martedì 30 aprile 2019

Italia in Libia a fare cosa? Fregatura Trump, serve ‘aiutino’ Putin - Ennio Remondino




Con Trump gara voltagabbanasperando in un aiutino di Putin
Maldicenze con qualche precedente storico: «Gli italiani cominciano con un alleato e finiscono con un altro». Ma c’è di peggio in giro. Dalla cabina di regia sulla Libia promessa da Trump all’Italia, al salto della quaglia in coppia. “Contrordine giallo-verde”, annota severo Alberto Negri. «Per evitare un’altra clamorosa sconfitta come quella del 2011 con la caduta di Gheddafi, l’Italia obbedisce a Trump, molla Sarraj, insegue Haftar e invoca l’aiuto di Putin. Il salto della quaglia in Libia è arrivato quando ormai da tempo si era capito che Serraj -sbarcato a Tripoli nel 2016 proprio dagli italiani- non lo voleva più nessuno di quelli che contano sulla scena internazionale punta più sul premier di Tripoli».

Conte, equilibrista tra Salvini e Di Maio: ‘Né Sarraj né Haftar ma col popolo libico’
Dunque, l’Italia travagliata del governo giallo-verde a sfumature incerte, si adegua alla nuova linea di Trump, favorevole al generale Khalifa Haftar, e tratta con Putin e il generale al Sisi con cui spende le solite parole di circostanza sul caso Regeni. Il problema vero, Salvini pensi ciò che vuole, è che l’Italia nella memoria Usa resta la potenza coloniale (e fascista) sconfitta nella seconda guerra e presa a sberleffi nel 2011 con la defenestrazione di Gheddafi. A Tripoli, con Sarraj, abbiamo sostenuto un governo appoggiato dai Fratelli musulmani, l’Islam politico sconfitto dal colpo di stato di al Sisi in Egitto, dalla guerra in Siria e dall’isolamento del Qatar, a cui noi abbiamo venduto 10 miliardi di euro tra navi, elicotteri e aerei in un anno e mezzo.

Altri fanno di peggio ma a noi paghiamo pegno
Altri, dagli Usa alla Francia, fanno di peggio e con peggiori vergogne di regime (vedi sauditi), ma loro sono robusti e ricchi e con amici potenti e possono fregarsene del resto. Prova dell’isolamento anche italiano al Consiglio di sicurezza. Gli Usa che bloccano la risoluzione chiede lo stop dell’offensiva di Haftar, e l’Ue che è riuscita ad approvare un appello alla fine delle ostilità ma non ha nominato Haftar. E allora, corsa ad aiutare il vincitore (sperando di non sbagliare anche questa volta, con Haftar generale in difficoltà). Gli interessi in gioco, dal petrolio a quelli militari, con alleanze trasversali che vogliono tagliando fuori l’Italia. E qui ‘l’amico Putin’ e la Russia di antica condivisione di alleanze ed interessi con l’Eni.

Italia in confusione e quei jihadisti accanto a Sarraj che allarmano tutti
«L’Italia, ondivaga come non mai sulla Libia, ieri ha aperto un canale privilegiato con la Russia, principale alleata del generale cirenaico Haftar -commenta Rachele Gonnelli, sul Manifesto- Il premier Conte, che solo tre giorni fa ha rassicurato telefonicamente il premier di Tripoli Serraj, intimando la ritirata ad Haftar, ieri a margine del summit di Pechino è riuscito ad avere con Putin una mezz’oretta di colloquio sulla crisi libica. Decisamente più importante il faccia a faccia tra Putin e l’egiziano Al Sisi, per una strategia comune nel negoziato politico da riattivare tra i vari attori libici sotto l’egida delle Nazioni unite. Anche perché Haftar, pessimo politico, anche come generale ha qualche problema sul campo di battaglia.
‘Blitz’ impantanato
alla periferia di Tripoli
L’offensiva di Haftar ‘per liberare la capitale dai «terroristi»’, ancora impantanata nei sobborghi , lontano dal centro della città, fermata dall’aviazione di Misurata e dalle milizie. Ed ecco la costretta ‘guerra di posizione’, che impone nuove trattative politiche senza un vincitore militare e dettare regole. Ma sono i combattenti jihadisti arrivati a dar loro manforte contro il generale, a far paura. Algeria e Tunisia confinanti che descrivono la situazione libica come «allarmante e caotica». Blocco occidentale e nuovo terrorismo a mettere bombe o a masse di migranti della paura. E il rischio che i terroristi dalla Siria e dal Nord Africa, senza rifugi e senza avvenire, possano essere attirati nella fornace libica.

Il ragionamento alla base dell’umiliazione USA dei palestinesi - Marwan Bishara





Da due anni a questa parte, l’amministrazione Trump sta lanciando un’offensiva diplomatica a tutto campo contro i palestinesi, mentre elabora un nuovo progetto per la soluzione del conflitto mediorientale. Ha dichiarato di avere un piano diverso da qualsiasi altro, ha sminuito – definendola “speculazione selvaggia -, ogni cosa detta al riguardo, e ha accusato i critici di aver dato un giudizio affrettato prima ancora di conoscere il piano.
In realtà, i palestinesi non conoscono il piano, ma hanno un’idea abbastanza precisa di ciò che questo comporterà. Hanno potuto osservare attentamente l’amministrazione Trump sputar fuori una politica dopo l’altra con il chiaro intento di umiliarli e sottometterli.

 Trump: la gallina dalle uova d’oro di Israele
Nell’ultimo anno e mezzo, l’amministrazione del presidente USA Donald Trump  ha fatto al governo di Benjamin Netanyahu un “regalo politico” dopo l’altro.
Nel dicembre 2017, la sua amministrazione ha riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele e, in maggio 2018, vi ha spostato l’ambasciata USA da Tel Aviv. Nel gennaio 2018, ha congelato ogni contributo all’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite che ha il compito di sostenere milioni di palestinesi che vivono da rifugiati, e nel giugno dello stesso anno ha abbandonato il Consiglio ONU per i Diritti Umani, dopo averlo accusato di avere un pregiudizio contro Israele in considerazione delle sue politiche nella Palestina occupata. In settembre, l’amministrazione Trump ha chiuso l’ufficio di rappresentanza dell’OLP a Washington.
Nel frattempo, ha dato a Netanyahu carta bianca per l’espansione degli insediamenti ebraici in Cisgiordania, che il Dipartimento di Stato ha smesso di definire “occupata” nei documenti ufficiali, indicandola, invece, come “sotto il controllo israeliano”.
Infine, alla vigilia delle elezioni israeliane di quest’anno, il presidente Trump ha firmato una dichiarazione in cui si riconosce l’annessione israeliana delle Alture del Golan siriane, annessione precedentemente dichiarata “nulla” dall’amministrazione Reagan e dal Consiglio di Sicurezza ONU.
Cosa forse ancor più allarmante, l’amministrazione Trump ha spinto determinati Paesi arabi alla normalizzazione delle relazioni con Israele, senza che, da parte di Israele, vi sia stata alcuna concessione.
Queste politiche USA hanno incoraggiato Netanyahu, che sarà per la quinta volta primo ministro, a vantarsi di poter mantenere per sempre la sovranità israeliana su una “Gerusalemme unita”, “capitale eterna” di Israele, e a promettere solennemente che non cederà mai il controllo israeliano sui territori palestinesi a ovest del fiume Giordano. Si è anche impegnato ad annettere tutti gli insediamenti israeliani illegali in Cisgiordania.
Dal canto loro, la leadership palestinese e i governanti arabi hanno fatto poco o niente, se non rilasciare qualche dichiarazione irrilevante.

Zeloti al cubo
Questi e altri cambiamenti della tradizionale politica estera statunitense in Medio Oriente hanno visto la luce grazie all’iniziativa dei tre maggiori consulenti di Trump sul Medio Oriente: suo genero Jared Kushner e quelli che erano i suoi avvocati a New York, Jason Greenblatt e David Friedman, che da anni promuovono attivamente le politiche a favore di Israele.
Questi tre fieri sionisti radicali hanno dimostrato chiaramente il proprio entusiasmo per gli insediamenti israeliani illegali nei territori palestinesi e il rifiuto di etichettare come “occupata” la Cisgiordania e Gerusalemme.
Ma il trio di Trump continua a sorprendere, e non in senso positivo. Kushner e soci sono così estremisti che, in confronto, Netanyahu sembra un moderato.
Fanno parte di un gruppo di estremisti sionisti americani che si oppose al processo di pace di Oslo negli anni ’90 e che, addirittura, paragonò i mediatori di pace israeliani ai collaborazionisti nazisti. Hanno liquidato i diritti nazionali e storici palestinesi e difeso le azioni di Israele come consacrate da Dio. Come i loro amici evangelici, credono che il loro capo Trump sia un unto del Signore destinato a prendersi cura di Israele, e pensano che la volontà divina, come da loro interpretata, possa sostituire quella della comunità internazionale.
L’anno scorso, Friedman, che è stato ambasciatore USA in Israele, ha twittato: “Più di 2000 anni fa, i Maccabei, patrioti ebrei, hanno conquistato Gerusalemme, purificato il Sacro Tempio e l’hanno riconsacrato come casa della nazione ebraica. L’ONU non può cancellare questi fatti con un voto: Gerusalemme è la capitale ancestrale e attuale di Israele”.
Il fatto che il trio di Trump sfoggi di un tale super-fondamentalismo religioso, mentre insiste in modo poco credibile di avere a cuore l’interesse dei palestinesi, dovrebbe preoccupare tutti, in Medio Oriente e non solo.

Trame e intrallazzi
Mentre Kushner è rimasto sostanzialmente silenzioso sul nuovo accordo, Friedman e Greenblatt sono stati molto loquaci relativamente ai suoi pregi e alle implicazioni per i palestinesi.
Con impareggiabile chutzpah (“impertinenza” in ebraico, ndt.), entrambi gli avvocati hanno ”trollato” (provocato attraverso strumenti mediatici, ndt.) i leader palestinesi e li hanno messi in imbarazzo accusandoli di fregarsene del popolo palestinese. Hanno anche accusato ingiustamente i palestinesi di “lodare” il terrore e nascondere terroristi e, nello stesso tempo, hanno difeso strenuamente Israele contro qualsiasi critica – incluse quelle provenienti dai media statunitensi – relativa alla sua violenza e oppressione.
Con ogni probabilità, il trio si è affidato alla tristemente nota guida mediatica “Progetto Israele” per “condottieri in prima linea nella battaglia mediatica per Israele”, con l’obiettivo di mettere in imbarazzo l’Autorità Palestinese a guida Abbas e tifare per il governo Netanyahu. Fanno largo uso dei trucchetti delle pubbliche relazioni, come: “Noi siamo pronti ad aiutare i palestinesi, ma lo è anche la loro leadership?”
Tutto ciò spinge a chiedersi: perché mai i palestinesi dovrebbero prendere in considerazione il piano USA, quando Kushner e soci invocano l’espropriazione della loro terra, del loro capitale e delle loro risorse, tutto in nome del realismo e della pace? Perché dovrebbero pensarla diversamente, quando due dei principali esperti pro-Israele ed ex consulenti alla Casa Bianca ritengono che il piano sia semplicemente “molto pretenzioso” e votato al fallimento?
Bene, il trio di Trump ribadisce che si sta lavorando a qualcosa di totalmente diverso rispetto alle precedenti iniziative USA, come Kushner ha dichiarato al Time 100 Summit questa settimana – qualcosa basato sulla realtà, non sulla fantasia – e quanto prima i palestinesi lo accetteranno, tanto più rapidamente le loro vite miglioreranno. Ma se le iniziative precedenti sono fallite perché erano sbilanciate in favore di Israele, come potrebbe questa, ancor più sbilanciata in favore di Israele, portare alla pace? Non c’è bisogno di dirlo, nessuna nazione occupata o colonizzata ha accolto, né mai lo farà, un consiglio basato esclusivamente sulla logica di una potenza canaglia.
Ma se l’amministrazione USA vuole davvero che i palestinesi seguano il piano, perché continua a umiliarli in pubblico e in privato? Dopotutto, qualsiasi nuovo accordo, come qualsiasi vecchio accordo, dovrebbe prevedere l’accettazione di una ripartizione e/o condivisione della terra.

“L‘arte dell’umiliazione”
Nel tentativo di offrire la propria interpretazione del vecchio adagio “Non puoi fare una frittata senza rompere qualche uovo”, il signor Kushner ha scritto, in una e-mail di gennaio, che “Il nostro obiettivo non può essere quello di mantenere la situazione stabile, così com’è; il nostro obiettivo dev’essere quello di renderla decisamente MIGLIORE! A volte bisogna strategicamente rischiare di rompere le cose per ottenere un risultato”.
Ma rompere cosa, esattamente?
Sembra che il principale obiettivo di Kushner sia spezzare lo spirito dei palestinesi e le loro speranze di ottenere uno Stato sovrano sui territori occupati nel ‘67, per costringerli ad accontentarsi dell’autonomia in alcune parti di questi territori, con una possibilità futura di uno pseudo Stato “Prima Gaza”, condizionato dalla buona condotta.
Tutto ciò mi fa venire in mente una vecchia storiella che Kushner sicuramente conosce, una parabola ebraica che racconta di un pover’uomo che si lamenta con il suo rabbino del fatto di dover vivere con la sua grande famiglia in una casa minuscola. Il rabbino gli dice di portare in casa anche tutti i suoi animali. Per quanto stupito, l’uomo fa ciò che gli è stato detto. Il giorno dopo, corre di nuovo dal rabbino e si lamenta che la situazione è peggiorata. Il rabbino, allora, gli suggerisce di eliminare i polli. Leggermente sollevato, ma ancora infelice del suo stile di vita, l’uomo torna dal rabbino, che gli consiglia di eliminare un altro animale. Questo viavai si ripete finché l’uomo non elimina tutti gli animali. Il giorno dopo, torna dal rabbino con un grande sorriso. “Oh Rabbino! – dice – Stiamo così bene adesso. La casa è così tranquilla, e abbiamo spazio in abbondanza!”.
La morale della storia è che, se si cambia il modo di vedere le cose, le cose cambiano. In questo senso, il trio di Trump sta cercando di costringere i palestinesi a capire che la loro realtà non è poi così male, se paragonata a quanto peggiore potrebbe diventare.
Ma la verità è che, cambiando la prospettiva, non si cambia la realtà. Infatti, ogni volta che i palestinesi hanno cambiato il loro modo di vedere le cose, su insistenza degli USA, nell’ultimo quarto di secolo, la loro situazione è solo peggiorata. In qualsiasi modo la si guardi, da decenni lo Stato di Israele si espande a spese della Palestina.
È ora che una nuova generazione di leader palestinesi rimodelli radicalmente la realtà, rovesciando o superando le politiche passate e attuali degli USA e di Israele.
(Traduzione di Elena Bellini)

lunedì 29 aprile 2019

L’AMERICA HA DATO IL SUO BENESTARE AL FURTO DI TERRA - Robert Fisk




Lasciamo perdere il “legame speciale” con quegli svitati in Gran Bretagna, o quando il Nuovo Continente corse a salvare il Vecchio Continente durante la Seconda Guerra Mondiale.
Al momento, c’ è solo un legame speciale che conta – e tutti sappiamo qual è.
Avendo dato la sua benedizione al riconoscimento di Gerusalemme come proprietà d’Israele, e avendogli recentemente concesso il possesso del Golan – perché “annettere” significa “prendere possesso”, no?  – Donald Trump ha minacciato nella loro interezza le fondamenta del principio “terra in cambio di pace”, sancito dalla Risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza. E Israele è felice. Un dono per la rielezione di Benjamin Netanyahu, ci è stato detto.
È vero, il “processo di pace” per il Medio Oriente è morto diversi anni fa – semmai sia mai esistito, o sia mai stato pensato per funzionare davvero – ma la firma di Trump sull’annessione israeliana del Golan, concessa con un fare quasi esibizionistico, manda totalmente in frantumi i documenti, i paragrafi, le stesse basi  per la soluzione a due Stati tra Israele e Palestina che avrebbe potuto mettere fine all’occupazione militare più lunga nella storia dei nostri giorni.
E gli Stati Uniti hanno ora fornito in modo aperto, pubblico e sincero il loro supporto a Israele nell’ultima guerra coloniale al mondo.  E se adesso è toccato al Golan diventare parte di Israele a causa della minaccia iraniana, un giorno potrebbe toccare al Libano meridionale. Hezbollah come l’Iran non è forse un’altra minaccia?

E quanto tempo passerà prima che la Cisgiordania venga annessa da Israele con il benestare degli Stati Uniti?
Prendete nota di due elementi nei paragrafi che avete appena finito di leggere. Innanzitutto, il numero di volte che sono stato costretto a inserire fra virgolette verbi, nomi e aggettivi che in genere non necessitano di essere inseriti fra virgolette. E poi, come una parola – Siria – non compare proprio.
È passato così tanto tempo da quando la Siria ha perso il Golan nel 1967, che la cosa è stata normalizzata in modo perverso, la sua stessa appartenenza ha smesso di esistere; il riconoscimento di Trump dell’ “annessione” israeliana del Golan – non riconosciuta da nessun altro Stato al mondo – ha meramente preso atto di ciò che  segretamente sapevamo già.  Che il furto della Terra siriana è ora perfettamente legale. O “legale”. Le modalità con cui il sito della BBC abbia deciso di coprire la storia della birichinata di Trump sul Golan parlano chiaro: il titolo dice “Cosa vuol dire tutto ciò” ma non viene nominata la parola Siria fino al quinto paragrafo.
I media, con la loro servile, codarda e vigliacca riverenza a Israele – e con il loro timore ossessivo di essere gettati all’Inferno con l’accusa di “antisemitismo”, ci devono molte risposte. Quando Colin Powell ordinò al Dipartimento di Stato degli Stati Uniti di istruire le sue ambasciate a definire la Cisgiordania “contesa” piuttosto che “occupata”, anche la stampa e la TV americane cambiarono la terminologia usata, quasi all’istante. E così, quando qualche settimana fa il Dipartimento di Stato ha improvvisamente iniziato a parlare del Golan come “controllato da Israele”, anziché  “occupato da Israele”, tutti sapevamo quale sarebbe stato il passo successivo.
Grazie al cielo, come dico sempre, ci sono quei giornalisti israeliani coraggiosi – e quei pochi preziosi attivisti e politici – che alzano la loro voce contro queste assurdità.
Questa manomissione del linguaggio, tuttavia, non è  né velata, né  inaspettata – considerata la totale devozione americana a tutti gli affari israeliani – ma rappresenta una seria minaccia per gli abitanti del Medio Oriente.
Sono stato molto colpito da quanto affermato da Netanyahu in risposta alla firma di Trump apposta su quel vergognoso documento sul Golan: ha affermato che “le radici degli Ebrei nel Golan sono millenarie”. Vero.
Ma mi sono improvvisamente ricordato di quando nel 1982, dopo che l’invasione del Libano andava avanti da settimane, le truppe israeliane e funzionari dei “rapporti con i civili” viaggiarono attraverso i villaggi Sciiti e Cristiani del Libano Meridionale per distribuire questionari agli Arabi. Li ho visti con i miei occhi. I documenti erano lunghi e complicati.  Ai Libanesi fu chiesto se ci fosse qualche traccia di reperti archeologi ebraici sulle loro terre. Se per caso avessero notato che sui loro vecchi palazzi ci fossero segni che rimandassero a insediamenti ebraici nei decenni o secoli precedenti. Se ci fossero colline o villaggi che avevano nomi ebraici. Erano soprattutto interessati all’area compresa nel triangolo Tiro, Sidone e Cana.
Di sicuro, c’erano molti reperti ebraici. Anche nei villaggi collinari delle montagne druse di Shouf, ho notato l’intaglio delmezuzah sugli stipiti delle porte di pietra, a testimoniare del fatto che i proprietari originari seguirono gli ordini del Libro del Deuteronomio. Gli Israeliani notarono questi segni; a dire il vero, gli stessi abitanti li indicarono ai soldati che, all’inizio, sembravano cordiali. Ma questo, ovviamente, ha stabilito un precedente.  Magari – dopo l’ennesima Guerra al Libano – Israele decide che piuttosto che occupare il Libano meridionale, può annettersi la regione perché  “le radici della presenza ebraica” nella regione sono “millenarie”.
Si, lo so che Israele dovrebbe sconfiggere Hezbollah per far questo – un evento improbabile dal momento che Hezbollah non avrebbe alcun problema a penetrare il territorio Israeliano attraverso il confine Libanese.
Ma in 18 anni in cui Israele ha occupato quasi tutto il Libano meridionale, i media non hanno mai definito quell’area come “occupata da Israele”.  È stata sempre definita come “controllata da Israele” e, più in generale, nessuna zona occupata da Israele è stata mai definita usando questa etichetta. Al contrario, si è preferito chiamarla “zona di sicurezza” israeliana. Noi giornalisti abbiamo già fatto il lavorio di preparazione semantica per l’annessione che non è ancora avvenuta.
Ma questa non è più una storia che riguarda il Libano ma piuttosto una storia che riguarda Trump. Infatti, guardando alle pagliacciate che avvengono nella madre dei parlamenti, trovo ancor più imbarazzante scrivere sulla follia della Casa Bianca di Trump. No, questa storia riguarda l’atto stesso di annessione internazionale e la volontà dell’Occidente di acconsentire al furto di terra – a meno che Putin e la Russia non siano coinvolti, certamente –  E riguarda il fatto che – non usiamo mezzi termini con le definizioni qui – gli Stati Uniti, nella loro politica estera, si sono concessi in pegno a Israele.
Come molti 20 anni fa, ho raccolto dozzine di dichiarazioni politiche del governo statunitense e di quello israeliano sul Medio Oriente, mischiandoli – e ho chiesto a un collega di riorganizzarli nell’ordine originale. I lettori possono sottoporsi alla stessa prova: era – ed è – un compito impossibile.
Sono stanco degli argomenti totalmente falsi sull’antisemitismo negli Stati Uniti. Nel Paese ci sono tanti razzisti che si scagliano contro gli Ebrei, gli Arabi e i Neri e non bisogna spogliare di significato la parola “antisemitismo” per usarla come arma contro tutte le critiche che vengono fatte a Israele.
Non ci servono nuovi legislatori di origine araba, con le loro osservazioni losche e spiacevolmente rivelatrici e la loro comprensione superficiale della storia, per capire che gli Americani non oseranno mai lamentarsi per la doppia lealtà dei loro concittadini e concittadine.
Ci basta guardare al Congresso americano quando Netanyahu gli si rivolge. I rappresentanti degli Stati Uniti si alzano e applaudono e si siedono e poi di nuovo si alzano e applaudono e si siedono – 29 volte nel 2011 e 39 volte nel 2015. Guardo sempre a questo atto di servilismo dei legislatori americani con un sorriso, perché mi ricorda le ovazioni che Saddam Hussein riceveva sempre dal suo adorato popolo e che Bashar al-Assad ha sempre ricevuto – e ancora riceve –  dai suoi fedeli dipendenti.
E posso ben capire perché il Congresso rimane sempre sull’attenti quando il vice presidente di Trump, Mike Pence, afferma, come ha fatto anche Lunedì, the “stiamo dalla parte di Israele perché la sua causa è la nostra causa, i suoi valori sono i nostri valori, e le sue battaglie sono le nostre battaglie”.
Davvero? Gli Sati Uniti, che hanno combattuto una guerra coloniale contro la Gran Bretagna, stanno davvero dalla parte del colonialismo israeliano – della sua espansione coloniale e furto di terre in Cisgiordania?
Gli Americani stanno davvero dalla parte d’Israele, nei suoi costanti e brutali bombardamenti contro I Palestinesi – e il Libano – e tollerano e approvano quei crimini di guerra che tutti, tranne gli Americani, attribuiscono a Israele?
E se lo fossero davvero, perché  gli Americani si sono disturbati a intraprendere una guerra contro Saddam? Perché bombardiamo la Siria?
Non c’è motivo di ripercorrere la sporca storia delle annessioni. Dell’annessione  statunitense delle Hawaii perché all’America serviva un porto navale nel Pacifico (come notarono i Giapponesi) e di quella di quasi tutto il Nuovo Messico, il Texas e l’Arizona.  Non voglio nemmeno tirare in ballo Putin e la Crimea.  Né sicuramente abbiamo bisogno di ripercorrere le annessioni perpetrate dal piccolo caporale con i baffi di cui – sull’esempio di Jacinda Arden – non voglio nemmeno nominare il nome , che annesse il Sudetenland e l’Austria, l’ultimo evento seguito da un editoriale del Times che lo paragonava in modo favorevole all’unione tra Scozia e Inghilterra vecchia 300 anni.
Ma ci sono dei parallelismi disegnati dagli stessi Paesi nel momento  stesso in cui decidono di annettere – o dare il benestare alle annessioni – della terra di qualcun altro. Il tutto viene giustificato o con le radici etniche o con la necessitàmilitare, nella maggior parte dei casi con entrambe.
Oggi dobbiamo re-imparare la vecchia locuzione “realtà dei fatti”.  Israele ha occupato Gerusalemme e il Golan, rispettivamente nel 1980 e 1981 – tutto il mondo (e molti Israeliani) hanno condannato l’atto al tempo –  ma ora Trump ha spezzato in due l’equazione “terra in cambio di pace”. Washington  ha dato la sua approvazione all’acquisizione illegale di terra, al furto di terra.  E perché no, quando il Congresso è alla mercé di Israele?
Eppure perché agitarsi di fronte a tutto questo? Alla fine Trump. Riconoscendo l’annessione israeliana del Golan, ha solo riconosciuto il fatto che Israele ha annesso l’America.

(Traduzione a cura di Rossella Tisci – Invictapalestina.org)


Francesco sfida Trump: 500.000 dollari ai migranti fermi in Messico alla frontiera Usa



Papa Francesco ha destinato 500 mila dollari dell’Obolo di San Pietro per l’assistenza ai migranti in Messico. Un aiuto concreto e molto simbolico che sarà distribuita tra 27 progetti delle 16 diocesi messicane che avevano chiesto al Vaticano un aiuto per continuare a fornire alloggio, cibo e beni di prima necessità a quella massa di persone che non smette di ammassarsi sul confine con la speranza di poter arrivare un giorno negli Usa.


«Negli ultimi mesi – spiega il comunicato vaticano – migliaia di migranti sono arrivati in Messico, dopo aver viaggiato per oltre 4.000 chilometri a piedi e con mezzi di fortuna da Honduras, El Salvador e Guatemala. Uomini e donne, spesso con bambini piccoli, fuggono da povertà e violenza, con la speranza di un futuro migliore negli Stati Uniti. Ma la frontiera statunitense rimane chiusa».

Nel 2018 sono entrate 75.000 persone e si annuncia l’arrivo di altri gruppi. Tutte queste persone sono rimaste bloccate, non potendo entrare negli Stati Uniti, senza casa né mezzi di sostentamento. La Chiesa Cattolica ospita migliaia di loro negli alberghi delle diocesi o delle congregazioni religiose, fornendo il necessario per vivere, dall’alloggio ai vestiti.

Dei 27 progetti di assistenza ai migranti, 13 sono già stati approvati per le diocesi di Cuautitlan, Nogales (2), Mazatlan, Queretaro, San Andres Tuxtla, Nuevo Laredo (2) e Tijuana; così come per le Scalabriniane, la Congregazione dei Sacri Cuori di Gesù e Maria e le Sorelle Josefinas. Altri 14 progetti sono in corso di valutazione, poiché prima di assegnare l’aiuto è richiesto un uso regolato e trasparente delle risorse, di cui si deve rendere conto.


domenica 28 aprile 2019

Invalsi, contrordine scolari! - Gianluca Gabrielli

Contrordine scolari! L’Invalsi e la velocità di lettura che non serve più.

Ormai ci stiamo avvicinando ai vent’anni di ingresso nella scuola italiana dei test Invalsi. Nel 2001 infatti iniziano i primi test, a campione, per poi divenire nel 2005 obbligatori, prima di tutto nella scuola primaria. Da quel momento le prove invalsi non mancano mai tra le incombenze assegnate agli insegnanti italiani. Si tratta generalmente di prove lettura e comprensione e di quesiti matematici a risposte multiple. Attraverso i dati che scaturiscono da queste prove l’Invalsi si illude di misurare la qualità della scuola italiana. Con l’alterigia di chi si presenta come indiscutibile autorità scientifica, l’istituto restituisce alle scuole i dati percentuali relativi alle risposte attribuendo ad essi valore di valutazione oggettiva del sistema e sollecitando l’adesione a corsi di formazione, piani di miglioramento e riorganizzazioni della didattica per ovviare alle carenze riscontrate. L’Invalsi insomma agisce come un superministero scientifico del controllo della qualità scolastica.

Dal 2008 al 2017 tra i test è stata inclusa una prova preliminare di lettura per i bambini e le bambine di seconda classe della scuola primaria.
L’esercizio viene esplicitamente previsto come prova di velocità, eseguita sotto gli occhi dei «somministratori» provvisti di cronometro. Gli insegnanti infatti, trasformati in operatori scientifici per conto dell’Invalsi, devono procurarsi il contasecondi e lo svolgimento della prova è organizzato alla maniera delle competizioni sportive, come si legge nel «Manuale per il somministratore», invariato da anni:
«Dare il via dicendo “Ora girate la pagina e cominciate” e far partire il cronometro, iniziando a contare i due minuti previsti per lo svolgimento della prova preliminare. È fondamentale in questa prova rispettare rigorosamente il tempo di somministrazione. Trascorsi i due minuti, dire agli allievi di posare subito la penna e chiudere i fascicoli. Passare a ritirarli, rassicurando coloro che non fossero riusciti a portare a termine la prova, ribadendo loro che ciò non deve essere motivo di preoccupazione alcuna [sottolineature nell’originale]»[1].
Non tutti gli insegnanti hanno aderito con fede positivista alle verità sostenute dall’Invalsi. Alcuni hanno contestato fin dall’inizio diversi aspetti di questa «testificazione» di massa degli studenti, mostrando contraddizioni e pericoli insiti in questa pratica. Uno degli oggetti di tali critiche è stata proprio la prova di lettura cronometrata.

Le critiche alla lettura cronometrata
Quali erano le critiche che si appuntavano su questa prova?
Il fattore velocità interferisce negativamente sull’apprendimento della lettura. Il bambino si emoziona e si angoscia, “fa la gara” invece di impegnarsi con tranquillità per portare a termine il suo compito. Solitamente, quelle poche volte in cui occorre avere elementi certi sulla rapidità e qualità della decodifica dei testi da parte di un bambino, l’insegnante li raccoglie senza mostrare il cronometro; il suo uso esplicito invece trasmette l’idea che la lettura sia un pratica frettolosa[2]. La rapidità di lettura non può essere vista come l’effetto di un training che miri alla rapidità, mentre dalla prova predisposta per le seconde emerge proprio questa errata immagine “muscolare” della capacità di lettura.
Tutte le esperienze suggeriscono percorsi di sviluppo e consolidamento delle capacità di lettura basate sul piacere, sulla calma, non certo su un training di tipo sportivo. Non a caso per tutto il percorso della scuola primaria rimane estremamente importante la pratica dell’ascolto di un testo letto dall’insegnante, in modo da mantenere alto il godimento della lettura in una fase dell’apprendimento in cui la capacità strumentale è ancora bassa. Quindi l’importanza attribuita alla performance cronometrica di una prova di lettura rischia di venire percepita dai bambini e dalle bambine, nonché dai docenti più influenzabili, come un’indicazione di teoria didattica, una buona pratica da replicare nelle lezioni, magari sostituendo gare di lettura veloce a momenti di lettura rilassata.
Inoltre occorre riflettere sul particolare del ritiro della prova che viene prescritto nel test una volta trascorsi i due minuti concessi ai bambini. Come si legge nel Manuale del somministratore, i docenti devono «dire agli allievi di posare subito la penna e chiudere i fascicoli [e] passare a ritirarli». Per comprendere quanto questo aspetto, apparentemente trascurabile, possa risultare invece drammatico per un bambino o una bambina di sette anni bisogna fare uno sforzo di decentramento cognitivo: immaginiamo, da adulti, di andare ad effettuare un concorso importante per il nostro futuro insieme ai nostri migliori amici e amiche, e proviamo a pensare che i tempi di cui ritenevamo di aver bisogno per mostrare la nostra preparazione siano fortemente contingentati e che quindi, prima del termine del nostro svolgimento, gli organizzatori ci intimino di «posare subito la penna e chiudere i fascicoli», indi passino a ritirarli «rassicurando [noi] che non [siamo] riusciti a portare a termine la prova». Ci sentiremmo rassicurati?[3]

Un ricordo
Negli ultimi anni anche a me è capitato più volte di esprimere critiche rispetto ai test. In particolare però mi è rimasto in mente uno specifico episodio, credo svoltosi nel 2012. In quell’anno ho avuto il piacere di esprimere le mie perplessità su questo e su altri aspetti dei test proprio al signor Roberto Ricci in persona, esperto di statistica e uno dei maggiori responsabili dell’Invalsi, in un incontro pubblico organizzato da una illuminata dirigente di una scuola modenese per mostrare ai genitori due punti di vista a confronto su questi test (il confronto di merito sui test rimane purtroppo una pratica democratica quasi inesistente nel mondo della scuola). Ricordo bene che allora, tra i numerosi elementi critici che sollevai in merito alle prove, si parlò anche di rapidità di lettura, con le argomentazione espresse in precedenza. Devo ammettere che non ebbi l’impressione di convincere il signor Ricci, anche se molti dei genitori in sala mostravano di apprezzare più le argomentazioni critiche della difesa del responsabile Invalsi. Tant’è.
Negli anni seguenti le prove di velocità per scolari di seconda elementare sono continuate ad ogni tornata di test. Sempre obbligatorie, sempre rivolte a tutte le bambine e i bambini italiani. A meno che non fossero malati nei giorni delle prove, o non avessero una maestra scioperante o obiettrice o genitori contrari, tutti i frequentanti e le frequentanti della scuola italiana che oggi hanno tra nove anni e diciotto anni hanno fatto quella prova, hanno gareggiato con il cronometro per riconoscere più parole possibili nei due minuti prescritti dal protocollo.
La svolta
Dallo scorso anno però c’è una novità. L’Invalsi dopo undici anni ha deciso di non fare più eseguire la prova di lettura a tutti. La gara di velocità per leggere parole verrà fatta cioè solo nelle classi campione, un ristretto numero scelto con criteri statistici.
Di primo acchito non c’è che da gioirne. Finalmente i bambini non subiranno più lo stress della lettura agonistica, potranno di nuovo cominciare a pensare che anche il grande papà Invalsi non li riterrà dei buoni a nulla se leggeranno lentamente, potranno tranquillamente rileggere le frasi che non capiscono, oppure godersi lentamente una lettura particolarmente appassionante. Finalmente una bella notizia per la scuola elementare italiana. Certo, la dimensione della velocità di esecuzione rimane costitutiva di tutte le prove Invalsi, il paradigma che lega la competenza alla rapidità rimane intatto; eppure, come non essere contenti che almeno le piccole e i piccoli non debbano più essere sottoposti a quella prova aberrante?
Ma, superata la tenue euforia, viene da chiedersi il motivo di questo cambiamento. Come mai, cioè, all’Invalsi non interessa più testare quella abilità, dopo undici anni di «somministrazione»?
Le risposte possibili sono due. La prima ipotesi è che tale prova fosse assolutamente indispensabile fino a due anni fa per poter studiare con oggettività scientifica le qualità di lettori dei bambini italiani, mentre dallo scorso anno non lo è più per una positiva evoluzione antropologica della capacità di lettura dell’infanzia nazionale, finalmente cresciuta a livelli tali da non dover essere più misurata in maniera totalitaria. In questo caso non potremmo che esserne felici; ma, se così fosse, perché l’Invalsi non ce lo avrebbe comunicato con corredo di statistiche e cori solenni?
La seconda ipotesi è un po’ meno trionfale. Forse i tecnici dell’Invalsi si sono accorti che… di quei dati non avevano bisogno... e quindi – semplicemente – hanno smesso di raccoglierli. A questa seconda ipotesi potremmo aggiungere un ingenuo corollario: non è che – dopo che per undici anni abbiamo sostenuto le ragioni della dannosità di questo esercizio per il curricolo di lettura dei bambini italiani – i tecnici dell’Invalsi, con tempismo quasi ministeriale, hanno capito e hanno preso le decisioni conseguenti? Vuoi vedere che il buon Ricci – rimuginate un po’ le argomentazioni di quel pomeriggio nella scuoletta modenese – si è alfine ricreduto?
La responsabilità degli «scienziati» e la nostra
Dall’Invalsi fino ad oggi non è stata espressa – che io sappia – nessuna motivazione del cambiamento. Non sappiamo quindi se si tratti della prima o della seconda ipotesi. Se però la prima ipotesi non fosse quella giusta, rimane il quesito più inquietante. Rimane cioè da chiedersi perché gli scienziati che decidono di obbligare per undici anni di seguito tutti i bambini e le bambine di seconda elementare d’Italia a fare una prova di lettura assurda, quando poi scoprono che si tratta di un’esperienza inutile o dannosa, cancellano la prova senza dire nulla, senza una riflessione pubblica né una minima ammissione dei propri errori o della propria insipienza. Chi glielo deve dire ora a tutti i docenti (e i dirigenti) che in questi anni hanno esaltato le prove Invalsi come esempi didattica razionale, che non era così? Chi lo deve dare il “contrordine”?
Quanto tempo manca al momento in cui quegli stessi scienziati, che ora rimangono furbescamente in silenzio, si accorgeranno che anche le altre prove Invalsi hanno prodotto danni alla scuola italiana più che vantaggi? E quando accadrà, rimarranno anche allora in silenzio, senza dare spiegazioni delle loro scelte? Chi ci rimborserà dei loro errori? Ma soprattutto noi insegnanti, che queste cose le sappiamo, dobbiamo davvero aspettare che ce lo dica l’Invalsi che queste prove fanno solo danni?

Note
1 Il testo è identico nelle versioni del 2012 e del 2018; Manuale per il somministratore. Prove Invalsi 2018. II e V primaria, <http://www.icgiovannipaolosecondo.gov.it/circolari_allegati/2017-2018/186-PRIMARIA_Manuale_somministratore_INVALSI_2018.pdf>, (04/2019).
2 Purtroppo negli ultimi anni prendono forza pratiche legate all’educazione alla lettura che sollecitano esplicitamente la rapidità: un esempio per tutti il peraltro bel programma per esercitare la lettura al computer Reading trainer 2 di «Ridinet», «servizio online per il trattamento dei dsa e dei disturbi del linguaggio», usato dai servizi di neuropsichiatria di Bologna, che al termine della lettura mostra contatore di errori e tempo, ma che offre all’operatore la possibilità di nascondere solamente il contatore di errori, «per non demotivare il bambino», mentre non prevede alternative rispetto al grosso cronometro che compare al termine della lettura ed evidenzia il risultato relativo alla velocità; Ridinet, Anastasis Società Cooperativa Sociale, <https://www.ridinet.it>, (04/2019).
3 Ovviamente queste riflessioni sono fatte avendo come riferimento il bambino o la bambina nella propria classe con le proprie maestre in una situazione tranquilla: il tutto quindi peggiora ulteriormente in situazione “in vitro” come quella che chiede di organizzare l’Invalsi, con osservatori esterni, in aule diverse, separando i banchi,…

Haaretz : guarda queste foto Netanyahu





La realtà nei territori occupati viene trasmessa ai cittadini di Israele quasi esclusivamente tramite il portavoce dell'esercito israeliano, ma le fotografie e  i video di scontri  tra esercito israeliano e palestinesi permettono di dimostrare l'orribile discrepanza tra le affermazioni dell'esercito al fine  di  plasmare la coscienza israeliana  e la realtà effettiva. La fonte della discrepanza non è necessariamente il risultato di bugie diffuse dall'esercito, ma piuttosto la scarsità del vocabolario usato per descrivere lo scontro in corso tra l'esercito e la popolazione civile sotto occupazione. L' obiettivo delle descrizioni del portavoce dell'esercito è di perpetuare l'apatia. Prendiamo, per esempio, questa dichiarazione del portavoce: "Giovedì scorso c'è stata una violenta perturbazione della pace nella zona del villaggio di Tuqu. Questa includeva massicci lanci di pietre contro le forze dell'esercito israeliano e i veicoli israeliani sulla strada, mettendo in pericolo la vita dei civili e delle forze [dell'esercito]. I soldati hanno risposto usando mezzi per disperdere le manifestazioni e, allo stesso tempo, hanno arrestato uno di quelli che disturbava la pace. Egli ha cercato di fuggire dopo il suo arresto.  I soldati si sono mossi per inseguirlo e hanno sparato nella parte inferiore del suo corpo. Le forze hanno fornito al palestinese cure mediche immediate. L'incidente sarà investigato. "Non una sola parola della descrizione del portavoce dell'esercito riesce ad attirare l'attenzione del lettore. Dal punto di vista degli israeliani è solo un'altra giornata di routine nei territori occupati. Ma le fotografie di questo incidente non possono aver risposte nell' apatia. In una delle immagini un soldato mascherato e armato è visto sopra il palestinese, seduto a terra, con gli occhi bendati, con le mani legate dietro la schiena. In un'altra foto il palestinese legato e bendato sta scappando da quattro soldati armati che lo circondano. Il palestinese ha 15 anni e mezzo. Il suo nome è Osama Hajajeh. È stato colpito all'inguine. Dopo che gli hanno sparato i soldati hanno cercato di trattenerlo sulla scena, ma in seguito a  uno scontro con un gruppo di palestinesi, i soldati hanno permesso loro di portare via il ragazzo ferito  . Vedendo le foto è chiaro che non c'era un vero motivo per sparargli. E' una persona di fronte a numerosi soldati. Le sue mani sono legate. E' bendato e completamente circondato da soldati armati. Le foto non documentano solo le azioni violente da parte dell'esercito. Sono i raggi X di 52 anni di occupazione, immagini di un'assenza cronica di iniziativa israeliana per risolvere il conflitto. Sono immagini che generano ingiustizia e crudeltà.

Il primo ministro Benjamin Netanyahu, appena eletto per il quinto mandato, deve dare un'occhiata a queste foto e capire che non è il legame con il presidente Trump, non sono  le sanzioni contro l'Iran e non è  la forza dello shekel ,ma sono queste foto a costituire il  vero lascito di un uomo che guida con orgoglio una politica di mantenimento dello status quo  . Una politica che alla fine potrebbe portare alla distruzione del progetto sionista.

sabato 27 aprile 2019

Legittima difesa: tutti meno sicuri con la nuova legge che uscirà dalla riforma - Giorgio Beretta




Qualche settimana fa sono stato intervistato da una tv americana, la CBS News. Spenti i microfoni, l’intervistatore mi ha chiesto se sapevo il numero di omicidi per furti e rapine in Italia nell’ultimo anno. Citandogli i dati ufficiali dell’Istat, gli ho risposto: «Sedici». Mi ha guardato sbalordito e mi ha chiesto di ripeterlo. «Yes, sixteen», gli ho replicato. «Ma è il numero di omicidi che si verificano in una settimana a Chicago!», mi ha risposto.
Legittima difesa al Senato: testo basato su menzogna
Il testo della riforma della legge sulla legittima difesa (articolo 52 del Codice penale) che oggi arriva in Senato per la discussione e l’approvazione finale, è stato presentato evidenziando l’aumento dei reati violenti per furti e rapine nelle abitazioni e negli esercizi commerciali a danno dei cittadini. Si tratta di una colossale menzogna.
Tutti i dati ufficiali – che i promotori della legge si guardano bene dal far conoscere – sono eloquenti. Innanzitutto, gli omicidi sono in forte calo rispetto agli anni Novanta (da 1.916 omicidi volontari nel 1991 a 368 nel 2017). In particolare, mostrano una consistente diminuzione gli omicidi compiuti dalla criminalità organizzata (da 342 a 55) e ancor più quelli commessi dalla criminalità comune (da 879 a 144).
furti nelle abitazioni sono tornati ai livelli di trent’anni fa, prima cioè del fenomeno dell’immigrazione. Le rapine negli esercizi commerciali nell’ultimo decennio sono in consistente calo (da 8.149 nel 2007 a 4.517 nel 2017) e anche quelle nelle abitazioni sono meno di dieci anni fa (erano 2.529 nel 2007, sono state 2.301 nel 2017).
https://www.osservatoriodiritti.it/2019/03/26/legittima-difesa-legge-riforma-art-52-cp/
Ma, soprattutto, sono più che dimezzati gli omicidi per furti o rapine: si passa da una media annuale di oltre 80 omicidi ad inizi anni Novanta a circa 30 nell’ultimo quinquennio. Nel 2017 gli omicidi per furti o rapine nelle case degli italiani sono stati 16: è il numero più basso da 30 anni ad oggi. Dov’è l’emergenza?
Riforma codice penale (art. 52) a propulsione mediatica
Non vi è, quindi, alcun indicatore dei reati che giustifichi la modifica della legge sulla legittima difesa. Questa modifica, infatti, non dipende dall’aumento dei crimini in Italia, bensì viene proposta per capitalizzare, per scopi propagandistici e politico-elettorali, la percezione di insicurezza che molti italiani, soprattutto i più anziani, provano a fronte del mutamento del tessuto sociale e dei fenomeni migratori.
Uno studio realizzato da Alberto Parmigiani per Lavoce.info nel settembre 2017 evidenzia come tra il 2005 e il 2015 il tempo medio occupato dalla cronaca nera nei telegiornali pubblici dei principali Paesi europei sia stato del 4,7% contro l’8% dei Tg Rai, nonostante in Italia non vi sia alcuna relazione diretta tra tempo di copertura della “cronaca nera” e numero di reati. Tre ore al giorno è il tempo medio che le sette principali reti televisive italiane – RaiMediaset e La7 – dedicano alla cronaca nera, spesso portando ed esasperando nell’agenda giornalistica nazionale fatti di cronaca locale.
Con nuova legge più reati e legittima difesa domiciliare
Come ha evidenziato l’Associazione italiana dei professori di diritto penale (Aipdp), questa modifica ci fa passare dal «diritto di legittima difesa» al «diritto di difesa» nelle abitazioni, negli esercizi commerciali e professionali. E, soprattutto, alla difesa con le armi.
Anche se Salvini insiste a propagandare l’idea che ci si difenderà «con il mattarello della nonna», la nuova norma – rendendo sempre legittima la difesa «con armi legittimamente detenute» – porterà molte persone ad armarsi.
Vi saranno due prevedibili conseguenze, entrambe molto pericolose. Innanzitutto avremo un aumento degli omicidi a seguito di furti e rapine, ma non è affatto detto che le vittime saranno solo o principalmente i rapinatori, perché anche costoro si doteranno di armi e le useranno per aggredire e difendersi.
Ma, soprattutto, vi sarà un consistente aumento di omicidi con armi da fuoco in ambito familiare e interpersonale che sono, già oggi, gli ambiti più pericolosi e in cui si verificano più di un terzo degli omicidi, cioè tanti quanti ne commettono le mafie o la criminalità comune. Nel 2017, a fronte di 16 omicidi per furti e rapine, sono stati più di 40 omicidi con armi detenute da legali detentori di armi.
Come avverte una ricerca del Censis, «con il cambio delle regole e un allentamento delle prescrizioni, ci dovremmo abituare ad avere tassi di omicidi volontari con l’utilizzo di armi da fuoco più alti e simili a quelli che si verificano oltre Oceano. Le vittime da arma da fuoco potrebbero salire in Italia fino a 2.700 ogni anno, contro le 150 attuali, per un totale di 2.550 morti in più». Nessuna maggior sicurezza, quindi. Anzi, l’esatto contrario.
Legittima difesa in Italia: gli interessi in gioco
Ma allora perché questa riforma? Chi ha interesse a promuovere le politiche che incentivano la diffusione delle armi? Innanzitutto i produttori italiani di armi. Da diversi anni, infatti, il mercato delle armi da caccia in Italia è in forte crisi. Va quindi creato un nuovo mercato, quello appunto delle armi da difesa personale (pistole, revolver, fucili a pompa e anche fucili semiautomatici, quelli che vengono usati per fare stragi in America). E per incentivare questo mercato occorre far leva sulla paura e sulla necessità di difendersi.
Proprio per questo le aziende produttrici di armi hanno dato il loro sostegno ad associazioni di cosiddetti “appassionati” il cui obiettivo dichiarato in pubblico è quello di promuovere “i diritti” dei detentori legali di armi, ma la cui reale intenzione è quella di introdurre in Italia un vero e proprio “diritto alle armi”, come negli Stati Uniti.
Il leader della Lega, Matteo Salvini, si è fatto promotore delle istanze di queste associazioni firmando l’anno scorso a HIT Show, la fiera delle armi di Vicenza, un “Patto d’onore”: lo ha fatto perché conosce bene la capacità di queste associazioni e dei produttori di armi di convogliare verso di lui il voto di quella parte dell’elettorato che invoca a gran voce norme meno restrittive sulle armi e, soprattutto, di poterle usare con maggior facilità.
Lo hanno capito anche i giornalisti della tv americana CBS News, di cui ho parlato più sopra. «Più del 50% delle armi comuni prodotte in Italia viene esportato negli Stati Uniti. È venuto il momento che l’Italia, in ritorno, cominci ad importare qualcosa: parts of America’s gun culture», parti della cultura americana delle armi.

Sigonella contro il mondo - Antonio Mazzeo



La base siciliana è stata trasformata in uno dei maggiori centri del pianeta per il comando e il controllo dei velivoli senza pilota. A partire dai droni spia a quelli killer, cosa rappresenta oggi Sigonella?
Trump e Putin fanno sul serio? Siamo davvero tornati agli anni della Guerra fredda Usa-Urss? Difficile rispondere, ma il “gioco” tra le due parti ha avuto l’effetto di rilanciare la corsa agli armamenti, primi fra tutti quelli nucleari, cancellando con un colpo di spugna i faticosi trattati contro la presenza dei missili atomici nel cuore dell’Europa. Di certo è che non c’è giorno ormai che non si assista alle provocazioni dei velivoli spia statunitensi alle frontiere occidentali della Russia, in Crimea e nel Mar Nero o alle segretissime sortite dei droni sui cieli dell’Ucraina e del Donbass.
L’Italia a parole si appella alla distensione e di certo non intende incrinare le relazioni con le transnazionali moscovite del gas e del petrolio; tuttavia interpreta un ruolo chiave nel supporto delle pericolosissime operazioni di guerra del fraterno alleato Usa. Lo fa offrendo una piattaforma di lancio ai nuovi grandi pattugliatori dell’US Navy P-8A “Poseidon” o ai velivoli senza pilota “Global Hawk” che con le loro sofisticate apparecchiature monitorizzano ogni millimetro quadrato di casa Russia. Per il Pentagono la “piattaforma” ha un nome in codice: The Hub of the Med, il fulcro del Mediterraneo, cioè la grande stazione aeronavale di Sigonella che sorge a due passi dalla città di Catania, dove secondo gli accordi Roma-Washington, un’ampia porzione è riservata all’uso esclusivo delle forze armate USA.
Da tempi remoti Sigonella ospita permanentemente una forza aerea per tracciare il movimento navale e dei sottomarini russi nel Mediterraneo e delle unità aeree e terrestri dislocate in Siria. In queste settimane, nell’Hub of the Med il via vai di droni, caccia, elicotteri e “Poseidon” è intensissimo. Nelle acque del basso Tirreno, dello Ionio e del Mediterraneo centrale è in corso una vasta esercitazione NATO dove si simula la caccia ai sottomarini nucleari “nemici” (Dynamic Manta 2019). Giochi di guerra che trasformano la Sicilia in un grande poligono di morte, confermando quanto sostenuto da tempo dai pacifisti dell’Isola: Sigonella è un vero e proprio cancro in metastasi che diffonde ovunque basi, presidi e militarizzazioni. Le esercitazioni USA e NATO dalla stazione aeronavale si propagano infatti alle sue dependance siciliane: il centro operativo USA di Pachino; Niscemi (impianti di telecomunicazioni satellitare e terminale MUOS); Augusta(porto di rifornimento di armi e gasolio per le unità da guerra e i sottomarini nucleari); gli scali aerei di Catania-Fontanarossa, Trapani-Birgi, Pantelleria e Lampedusa; i poligoni di Piazza Armerina e Punta Bianca (Agrigento), ecc..
Sigonella è tutto questo ed è altro. La base ospita oggi ben 34 comandi strategici con oltre 5.000 militari statunitensi; per importanza è il “secondo più grande comando militare marittimo al mondo dopo quello del Bahrain”, come spiega il Pentagono. L’area geografica d’intervento è imponente: dall’Oceano Atlantico al Mediterraneo, dal continente africano all’Est Europa, al Medio oriente e al Sud est-asiatico.
Dal sanguinoso conflitto in Vietnam non c’è stato scenario bellico in cui l’hub di Sigonella non ha esercitato un ruolo centrale: contro la Libia di Gheddafi negli anni ’80; in Libano nell’82; la prima e la seconda guerra del Golfo; i bombardamenti alleati in Kosovo e in Serbia nel 1999 e quelli in Afghanistan, Iraq e Siria nel XXI secolo; le campagne USA nelle regioni sub-sahariane e in Corno d’Africa; la liquidazione finale del regime libico del 2011 e gli odierni ripetuti raid in Cirenaica e Tripolitania con l’utilizzo dei famigerati droni-killer (nel solo periodo compreso tra l’agosto e il dicembre 2016, nel corso dell’offensiva contro le milizie filo-ISIS presenti nella città di Sirte, gli USA hanno effettuato ben 495 attacchi missilistici, il 60% die quali grazie ai droni Reaper – falciatrici decollati in buna parte dalla Sicilia).
Negli ultimi anni la base siciliana è stata trasformata in uno dei maggiori centri del pianeta per il comando e il controllo dei velivoli senza pilota che hanno inesorabilmente modificato il senso stesso della guerra, automatizzandola e disumanizzandola sempre più. A Sigonella operano i droni spia e killer della marina e dell’aeronautica USA e da un anno circa anche l’UAS SATCOM Relay Pads and Facility per le telecomunicazioni via satellite e le operazioni di tutti i velivoli senza pilota della CIA e del Pentagono in ogni angolo della Terra. La facility consente la trasmissione dei dati necessari ai piani di volo e di attacco dei nuovi sistemi di guerra, operando come “stazione gemella” del sito tedesco di Ramstein e del grande scalo aereo di Creech (Nevada). Entro l’estate 2019 a Sigonella diverrà operativo pure il sofisticato sistema di comando, controllo ed intelligence AGS (Alliance Ground Surveillance) della NATO, il programma più costoso della storia dell’Alleanza atlantica. L’AGS si articolerà in stazioni di terra fisse, mobili e trasportabili per la pianificazione e il supporto operativo alle missioni, più una componente aerea con cinque Global Hawk di ultima generazione.
Determinante pure il ruolo assunto nell’ambito dei programmi di supremazia nucleare degli Stati Uniti d’America. Segretamente, senza che mai il governo italiano abbia ritenuto doveroso informare il Parlamento e l’opinione pubblica, nel 2018 è entrato in funzione a Sigonella la Joint Tactical Ground Station (JTAGS), la stazione di ricezione e trasmissione satellitare del sistema di “pronto allarme” per l’identificazione dei lanci di missili balistici da teatro con testate nucleari, chimiche, biologiche o convenzionali. Una specie di scudo protettivo tutt’altro che difensivo: grazie al controllo “preventivo” di ogni eventuale operazione missilistica “nemica” diventa praticabile scatenare il primo colpo nucleare evitando o limitando la ritorsione avversaria e dunque i pericoli della cosiddetta “Mutua distruzione assicurata” che sino ad oggi ha impedito l’olocausto atomico mondiale. Inoltre dal maggio 2001 nella base siciliana è stata trasferita una delle quindici stazioni terrestri del Global HF System, il sistema di comunicazioni in alta frequenza creato dalla US Air Force per integrare la rete del Comando aereo strategico e assicurare il controllo su tutti i velivoli e le navi da guerra. Uno degli aspetti più rilevanti del sistema GHF è quello relativo alla trasmissione degli ordini militari che hanno priorità assoluta, primi fra tutti i messaggi SkyKing che includono i codici di attacco nucleare.
Anche l’Unione europea e le agenzie per il controllo delle frontiere hanno puntato su Sigonella per potenziare le proprie attività di controllo e contrasto armato delle migrazioni nel Mediterraneo. Nella base siciliana sono stati dislocati infatti le unità e i velivoli con e senza pilota impiegati nell’ambito della forza aeronavale EunavforMed (Operazione Sophia); dal settembre 2013, lo scalo siciliano fornisce inoltre il supporto tecnico-operativo ai diversi assetti di Frontex provenienti da alcuni paesi Ue (Operazione Triton). Anche l’Aeronautica italiana ha contribuito attivamente nella trasformazione di Sigonella in base strategica della nuova guerra totale ai migranti e alle migrazioni. Qui è stato costituito in particolare il 61° Gruppo Volo Ami, dotato di droni MQ-1C “Predator”, allo scopo di “consolidare e rafforzare il dispositivo di sicurezza nazionale per l’attività di sorveglianza nell’area del Mediterraneo”. Da un anno anche il 41° Stormo Antisom di Sigonella ha un suo nuovo sistema d’arma ultratecnologico: il  pattugliatore marittimo ognitempo P-72A che gli strateghi sperano di utilizzare presto a supporto delle proiezioni a tutto campo delle forze armate italiane. Dulcis in fundo, nella stazione siciliana è stato istituito lo Squadrone Carabinieri Eliportato Cacciatori Sicilia con un ampio ventaglio di funzioni: “l’antiterrorismo, la ricerca dei grandi latitanti di Cosa Nostra, la prevenzione e la repressione dei reati, il concorso nel soccorso in caso di pubbliche calamità, ecc.”. Interventi che riproducono quella nuova condizione di hot peace, cioè il “trasferimento di competenze dal settore civile alle istituzioni militari” ampiamente descritto dalla ricercatrice tedesca Jacqueline Andres Carlo in un suo recente saggio su The Hub of The Med. Una letterua della geografia militare statunitense in Sicilia (editore Sicilia Punto L). “Operazioni diverse dalla guerra, ma che nei fatti sono vere e proprie nuove forme e azioni di guerra sotto i comandi delle forze armate italiane, Ue, USA e NATO”, spiega Andres Carlo. “Così come l’avanzamento della guerra all’immigrazione irregolare fino alle misure prese nei confronti del terrorismo marittimo ha avuto come ulteriore conseguenza l’assoggettamento dell’intero Mediterraneo alle politiche di securizzazione e sorveglianza quasi assoluta degli spazi pubblici…”.
Sigonella si erge ad emblema delle moderne dottrine sui conflitti: globali, totalizzanti, onnicomprensivi, dove il “nemico” è ovunque e può essere chiunque. Dove gli spazi di espressione, libertà e agibilità politica degli stessi cittadini si riducono a zero e il pianeta accelera la sua folle corsa verso il baratro e l’annientamento di ogni forma di vita.