Si va verso la spartizione della
Libia - Giorgio Ferrari
«It’s complicated», usano dire i
britannici quando la situazione è molto imbarazzante, e per il nostro Paese in
effetti lo è. Lo è a causa della defezione del premier libico Fayez al-Sarraj, che mercoledì scorso
di ritorno da Bruxelles ha bruscamente interrotto il piano di volo che avrebbe
dovuto condurlo a Palazzo Chigi appena appreso che nei corridoi del governo già
scorrazzava il suo nemico giurato
Khalifa Haftar. Una stizzita ma prevedibile rinuncia da parte di un
leader riconosciuto dall’Onu ma di fatto uomo debole del regime quanto Haftar è
l’uomo forte, il “maschio alfa” di questa contesa.
Una contesa piena di
contraddizioni che vede schieramenti incrociati e sovrapposti a sostegno
dell’uno e dell’altro, dalla Nato (Turchia e Francia appartengono alla medesima
alleanza ma Parigi appoggia il cirenaico Haftar e Erdogan il sempre più debole
Sarraj) all’Onu (Russia e Francia, membri permanenti del Consiglio di
sicurezza, non appoggiano il leader che il Palazzo di Vetro ufficialmente
riconosce come unico e legittimo), fino al mondo sunnita (Egitto e Arabia
Saudita sono nemici dei Fratelli musulmani che invece la Turchia e il Qatar
vellicano e finanziano).
Non è tutto: Russia e Turchia, fratelli negli affari energetici, sono su
due fronti diversi in Libia: da una parte i “contractor” della Wagner al soldo
di Mosca, dall’altra i giannizzeri di Ankara, pronti a rimettere piede dopo 109
anni sul «bel suol d’amore».
Come si vede, it’s
complicated. Ma da questo pasticcio si evincono almeno tre certezze. La
prima riguarda l’Italia e la sua irrilevanza diplomatica nonostante le buone
intenzioni. Se all’ondivaga politica dei due forni finora perseguita si
aggiungono le gaffe protocollari (Sarraj – permaloso come solo i satrapi del
Maghreb e del Medio Oriente sanno essere – si sarebbe risentito essenzialmente
per essere stato messo in agenda dopo Haftar) perdiamo quel residuo di
credibilità su cui facevamo affidamento per contare qualcosa nella Yalta che
prima o poi verrà indetta per sistemare l’increscioso pasticcio libico.
La seconda
considerazione riguarda la Russia. Poco vi è da aggiungere riguardo a Vladimir
Putin, spregiudicato e vincente su tutta la linea, la cui persistente politica
che alterna minacce a strette di mano, buoni affari e sostegno militare gli ha
già fatto guadagnare dapprima la base di Sebastopoli in Crimea e
successivamente (è la cambiale che Bashar al-Assad ha dovuto pagare per continuare
a regnare sul fragile trono di Damasco) una robusta presenza aero-navale nei
porti siriani e una promessa del governo di Tobruk (cioè di Haftar) di
installare una base militare sulla costa della Cirenaica. Terza considerazione:
dopo il summit fra Putin e Erdogan e l’annuncio di un cessate il fuoco in Libia
a partire da domenica prossima appare chiaro che sono loro, i fratelli-coltelli
del Great Game degli idrocarburi, a condurre il gioco, non
l’Italia, non l’Europa, non la Nato e nemmeno l’Onu.
Giusto domandarsi
dunque: che ne sarà di Sarraj?
Dove andrà a finire il vaso di coccio di Tripoli una volta completata
l’inevitabile spartizione della Libia? Nessuno per ora lo sa. Follow
the money, «segui il denaro» recita un altro detto britannico. Perché è l’immensa
riserva di idrocarburi che ammicca seducente dai terminali di Ras Lanuf nel
Golfo della Sirte e di Mellitah e Zawiyah in Tripolitania a muovere gli
appetiti regionali e internazionali attorno al puzzle libico. E saranno i più
forti e i più spregiudicati a stabilire un domani le porzioni con cui dividersi
la torta energetica. Difficile pensare che fra di essi ci possa essere ancora
Fayez al-Sarraj.
Libia, una nuova Siria sotto casa e la politichetta a litigare sui migranti - Ennio Remondino
La Libia stava
diventando la nuova Siria a tre passi da casa e noi, orbi e schiocchi, fermi
alla politichetta all’incasso di qualche voto in più in cambio di qualche
migrante in meno, presto avremo mezza Libia -non i migranti dall’Africa della
fame, ormai prigionieri e schiavi dei vari signori della guerra e trafficanti
ma cittadini libici in fuga da una guerra sempre più feroce- a bussare alle
porte dell’Europa.
Una Libia ormai
campo di battaglia di jiadisti riciclati dalla Turchia, di contractors dalla
steppa e di potenze armate di tante voglie di petrolio e di potere. Troppi
protagonisti in campo e due grandi assenti: gli Stati Uniti del nemico europeo
Trump, e la impotente Nato ricattata dalla Turchia di Erdogan che dopo aver
aiutato il macello siriano, ora progetta un nuovo Mediterraneo ottomano.
In ‘terra caecorum’ una
Siria sotto casa
Ankara trasferisce in
Libia i miliziani jihadisti reduci dalla Siria. Escalation quotidiana dove i
protagonisti del conflitto libico sono sempre di più i Paesi stranieri. A
partire dalla Turchia, che dopo aver anticipato dal 7 al 2 gennaio il voto del
parlamento per l’invio di suoi militari a sostegno di Tripoli, ha anticipato
tutti inviando nella Tripoli minacciata un primo gruppo di combattenti di
ritorno dalla Siria. Quanti, dove e come, notizie incerte e contradditorie. A
darne per primo notizia stato un video che riprende alcuni ‘volontari’
appena giunti in territorio libico evocare la jihad. Immagini assai
circostanziate, secondo alcuni esperti, che avrebbero individuato il punto di
raccolta nel campo di Tekbali, sul fronte di Salaheddin, alle porte di Tripoli.
Al Sarraj per qual che
vale, nega
Smentisce la presenza di
combattenti siriani o altri mercenari a Tripoli è il quasi Governo di al
Sarraj. Lui smentisce e altri smentiscono lui. L’Osservatorio siriano per i
diritti umani, creatura britannica anti Assad che svolge ora altre funzioni,
parla di circa 300 combattenti trasferiti dal territorio siriano controllato
dalla Turchia alla Libia. La gran parte provengono dal movimento «Hazm». Mervan
Qamishlo, portavoce delle Forze democratiche siriane (alleato americano nella
guerra all’Isis), sostiene che centinaia di combattenti del cosiddetto Fronte
al-Nusra (la filiale siriana di al Qaeda), dello Stato islamico e dell’Esercito
libero siriano, una fazione più moderata, si sono trasferiti in Libia.
Libia siriana si
annuncia a Pozzallo
Disattenti quasi tutti,
ma a Pozzallo la notte di Natale sono sbarcati 32 libici, cittadini libici veri
e non migranti dalla disperata Africa. «Tutti appartenenti alla classe media,
laureati, istruiti e senza segni di torture», precisa Mario Giro
sull’Huffington Post. E l’ex vice ministro agli esteri, governi Renzi e
Gentiloni, denuncia: «L’aver lasciato marcire il conflitto libico a causa della
nostra ossessione migratoria, ci ha fatto perdere di vista la cosa più
importante: più la guerra avanza e più la Libia assomiglia alla Siria (dalla
quale sono fuggite 10 milioni di persone…). Dovevamo fare politica e operare
per ricreare uno Stato in Libia. Ci siamo accontentati di trattare con ambigue
milizie, troppo deboli per essere utili a qualcosa ma abbastanza mafiose per
promettere mari e monti».
Il Jihad globale dalla
Siria alla Libia
Libia Siria sempre più
simili in cosa? Da conflitto di bassa intensità tra gruppi d’interesse armati e
contrapposti, a una guerra aperta, con armi pesanti, combattuta da miliziani di
varie nazionalità e diversi ‘padrini’ internazionali. Haftar alleato
all’Egitto, ai Paesi del Golfo e alla Russia con cui combattono somali,
sudanesi e mercenari ‘da altri jihad o contro-jihad’. Oltre ai contractor della
Wagnar dalla Russia. Con Serraj stanno arrivando i ribelli siriani filo-turchi.
«Il jihad globale ha internazionalizzato il conflitto in Medio Oriente e di
espanderlo verso il Mediterraneo e l’Africa sub-sahariana, con un intreccio tra
lotta sunniti vs sciiti e sunniti tra di loro». Finale politico: Russia a
Turchia su fronti opposti (come in Siria) ma capaci sempre di trovare accordi. «Paradossale
che Mosca e Ankara riescano dove Parigi e Roma hanno finora fallito…».
da
qui
Torture nei
campi di detenzione: le nuove immagini choc - Paolo
Lambruschi
Una giovane
eritrea appesa a testa in giù urla mentre viene bastonata ripetutamente nella
"black room", la sala delle torture presente in molti centri libici
per migranti. Il video choc - di cui riportiamo solo alcuni fermo immagine - è
stato spedito via smartphone ai familiari della sventurata che devono trovare i
soldi per riscattarla e salvarle la vita.
È quello che accade a Bani Walid, centro di detenzione informale, in mano alle milizie libiche. Ma anche nei centri ufficiali di detenzione, dove i detenuti sono sotto la "protezione" delle autorità di Tripoli pagata dall’Ue e dall’Italia: la situazione sta precipitando con cibo scarso, nessuna assistenza medica, corruzione. In Libia l’Unhcr ha registrato 40mila rifugiati e richiedenti asilo, 6mila dei quali sono rinchiusi nel sistema formato dai 12 centri di detenzione ufficiali, il resto in centri come Bani Walid o in strada. In tutto, stima il "Global detention project", vi sarebbero 33 galere. Vi sono anche detenuti soprattutto africani non registrati la cui stima è impossibile.
È quello che accade a Bani Walid, centro di detenzione informale, in mano alle milizie libiche. Ma anche nei centri ufficiali di detenzione, dove i detenuti sono sotto la "protezione" delle autorità di Tripoli pagata dall’Ue e dall’Italia: la situazione sta precipitando con cibo scarso, nessuna assistenza medica, corruzione. In Libia l’Unhcr ha registrato 40mila rifugiati e richiedenti asilo, 6mila dei quali sono rinchiusi nel sistema formato dai 12 centri di detenzione ufficiali, il resto in centri come Bani Walid o in strada. In tutto, stima il "Global detention project", vi sarebbero 33 galere. Vi sono anche detenuti soprattutto africani non registrati la cui stima è impossibile.
La vita
della ragazza del Corno d’Africa appesa, lo abbiamo scritto sette giorni fa, vale
12.500 dollari. Ma nessuno interviene e continuano le cronache dell’orrore da
Bani Walid, unanimente considerato il più crudele luogo di tortura della Libia.
Un altro detenuto eritreo è morto qui negli ultimi giorni per le torture
inferte con bastone, coltello e scariche elettriche perché non poteva pagare. In
tutto fanno sei morti in due mesi. Stavolta non siamo riusciti a conoscere le
sue generalità e a dargli almeno dignità nella morte. Quando si apre la
connessione con l’inferno vicino a noi, arrivano sullo smartphone con il ronzio
di un messaggio foto disumane e disperate richieste di aiuto, parole di
angoscia e terrore che in Italia e nella Ue abbiamo ignorato girando la testa o
incolpando addirittura le vittime.
«Mangiamo un
pane al giorno e uno alla sera, beviamo un bicchiere d’acqua sporca a testa.
Non ci sono bagni», scrive uno di loro in un inglese stentato. «Fate in fretta,
aiutateci, siamo allo stremo», prosegue. Il gruppo dei 66 prigionieri eritrei
che da oltre due mesi è nelle mani dei trafficanti libici si è ridotto a 60
persone stipate nel gruppo di capannoni che formano il mega centro di
detenzione in campagna nel quartiere di Tasni al Harbi, alla periferia della
città della tribù dei Warfalla, situata nel distretto di Misurata, circa 150
chilometri a sud-est di Tripoli. Lager di proprietà dei trafficanti,
inaccessibile all’Unhcr in un crocevia delle rotte migratorie da sud (Sebha) ed
est (Kufra) per raggiungere la costa, dove quasi tutti i migranti in Libia si
sono fermati e hanno pagato un riscatto per imbarcarsi. Lo conferma lo studio
sulla politica economica dei centri di detenzione in Libia commissionato
dall’Ue e condotto da "Global Initiative against transnational organized
crime" con l’unico mezzo per ora disponibile, le testimonianze dei
migranti arrivati in Europa.
I
sequestratori, ci hanno più volte confermato i rifugiati di Eritrea democratica
contattati per primi dai connazionali prigionieri, li hanno comperati dal
trafficante eritreo Abuselam "Ferensawi", il francese, uno dei
maggiori mercanti di carne umana in Libia oggi sparito probabilmente in Qatar
per godersi i proventi dei suoi crimini. Bani Walid, in base alle testimonianze
raccolte anche dall’avvocato italiano stanziato a Londra Giulia Tranchina, è un
grande serbatoio di carne umana proveniente da ogni parte dell’Africa, dove i
prigionieri vengono separati per nazionalità. Il prezzo del riscatto varia per
provenienza e sta salendo in vista del conflitto. Gli africani del Corno
valgono di più per i trafficanti perché somali ed eritrei hanno spesso parenti
in occidente che sentono molto i vincoli familiari e pagano. Tre mesi fa, i
prigionieri eritrei valevano 10mila dollari, oggi 2.500 dollari in più perché
alla borsa della morte la quotazione di chi fugge e viene catturato o di chi
prolunga la permanenza per insolvenza e viene più volte rivenduto, sale. Il
pagamento va effettuato via money transfer in Sudan o in Egitto.
Dunque
quello che accade in questo bazar di esseri umani è noto alle autorità libiche,
ai governi europei e all’Unhcr. Ma nessuno può o vuole fare niente. Secondo le
testimonianze di alcuni prigionieri addirittura i poliziotti libici in divisa
entrano in alcune costruzioni a comprare detenuti africani per farli lavorare
nei campi o nei cantieri come schiavi.
«Le otto ragazze che sono con noi – prosegue il messaggio inviato dall’inferno da uno dei 60 prigionieri eritrei – vengono picchiate e violentate. Noi non usciamo per lavorare. I carcerieri sono tre e sono libici. Il capo si chiama Hamza, l’altro si chiama Ashetaol e del terzo conosciamo solo il soprannome: Satana». Da altre testimonianze risulta che il boia sia in realtà egiziano e abbia anche un altro nome, Abdellah. Avrebbe assassinato molti detenuti.
«Le otto ragazze che sono con noi – prosegue il messaggio inviato dall’inferno da uno dei 60 prigionieri eritrei – vengono picchiate e violentate. Noi non usciamo per lavorare. I carcerieri sono tre e sono libici. Il capo si chiama Hamza, l’altro si chiama Ashetaol e del terzo conosciamo solo il soprannome: Satana». Da altre testimonianze risulta che il boia sia in realtà egiziano e abbia anche un altro nome, Abdellah. Avrebbe assassinato molti detenuti.
Ma anche nei
centri di detenzione pubblici in Libia, la situazione resta perlomeno
difficile. Persino nel centro Gdf di Tripoli dell’Acnur per i migranti in fase
di ricollocamento gestito dal Ministero dell’Interno libico e dal partner
LibAid dove i migranti lasciati liberi da altri centri per le strade della
capitale libica a dicembre hanno provato invano a chiedere cibo e rifugio. Il
31 dicembre l’Associated Press ha denunciato con un’inchiesta che almeno sette
milioni di euro stanziati dall’Ue per la sicurezza, sono stati intascati dal
capo di una milizia e vice direttore del dipartimento libico per il contrasto all’immigrazione.
Si tratta di Mohammed Kachlaf, boss del famigerato Abd
Al-Rahman Al-Milad detto Bija, che avrebbe accompagnato in Italia nel viaggio
documentato da Nello Scavo su Avvenire. È finito sulla lista nera
dei trafficanti del consiglio di sicurezza Onu che in effetti gli ha congelato
i conti.
Ma non è
servito a nulla. L’agenzia ha scoperto che metà dei dipendenti di LibAid sono
prestanome a libro paga delle milizie e dei 50 dinari (35 dollari) al giorno
stanziati dall’Unhcr per forniture di cibo a ciascun migrante, ne venivano
spesi solamente 2 dinari mentre i pasti cucinati venìvano redistribuiti tra le
guardie o immessi nel mercato nero. Secondo l’inchiesta i danari inoltre
venivano erogati a società di subappalto libiche gestite dai miliziani con
conti correnti in Tunisia, dove venivano cambiati in valuta locale e riciclati.
Una email interna dell’agenzia delle Nazioni Unite rivela come tutti ne fossero
al corrente, ma non potessero intervenire. L’Acnur ha detto di aver eliminato
dal primo gennaio il sistema dei subappalti.
Alberto Negri: articoli sulla Libia
Sembriamo dei sonnambuli. Inutile girarci intorno:
qual è l’interesse dell’Italia in tutta questa storia? Nessuno ce lo sa dire
perchè di tutto quello che sta accadendo non siamo stati neppure informati pur
avendo militari in Iraq, Libano, Afghanistan. Inglesi e francesi, molto probabilmente,
all’ultimo minuto sono stati avvisati dagli Usa che stavano per colpire il
generale iraniano Qassem Soleimani in Iraq. Noi che laggiù
abbiamo più di 900 soldati, niente: e ora ci troviamo nel mezzo di un conflitto
senza sapere cosa fare. Che il presidente della
Repubblica, visto che è capo supremo delle Forze armate, convochi il consiglio
di difesa per prendere delle decisioni o almeno esaminare la situazione.
Abbiamo due fronti, quello libico e quello
iraniano ma non abbiamo alcuna idea di cosa fare se non compiere giri
turistici per le capitali del Mediterraneo. Che siano definiti gli interessi
nazionali - politici, energetici ed economici - e vengano resi noti anche a una popolazione, quella italiana, che pensa di vivere
in un mondo di frutta candita. Altrimenti anche tenere dei soldati in Iraq
diventa un gesto criminale se non è accompagnato da un minimo di consapevolezza.
Senza contare che in Libia, a Tripoli, dove abbiamo foraggiato per anni governo
e fazioni, adesso comanda Erdogan, un signore che mette in pericolo i
nostri rifornimenti energetici nel Mediterraneo o che comunque ne decide adesso
le sorti. Ma stiamo scherzando?
Per il resto dovremmo avere capito che alla leadership
americana attuale - costituita da Trump e da una
cerchia che obbedisce volentieri agli interessi americani in Israele e Arabia
Saudita - di noi come europei importa poco o nulla: non siamo
abbastanza “affidabili” e soprattutto abbiamo un ruolo secondario nella
grande partita che gli Usa si giocano con la Cina e la Russia. Tutto quanto sta
accadendo era scontato. A un atto di guerra è seguito,
come logico, un altro atto di guerra per ora solo limitato all’Iraq dove gli
americani hanno assassinato il generale iraniano Qassem Soleimani.
Non poteva essere diversamente e Trump lo sapeva perfettamente. Di
fronte a questa ovvia considerazione deriva una domanda: il presidente
americano ha una strategia? Visti i precedenti c’è da dubitarne.
Più che una strategia Trump ha davanti un
obiettivo: l’unica cosa che ha in mente da quando è
salito alla presidenza è eliminare il regime iraniano su pressione di Israele e
dell’Arabia Saudita. Ha stracciato l’accordo sul nucleare del 2015
voluto da Obama, imposto sanzioni giugulatorie a Teheran per
soffocarne l’economia, ha riconosciuto l’annessione israeliana del Golan e
di Gerusalemme, stretto la mano al principe assassino Mohammed bin Salman,
che è il suo maggiore acquirente di armi, e poi ha provocato Teheran uccidendo
il vero numero due di Teheran
La situazione è semplice: o comincia la quarta guerra
del Golfo mentre è già in corso anche quella in Libia oppure
gli americani non replicano ai missili iraniani e si tenta di frenare
l’escalation. Ieri, questa è la cosa da sottolineare, non hanno
risposto subito all’attacco missilistico e le difese delle basi Usa non sono
scattate. In realtà anche se finisse qui sarebbe soltanto una tregua per
riprendere le ostilità alla prima occasione. Ormai Trump ha aperto un altro
vaso di Pandora come fece George Bush junior attaccando l’Iraq di Saddam
Hussein nel 2003 sulla base della menzogna che gli iracheni possedevano armi di
distruzione di massa.
Una cosa è certa: a Trump non importa niente degli iraniani
e del Medio Oriente, se non avere sotto controllo la situazione giocando gli
uni contro gli altri e vedere come usarli nelle trattative con Mosca o Pechino. Ma soprattutto disprezza anche gli europei: ci considera
inutili e lo ha detto chiaramente. Un giorno ha dichiarato_ mentre
faceva massacrare da Erdogan i suoi alleati curdi siriani_ che “tanto
gli Stati Uniti sono a 10mila chilometri di distanza”. E voi state ancora a
pensare di essere alleati di Washington? Svegliatevi.
2 Alberto
Negri -La Libia spartita e declassata. E noi con lei
L’aria che tira è quella della spartizione tra
Tripolitania e Cirenaica. Erdogan e Putin si fronteggiano e negoziano. La Libia
era la nostra torta di frutta candita ma da tempo le fette le decidono gli
altri e gli alleati ci snobbano.
L’aria che tira è quella della spartizione tra
Tripolitania e Cirenaica. A puntate, con una riunione internazionale dopo
l’altra, si va verso una sorta di “declassamento” di fatto del riconoscimento
dell’Onu assegnato al governo di Tripoli per aprire la strada, al massimo, a qualche
labile soluzione confederale dove il nocciolo vero della questione è la
divisione delle risorse petrolifere.
Per evitare l’escalation del conflitto non ci sono
altre soluzioni: cosa che era già evidente nel 2011 quando il 19 marzo Francia,
Gran Bretagna e Usa attaccarono Gheddafi per sostenere i ribelli di Bengasi.
Tutti sapevano già allora che le divisioni tribali ma anche regionali e locali
avrebbero avuto un ruolo decisivo perché lo Stato libico esisteva da 40 anni
solo nella persona di Gheddafi e nella sua cerchia di potere, non in una realtà
amministrativa e militare tenuta dal raìs in una condizione quanto mai labile
per il timore che si costituisse qualche realtà nazionale a lui ostile. E
infatti una volta che la Francia di Sarkozy – a sua volta foraggiato da
Gheddafi – ha infiltrato la cerchia di potere nei mesi precedenti la rivolta lo
stato libico ha cominciato a liquefarsi e non è mai più riaffiorato, preda
delle divisioni interne, del radicalismo islamico e delle influenze
internazionali.
Come avviene per ogni Stato “fallito” ma
potenzialmente assai ricco che produce gas e petrolio gli appetiti interni ed
esterni sono forti, qui come in Iraq o in Yemen. In più la vastissima Libia è
un incrocio nevralgico tra Mediterraneo e Africa che fa troppo gola alle
potenze coinvolte nella regione. Tutto dunque è la Libia, tranne una cosa: un
porto sicuro per i migranti come hanno cercato di illudersi e illudere i nostri
governi. Anche in questo abbiamo sbagliato di grosso perdendo di vista la vera
partita geopolitica.
Decideranno le battaglie sul campo come quella in
corso a Sirte tra il generale Khalifa Haftar, il governo di Tripoli e la
città-stato di Misurata, dove ci sono oltre 300 militari italiani a guardia di
un ospedale. Ma a fare la differenza saranno soprattutto i due protagonisti
delle vicende mediterranee, Putin ed Erdogan, che oggi si incontrano ad Ankara
a inaugurare il Turkish Stream ma a parlare anche di molto altro, dalla Libia
alla Siria, alla tensione Usa-Iran. Erdogan, alleato della Nato ormai fuori
controllo, ha inviato le truppe a Tripoli e mercenari jihadisti per aiutare
Sarraj e i Fratelli Musulmani, Putin appoggia con i suoi mercenari Haftar,
insieme a Egitto, Emirati, Arabia Saudita, con Francia e Stati Uniti che
esibiscono un atteggiamento sempre assai ambiguo ma di fatto più favorevole al
generale che a Tripoli. Dalla parte di Haftar, a parte Putin, ci sono i
maggiori acquirenti di armi di Washington come sauditi ed emiratini, alleati
tra l’altro di Usa e Israele contro l’Iran degli ayatollah.
L’Italia non sta in mezzo ma sotto. Ufficialmente è
con Tripoli ma sta cercando di riposizionarsi intensificando i rapporti con
Haftar incontrato da Di Maio a dicembre e che dovrebbe tornare presto a Roma.
L’Italia sta sotto perché i suoi alleati occidentali hanno turlupinato il
governo Berlusconi nel 2011 quando attaccarono Gheddafi e la spinsero, su
decisione dell’ex presidente Napolitano, a unirsi ai raid della Nato. Sta sotto
perché deve salvare capra e cavoli, in particolare l’Eni, che è ancora la
maggiore azienda libica, gestisce il gasdotto Green Stream e fornisce il 70%
dell’elettricità al Paese, insieme a quelle commesse che il defunto raìs ci
aveva promesso (50 miliardi di euro). La Libia era la nostra torta di frutta
candita ma da tempo le fette le decidono gli altri.
Un decennio fa nella tenda di Gheddafi il raìs
distribuì onorificenze e medaglie a Giulio Andreotti, Lamberto Dini, all’ex
ministro Giuseppe Pisanu, a Vittorio Sgarbi, al premier Berlusconi, a Frattini,
Prodi e D’Alema. Aveva in pratica premiato tutta la classe dirigente della
Repubblica che di lì a poco poi lo avrebbe abbandonato. L’attuale ministro
degli Esteri italiano Di Maio, ieri alla riunione Ue sulla Libia a Bruxelles e
oggi al Cairo con Francia Grecia e Cipro, invece deve stare attento a non fare
gaffe. Così prima di incontrare il fronte pro-Haftar e anti-turco vedrà il
ministro degli Esteri di Ankara Mevlut Cavusoglu.
Sulla Libia non abbiamo più nessuna leva, non
piacciamo troppo ad Haftar e neppure a Sarraj che ormai
parla solo con Erdogan. Per questo stiamo sotto botta: è finita da un
pezzo per noi l’era dei ricchi premi e cotillons, quelli li dava solo il raìs.
Qual è
l’interesse dell’Italia in tutta questa sto
L’aria che
tira è quella della spartizione tra Tripolitania e Cirenaica. A puntate, con
una riunione internazionale dopo l’altra, si va verso una sorta di
“declassamento” di fatto del riconoscimento dell’Onu assegnato al governo di
Tripoli per aprire la strada, al massimo, a qualche labil..Alberto Negri -L’Italia
si tiri fuori dalle guerre altrui
3 Alberto
Negri -L’Italia si tiri fuori dalle guerre altrui
Se si
preparano nuove guerre dobbiamo restarne assolutamente fuori come ha fatto la
Germania in questi anni. Nel 2011 l’Italia ha bombardato Gheddafi, il suo
maggiore alleato nel Mediterraneo e non dobbiamo ripetere lo stesso errore
E’
cominciata l’era della barbarie e ci dobbiamo preparare alla svelta. Come siamo
arrivati sull’orlo di una guerra in Medio Oriente e di un’altra in Libia? E’
vero che come media-bassa potenza l’Italia può fare poco ma ha almeno il dovere
di capire quanto succede intorno.
In Medio
Oriente Trump, sotto impeachment e in campagna elettorale, ha preso alcune
decisioni fuori dalla legalità internazionale, dal buon senso politico e
ultimamente anche contro gli stessi principi morali dell’Occidente. La stessa
amministrazione Usa appare umiliata perché non si sa più cosa contino
dipartimento di Stato e Pentagono dove si sono succeduti ministri e funzionari
a raffica, silurati appena eccepivano sulle opinioni dell’omone.
1) Spinto da
Israele e dall’Arabia saudita, Trump ha stracciato l’accordo sul nucleare del
2015 con l’Iran imponendo sanzioni che hanno strangolato Teheran e impedito a
tutti di avere rapporti economici con gli iraniani. E’ inutile lamentarsi
se Teheran punta all’atomica: in Medio Oriente Israele ha 200 testate nucleari
e al contrario dell’Iran non ha mai firmato nessun accordo di non
proliferazione (come Pakistan e India) L’Italia con le sanzioni ha perso
in Iran 30 miliardi di euro di commesse: Teheran non è un nostro nemico,
tutt’altro. 2) Trump ha deciso di riconoscere l’annessione israeliana del Golan
e di Gerusalemme contro ogni risoluzione dell’Onu e si è detto pronto anche a
riconoscere l’annessione della Cisgiordania. I palestinesi forse non sono più
di moda ma almeno noi evitiamo di fare i maramaldi 3) Trump ha ritirato le
truppe dal Nord della Siria lasciando i curdi siriani, alleati contro l’Isis,
al massacro di Erdogan senza neppure avvertire la Nato. Una mossa vergognosa
cui l’Europa non ha vergognosamente risposto. 4) Trump ha colpito il generale
iraniano Qassem Soleimani violando la sovranità dell’Iraq con un atto di
terrorismo internazionale che è una vera e propria dichiarazione di guerra 5)
Trump minaccia di colpire anche i siti culturali iraniani, una dichiarazione
che non si è mai sentita da nessun leader occidentale 6) Però mantiene ottimi
rapporti con il principe saudita Mohammed bin Salman che la stessa Cia ha
indicato come mandante della tortura e dell’assassinio del giornalista Jamal Khashoggi
La sua idea
è quella di farla finita con gli stati fuorilegge ma 1) Negozia con il leader
nordcoreano Kim Jong un che l’arma nucleare l’ha già 2) Tratta con i talebani
in Afghanistan ma non con l’Iran.
Qual è la
sua idea di fondo, semmai ne avesse una? Disimpegnare gli Stati Uniti dalle
guerre in Medio Oriente affidandosi a Israele e all’Arabia Saudita ma
riservandosi di colpire chiunque non sia d’accordo con lui.
Quali sono
gli effetti? 1) Con il ritiro dalla Siria del Nord ha concesso a Erdogan, che
acquista armi dai russi pur essendo dentro la Nato, di fare quello che vuole e
infatti il rais turco ha spedito truppe in Libia violando le risoluzioni Onu
sull’embargo di armi. 2) In Iraq il palamento chiede il ritiro delle truppe
internazionali e americane con il risultato di indebolire le posizioni
strategiche americane e occidentali. Se l’Iran ha esteso la sua influenza
nella regione è anche per gli errori degli americani a partire dalla guerra del
2003 contro Saddam 3) In Libia ha lasciato che le vere decisioni sul Paese
vengano prese da Putin ed Erdogan che si incontreranno domani ad Ankara.
Quali sono
le idee di fondo di Trump? 1) Che gli europei sono alleati inaffidabili, che
non pagano a sufficienza per la loro sicurezza ed quindi è venuto il momento di
abbandonarli al loro destino minacciando dazi e sanzioni se si ribellano
all’ordine economico americano e fanno affari con la Cina 2) Che nel mondo
arabo e musulmano sono amici soltanto gli stati che comprano armi dagli Usa,
quindi Arabia Saudita, Emirati ed Egitto, gli altri devono andare in malora.
Cosa deve
fare l’Italia? 1) Ragionare su un ritiro ordinato dall’Iraq e dall’Afghanistan
in linea con il rispetto degli accordi presi e la legalità internazionale 2)
Dichiarare la propria neutralità o equidistanza sulla Libia, come fa la
Germania del resto, perché c’è un governo riconosciuto dall’Onu a Tripoli ma
che nessuno vuole. Sono contrari: Russia, Egitto, Emirati, Arabia Saudita ma
anche Usa e Francia che fanno continuamente il doppio gioco appoggiando se
occorre il general Khalifa Haftar. 3) Tenere sotto pressione gli Usa per la
loro attività nella basi di Sigonella e Niscemi per evitare di diventare i
bersagli della mosse avventate di Trump. Lui stesso ha dichiarato che gli
“Stati Uniti sono a 10mila chilometri di distanza quindi non ne sono toccati”.
Noi purtroppo dobbiamo tenere conto della vicinanza ai fronti di guerra.
Se si
preparano nuove guerre dobbiamo restarne assolutamente fuori come ha fatto la
Germania in questi anni. Nel 2011 l’Italia ha bombardato Gheddafi, il suo
maggiore alleato nel Mediterraneo e non dobbiamo ripetere lo stesso errore. E
ora non resta che sperare nella buona fortuna che talvolta, non sempre, aiuta
la gente onesta.
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