La Repubblica, 13 gennaio 2020
Dopo 40 anni nessuna verità sul volo Itavia. È la cattiva sorte - e la
crudele memoria - ad affiancare due tragedie così distanti tra loro. Ma andrà
pure riconosciuto che i generali iraniani - brutti, sporchi, cattivi e con le
spalle al muro - hanno impiegato 72 ore a confessare davanti al mondo di avere
abbattuto, per "imperdonabile errore", il Boeing di linea ucraino con
i suoi 176 passeggeri a bordo.
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Mentre noi italiani brava gente, custodi dei diritti umani, della libera
informazione, di una opinione pubblica abilitata a tutti gli standard delle
democrazie occidentali, stiamo per celebrare i 40 anni della strage di Ustica
senza sapere ancora la verità - vera, univoca, accertata - su quello che
accadde alle 20,59 del 27 giugno 1980, quando il volo di linea Dc-9 Itavia,
sulla rotta Bologna-Palermo, scomparve dal cielo dei radar, per posarsi sulla
palude nera dei misteri italiani con i suoi duemila frammenti recuperati in
mare, le infinite indagini, gli infiniti depistaggi, le immancabili commissioni
di inchiesta, e i suoi 81 passeggeri morti, da allora insepolti.
Troppe prove documentali inchiodavano i generali di Teheran, si è detto:
impossibile smentire le immagini, i satelliti, i tracciati radar. Di minuto in
minuto la verità dei fatti si era mangiata le menzogne pronunciate, nelle prime
ore dopo l'esplosione, dai militari iraniani e dal presidente Hassan Rouhani.
Tutto vero. Ma è altrettanto vero che anche nella tragedia italiana di
quarant'anni fa c'erano prove documentali a disposizione della verità: c'erano
i tracciati radar, le registrazioni radio, le registrazioni telefoniche, le
identificazioni dei transponder, i registri degli aeroporti militari, gli occhi
elettronici di tutti i Servizi segreti addestrati a farsi la guerra nel
Mediterraneo. Solo che da noi sono state le menzogne a mangiarsi la verità.
E a digerirla con tecniche da manuale della disinformazione. Per prima cosa
la strage è stata suddivisa in tante versioni possibili: il missile, la
collisione, la bomba interna, persino il "cedimento strutturale".
Ogni ipotesi moltiplicata da testimoni e indizi favorevoli e contrari, dunque
equivalenti. Per poi essere complicate da indagini malfatte, omissioni,
dimenticanze, lentezze.
Il tutto perfezionato dall'implacabile silenzio dei vertici
dell'Aeronautica militare. Dalla pavidità dei governi italiani. Dall'omertà che
gli alleati militari si sentono onorati di rispettare. Erano gli anni della
Guerra fredda. E della massima tensione con la Libia di Gheddafi. Portaerei
americane e francesi incrociavano nel Golfo di Napoli e al largo della Corsica.
Pattuglie aeree italiane monitoravano i confini. Probabile che il volo
Itavia sia finito dentro "uno scenario di guerra aerea": due Mig
libici inseguiti dagli F 104 americani o dai Mirage francesi, che si rifugiano
sotto la traccia radar del DC-9 che viaggia lento, velocissimi missili
aria-aria che volano a intercettare i mig, l'impatto che fa esplodere l'aereo
sbagliato. Da allora: 2 milioni di pagine di indagini al primo (unico e mai
concluso) processo, 4 mila testimoni, 300 miliardi di lire spese
nell'inchiesta, una scia di 14 morti sospette legate ai misteri della strage, a
cominciare dal pilota libico schiantatosi sui monti della Sila e dal radarista
Mario Alberto Dettori, primo testimone di quella notte, trovato impiccato a un
albero, un suicidio ancora senza spiegazioni.
Tutto archiviato nel grande buio del Museo della Memoria di Bologna,
dove i tecnici con infinita pazienza hanno ricostruito il 96 per cento del
relitto. Che aspetta da 40 anni, in quella sospensione di tempo e di
significato, un gesto di coraggio che ancora nessuno, dopo trenta governi che
hanno sorvolato la nostra Repubblica, ha avuto il coraggio di compiere.
Basterebbe una parola di verità, anzi due: "imperdonabile errore".
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