chi siamo noi e la nostra relazione con il Sud del mondo. Il colonialismo ha imposto un pensiero, ha depredato diversi continenti, in Africa ha inventato confini a causa dei quali sono scoppiate numerose guerre. E ha fatto del motto divide et impera una strategia per dominare. Il colonialismo è rimasto anche in molti dei regimi africani nati dopo le dichiarazioni di indipendenza e oggi ha assunto volti nuovi, basti pensare al dominio di alcune grandi imprese cinesi e indiane. Anche per queste ragioni oggi milioni di persone sono in fuga da miseria e da guerre e il rifiuto dei migranti lega l’Europa con gli Stati uniti, ma anche con l’Australia.
Esiste anche una nuova importante lettura del colonialismo secondo la quale oggi è cominciata la crisi della “tribù bianca”. Una “tribù” con cinquecento anni di schiavismo alle spalle che ha imposto ovunque la cultura occidentale, ha diviso il mondo in civili e “barbari”, ha posto una religione sopra le altre. Quella tribù inizia a percepire di essere una minoranza e ha paura di perdere i propri privilegi costruiti grazie a schiavismo, colonialismo e neocolonialismo. Pierre Claverie, vescovo algerino, amato dai musulmani e assassinato per le sue amicizie con i senza potere e per il dialogo interreligioso, ha parlato di “bolla coloniale” (P. Claverie, Un vescovo racconta l’islam, Esd, Bologna, 2007, ndr) per descrivere il modo con cui il colonialismo ha marginalizzato e reso invisibili milioni di persone: oggi molti vivono ancora in quella bolla, invece abbiamo bisogno di umanità plurali, di creare un mondo che include tanti mondi.
In questo contesto, più volte a proposito delle politiche italiane in materia di migrazioni hai parlato di razzismo di stato e di disobbedienza.
Sì, perché si tratta di un lungo cammino xenofobo e razzista cominciato venti anni fa con la legge Turco-Napolitano tramite la quale sono nati i Centri di Identificazione ed Espulsione, seguito dalla Bossi-Fini, dai decreti Maroni e dalla legge Orlando-Minniti, oltre che al criminale accordo del ministro Minniti con la Libia. Questo razzismo di stato è poi sfociato in una guerra contro le ONG presenti nel Mediterraneo per salvare vite umane e nella chiusura dei porti, in barba a leggi nazionali e internazionali. Ma salvare un essere umano resta un dovere che affonda le radici nella natura stessa dell’uomo che è in primo luogo un ospite, “uno straniero residente”, per dirla con il filosofo Jacques Derrida. Un dovere codificato nel diritto internazionale ma anche nella tradizione ebraica, come ricorda il Levitico ”Il forestiero dimorante tra voi lo tratterete come colui che è nato fra voi: tu lo amerai come te stesso” e cristiana, ”Ero straniero e mi avete accolto” si legge nel Vangelo di Matteo. Oggi di fronte a norme come il decreto sicurezza abbiamo il dovere di disobbedire, promuovere resistenza civile in molte forme differenti anche pagando in prima persona, sull’esempio di Carola Rackete. C’è voluta una donna dai grandi ideali e dai nervi saldi per sconfiggere un governo e il suo razzismo istituzionale. Giuseppe Dossetti avrebbe voluto inserire nella nostra Carta costituzionale il seguente articolo: «La resistenza individuale e collettiva agli atti dei pubblici poteri, che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla Costituzione, è diritto e dovere di ogni cittadino». Oggi ne avremmo avuto bisogno per salvare quel che resta della nostra democrazia… È fondamentale imbroccare seriamente la strada della disobbedienza civile per tutte quelle leggi che disumanizzano i nostri fratelli e le nostre sorelle e disumanizzano anche noi. La mia generazione, quella nata dalla seconda Guerra Mondiale, rischia di essere tra le generazioni più maledette della storia umana, perché nessuna altra ha talmente violentato il Pianeta Terra e chi migra come lo abbiamo fatto noi…  I nostri nipoti diranno di noi quello che noi oggi diciamo dei nazisti. Per questo abbiamo bisogno di disobbedire, non solo per salvare vite in mare ma anche per fermare quanto sta avvenendo in Libia, dove sono rimasti quasi un milione di rifugiati che secondo il Rapporto del segretario generale dell’Onu sono sottoposti a detenzione arbitraria, torture, stupri, lavori forzati… Quel Rapporto condanna anche la condotta spregiudicata e violenta della Guardia Costiera libica nei salvataggi e intercettazioni in mare. In Libia l’unica cosa da fare resta creare presto corridoi umanitari verso l’Europa.
Cosa rappresenta oggi la storia di accoglienza diffusa di Riace brutalmente aggredita negli ultimi mesi?
La storia della comunità di Riace e del suo sindaco Mimmo Lucano insegnano due cose. La prima: la micro-accoglienza diffusa è possibile contrariamente a quanto ha detto in questi anni la politica istituzionale, altro che ossessioni securitarie. La seconda: quell’accoglienza è in grado di riportare vita nell’Appennino che muore. Il “fare in comune” sperimentato in quel borgo ha aperto strade importanti di economia solidale locale e moltiplicato sentimenti di speranza. Riace è e resterà a lungo un punto nevralgico di resistenza nel nostro paese, perché è prima di tutto un’idea che rifiuta la civiltà della barbarie.
Pochi anni fa c’è stata la stagione del movimento altermondialista, di Genova 2001, di cui oggi sentiamo un forte bisogno non solo per la lucidità delle analisi e delle proposte ma anche per la capacità di far camminare insieme pezzi di società diversa. Come favorire oggi le condizioni per l’emersione di un nuovo movimento?
Nei mesi di Seattle e Genova vivevo a Korogocho, immenso slum di Nairobi, e ho cercato di contribuire a quella stagione di movimenti favorendo la nascita della Rete Lilliput. È stata una stagione straordinaria perché è emerso un movimento di movimenti, molto giovanile e popolare, che sapeva tenere insieme persone provenienti da mondi diversi. Un movimento che faceva paura al potere. Per questo c’è stata la volontà dall’alto, che in Italia ha avuto il volto del vicepresidente del consiglio Gianfranco Fini, di distruggerlo. Genova è stata una cesura storia del diritto. Una delle lezioni di quel movimento, maltrattato da tutti i partiti, tuttavia è giunta fino a noi: il cambiamento sociale non può mai avvenire dall’alto. Oggi sentiamo il bisogno di quel movimento perché il sistema fa di tutto per frantumare i pezzi di società che si muovono in basso, imponendo un individualismo ideologico. Ho l’impressione che anche il web contribuisca a illudere e a creare difficoltà: i frutti delle tecnologie incorporano e producono sistemi di relazioni sociali specifici… Dobbiamo prima di tutto tornare a pensare: i tre discorsi ai movimenti popolari di papa Francesco possono essere un ottimo punto di partenza.
Hai spesso utilizzato gli strumenti del giornalismo per gridare e per smascherare le strategie del potere, provocando l’ira di molti, negli anni Ottanta, ad esempio, di ministri come Giulio Andreotti, Bettino Craxi, Giovanni Spadolini per il loro sostegno al commercio di armi e a tante guerre. Più recentemente anche Matteo Salvini ti ha dedicato alcuni dei suoi tweet. Com’è cambiato il giornalismo? Di quale comunicazione indipendente abbiamo bisogno?
L’informazione libera fa sempre paura. Quando tocchi alcuni gangli del potere la reazione è inevitabile, come dimostra, solo per fare uno esempio abbastanza recente, la vicenda di Daphne Caruana Galizia, la giornalista maltese che anche due settimane prima del suo omicidio aveva denunciato le minacce di morte ricevute, le connessioni tra la malavita organizzata, gli interessi della finanza globale e la corruzione delle istituzioni politiche. Più importante è la consapevolezza che i grandi media restano sempre in mano ai grandi poteri. Eppure raccontare in modo diverso è possibile e consente di fare emergere altri mondi, altri punti di vista, pensiero critico. Insomma, c’è vita oltre l’ideologia e il dominio del denaro. Ma per imparare a guardare il mondo in modo diverso e per imparare a raccontarlo in modo differente bisogna ribaltare anche il modo di fare scuola e, nel caso dei credenti, anche molti luoghi di crescita nella Chiesa: non è un caso se al centro di Lettera a una professoressa c’è la parola, la parola con la quale capire il mondo e con la quale mostrare una coscienza critica. Ripartiamo da quel meraviglioso testo scritto don Milani e dagli alunni della scuola di Barbiana.

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