sabato 31 marzo 2018

Ernest e Celestine - Daniel Pennac


una storia sull'amicizia impossibile, per tutti, tranne che per loro, di Ernest e Celestine.
è un racconto bellissimo, Daniel Pennac non delude mai.



QUI il film



…Una delicata storia sull’amicizia tra esseri che in apparenza non hanno niente in comune affrontata con la deliziosa ironia di Daniel Pennac, personaggi che sfidano i pregiudizi e un finale commovente sono l’ingredienti di questo romanzo per bambini, godibile però anche da lettori più grandi. Un tipo di amicizia di cui troviamo vibrazioni anche nelle pagine che Pennac dedica a Gabrielle Vincent, dal cui tratto sono nati Ernest e Celestine, capolavori tra le illustrazioni per bambini, semplici e poetici disegni in cui c’è l’attenzione al dettaglio dal più piccolo gesto all’espressività, al movimento sospeso. Pennac, per fare omaggio a questa amica mai incontrata fisicamente, “un’amica d’inchiostro, acquarello e carta” partendo dai personaggi già tratteggiati dalla disegnatrice, racconta come è nata l’amicizia tra Ernest e Celestine. Un orso del mondo di sopra, che ama la musica e una topolina del mondo di sotto, che non vuol diventare dentista, ma pittrice; realtà inconciliabili per la logica del mondo, così come lo è realizzare i propri sogni, quando è più pratico e remunerativo far altro. Il linguaggio è semplice e comprensibile per ogni età, lo stile è poetico e originale, il ritmo narrativo ha la tipica commistione dell’autore con intermezzi nei quali i personaggi e il narratore dialogano tra loro e interpellano il lettore. Personaggi fragili e coraggiosi che trasmettono tenerezza, in cui è facile immedesimarsi. Volersi bene è possibile anche nelle diversità e nelle difficoltà, anzi volersi bene fa bene, semplifica e arricchisce la vita. Dagli albi illustrati di Gabrielle Vincent è stato poi tratto il film Ernest & Celestine, diretto da Stéphane Aubier, Vincent Patar e Benjamin Renner e con la sceneggiatura dello stesso Pennac. Selezionato al Festival di Cannes 2012, il film ha vinto il premio César come Miglior lungometraggio animato.

non ho ancora letto questo libro ma posso dargli sicuramente il massimo voto visto che mio figlio, 7 anni, ha preso una nota a scuola perché non smetteva di leggerlo anche quando avrebbe dovuto fare altro. "E' bellissimo" ha detto, "e non posso fare a meno di leggerlo".

…Daniel Pennac onora l’amicizia epistolare con Gabrielle Vincent (disegnatrice e ‘mamma‘ della storia di Ernest e Celestine) con questo libro, che definirlo per ragazzi o bambini e veramente riduttivo. Perché questa storia va letta un pò da tutti, grandi e piccini. Perché la diversità, quanto dia l’amicizia e quanto sia complessa allo stesso tempo,  come riuscire a realizzarsi in una società rigida e chiusa, la solitudine, la malattia, il pregiudizio, il sovvertimento delle regole sono temi più che mai attuali. La storia è deliziosa. E il Lettore (sì, Pennac magistralmente coinvolge anche noi…) si sentirà ‘rapito‘ da questo breve ma intensa storia di vero amore e amicizia. Uno di quei libri che una volta finito di leggere ti lascia quell’emozione forte, come se qualcuno ti avesse coccolato. Come se qualcuno ti avesse dato ‘una medicina per la tristezza del cuore‘. Una volta letto non potrete più fare a meno di loro. Del grande orso buono e dolce, Ernest. E della topolina, creativa, curiosa e superattiva Celestine

Come nascondere un massacro?


Media internazionali e nazionali hanno raccontato in modo vergognoso, parziale e profondamente scorretto quanto accaduto ieri a Gaza. Ma i fatti e le immagini parlano più di qualunque menzogna
La popolazione palestinese è stata abituata negli anni alla disinformazione per quanto riguarda la narrazione dominante rispetto alle proprie vicende.
Quanto accaduto ieri, nel primo giorno della Great Return March ha ampiamente superato il limite della vergogna e della decenza e non solo in Italia.
I fatti sono abbastanza espliciti ed inequivocabili, quasi 20.000 persone si sono avvicinate alla barriera tra la Striscia e Israele a partire da sei accampamenti lungo il perimetro, invadendo quella buffer zone, o zona cuscinetto che percorre tutta la frontiera, permanentemente interdetta alla coltivazione e all’accesso. A parte un singolo isolato caso di due militanti della Jihad islamica che erano armati (e sono stati subito uccisi dall’esercito israeliano) tutti i manifestanti hanno utilizzato esclusivamente modalità di protesta popolari e nonviolente,avvicinandosi al muro di separazione disarmati, a volto scoperto, assieme a bambini e donne.
La repressione si è trasformata in un vero e proprio massacro, si parla ad oggi di 16 morti e più di mille feriti. Hamas, pure ovviamente presente durante la marcia, non ha avuto un ruolo centrale: questa è stata convocata da una larga coalizione che include anche tutti i pezzi laici e di sinistra della società civile palestinese. Non a caso, parti della sinistra israeliana si sono organizzate nei giorni scorsi per manifestare il proprio supporto dall’altra parte del muro. Nessun soldato israeliano è stato ferito nella giornata di ieri.
Vediamo cosa riportano i giornali.  Repubblica parla di «violenti scontri» «violentissima battaglia». Perché un massacro di persone disarmate diventa improvvisamente una battaglia? Una battaglia linguisticamente parlando è un confronto tra due entità armate.  La Stampa titola «Hamas sposta le masse al confine e punta al ritorno dei profughi del 1948» mentre l’articolo è ancora peggiore: «La strategia adottata da Hamas ha messo in difficoltà Israele e costretto i suoi militari nella difficile posizione di chi deve sparare sui civili. L’esercito se lo aspettava, perché i preparativi andavano avanti da giorni, ma non era facile trovare contromisure».  Del resto, cosa altro si può fare davanti a migliaia di persone disarmate che vanno verso un confine invalicabile, se non sparare?
Il Corriere (che oggi ha già spostato molto giù l’articolo) riporta «La “Marcia del ritorno” finisce in un bagno di sangue: l’esercito ebraico risponde con caccia e blindati all’attacco dei manifestanti: bombardati 3 siti di Hamas». A quale attacco si risponde con caccia e blindati? A quello di migliaia di persone disarmate?
Il Messaggero si unisce alla definizione «scontri al confine» e riporta un articolo in cui sono virgolettati solo comunicati dell’esercito israeliano e di media israeliani, i palestinesi non meritano neanche il microfono, strana deontologia professionale.
Anche a livello internazionale la giornata è stata riportata in modo non meno grave, come Mondoweiss sottolinea, riportando la lettura estremamente parziale e ingiusta dello stesso New York Times.
Ieri la popolazione di Gaza ha dimostrato coraggio e capacità di mobilitazione impensabili dopo anni di prigionia dentro la Striscia dove le condizioni di vita sono impossibili, come ha raccontato recentemente Dinamo.
Per ricordare chi ieri è stato ucciso, per sostenere chi ha creduto nella Great Return March e continuerà a crederci nei prossimi giorni, pubblichiamo questa photogallery tratta dal portale indipendente +972mag.com

eroici soldati che sparano a persone disarmate



un commento al video: "Those brave heroic IDF soldiers... Satan is jealous for not being as evil as Israel."




comunicato della Rete Romana di Solidarietà con il popolo palestinese

STRAGE A GAZA
Nel momento in cui mandiamo in stampa questo comunicato, almeno 16 sono i palestinesi uccisi a Gaza, e migliaia i feriti, alcuni gravemente, come ha dichiarato il Ministro della sanità palestinese, che ha lanciato un appello alla popolazione per donazioni di sangue.
La situazione è tanto più grave in quanto gli ospedali di Gaza sono allo stremo per mancanza di presidi sanitari e medicochirurgici, farmaci, energia e rifornimenti idrici a causa del blocco di Israele che dura da 11 anni.
Ieri era il 42 esimo anniversario della “Giornata della Terra”, che commemora i palestinesi uccisi dalla polizia israeliana in Galilea, mentre protestavano contro la confisca della propria terra.
In questa occasione diverse organizzazioni politiche palestinesi hanno promosso la “Marcia del ritorno”, iniziativa che si dovrebbe concludere il 15 maggio in occasione dell’anniversario della Nakba, la “catastrofe” allorché oltre 800.000 palestinesi 70 anni fa, nel 1948, furono espulsi dalle loro case o trucidati.
Da giovedì 29 marzo decine di migliaia di palestinesi si sono accampati a 700 metri dal confine, e ieri si sono messi in marcia verso la fascia, che – per una larghezza di 300 metri dal muro che separa Gaza da Israele – non può essere calpestata da palestinesi, nemmeno per coltivare le proprie terre, senza correre il rischio di essere colpiti da armi da fuoco. E infatti, ieri mattina il primo palestinese ad essere ucciso è stato un coltivatore di Gaza.
Questa zona è stata dichiarata “area militare chiusa”, e qui si sono schierate le forze israeliane con oltre 100 tiratori scelti, squadre speciali e carrarmati, dichiarando che chiunque avesse osato penetrare nell’area sarebbe stato colpito con munizioni vive.
E questo è successo: non appena migliaia di palestinesi, tra cui moltissime donne, in numero crescente hanno iniziato a manifestare e camminare pacificamente, sono stati accolti da una pioggia di gas lacrimogeni, pallottole di acciaio ricoperte di gomma e munizioni vere.
Non vi sono stati “scontri” e azioni violente da parte dei palestinesi, come riferiscono i media nostrani che si basano esclusivamente sui comunicati dell’esercito israeliano.
E’ stata l’intera popolazione della Striscia ad andare e venire verso i confini. Da nord a sud della striscia sono arrivati sin dalle prime ore del giorno donne, uomini, bambini, anziani, disabili, a piedi, in moto, in macchina, con il ciuco o il cavallo. Con la sola bandiera palestinese.
Per gridare al mondo che hanno voglia di vivere e di andare sulla loro terra anche oltre il confine, che non vogliono e non possono continuare a stare chiusi in una prigione a cielo aperto.
Volti sorridenti, fiori in mano anche se spari e gas cadevano su di loro ferendo e uccidendo.
Nessuna battaglia campale come purtroppo i nostri media stanno descrivendo, nessun provocatore ma una grande forza popolare per la libertà.
La Comunità internazionale non può continuare a voltarsi dall’altra parte. Vi è una sola risposta che deve essere data perché cessi lo strazio odierno e di ben 11 anni di embargo: che Israele tolga il blocco totale che lentamente sta uccidendo la popolazione di Gaza e che l’ONU intervenga immediatamente per proteggere la popolazione civile.
31 marzo 2018 – Rete Romana di Solidarietà con il popolo palestinese –

venerdì 30 marzo 2018

il nazismo invisibile, la crisi della democrazia (e Soros) – bortocal



1.      Erdogan e altre democrature avanzano
2.      in Europa tornano i reati di opinione punibili con decenni di carcere
3.      i feudo-tecnocrati colonizzano le menti
4.   e il problema democratico sarebbero le presidenze delle Camere in Italia?
. . .
1.  Erdogan e altre democrature avanzano.
dopo avere attaccato e invaso la Siria, Erdogan attacca e invade l’Iraq.
dopo avere provato a destabilizzare il Medio oriente per interposta ISIS, ora l’esaltato mitomane di Ankara è arrivato alla guerra in prima persona, avendo perso per strada i propri esecutori mascherati.
è Erdogan il nuovo Hitler, col quale le cosiddette democrazie occidentali provano a fare accordi, nell’illusione di controllarlo, come fecero ottant’anni fa col primo.
ma c’è una differenza di fondo che fa rimpiangere l’Hitler tedesco.
questo si espandeva ed attaccava gli stati vicini in nome della presunta difesa del popolo tedesco e delle sue minoranze.
Erdogan invece trascina in guerra la Turchia in odio ad un popolo, quello turco, che non sopporta abbia riconosciuti elementari diritti fuori dalla Turchia.
ma no, che dico: i curdi rappresentano per l’Hitler ottomano quel che gli ebrei erano per l’Hitler tedesco: i nemici contro cui attizzare l’odio, la propria minoranza interna da perseguitare, il cemento del consenso nazionalista che si e` costruito.
ma l’indifferenza con la quale accettiamo questa aggressione permanente contro un popolo vicino, oltre che presente al suo interno, e la guerra di aggressione ad altri stati dimostra da sola quanto il nazismo interiore si e` impadronito dei nostri cuori, sotto forma di cinico disprezzo dei diritti umani altrui.
. . .
.2. in Europa tornano i reati di opinione punibili con decenni di carcere
c’è bisogno di un’altra prova?
noi accettiamo senza reagire che nel cuore stesso dell’Unione Europea siano perseguitate come crimine delle semplici dichiarazioni verbali.
ora, ho sempre ritenuto una solenne cazzata la dichiarazione di indipendenza della Catalogna, fatta a nome di una semplice maggioranza relativa della popolazione.
ma di qui ad arrestare, processare e incarcerare per decenni chi ha semplicemente espresso delle opinioni stupide e fatto delle dichiarazioni inconsistenti, dimostra da sola la fine della democrazia in Europa.
se puo` esistere un mandato di cattura europeo per delitti di questo genere, allora significa che la costruzione stessa dell’Unione Europea è malata alle radici.
se anche in Europa dobbiamo avere una democratura al posto della democrazia perche` tutto il mondo vuole le democrature, allora possiamo anche venderci a russi e cinesi.
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.3. i feudo-tecnocrati colonizzano le menti
ha detto Soros, in un discorso al World Economic Forum di Davos a gennaio, che risulta abbastanza profetico, che i giganti dei social media rappresentano una minaccia per la democrazia, e non mi pare abbia torto.
Le società di social media sfruttano l’ambiente sociale, ingannano i loro utenti manipolando la loro attenzione e indirizzandola verso i propri scopi commerciali e “deliberatamente ingegnano la dipendenza dai servizi che forniscono, cosa che può essere molto dannosa, in particolare per gli adolescenti.
E questo è particolarmente nefasto perché le società dei social media influenzano il modo in cui le persone pensano e si comportano senza che nemmeno loro ne siano consapevoli.
Ciò ha conseguenze negative di vasta portata sul funzionamento della democrazia, in particolare sull’integrità delle elezioni.
Il potere di plasmare l’attenzione delle persone è sempre più concentrato nelle mani di poche aziende. Ci vuole uno sforzo reale per affermare e difendere ciò che John Stuart Mill ha definito “la libertà della mente”. C’è una possibilità che una volta perse, le persone che crescono nell’era digitale avranno difficoltà a riconquistarla. Ciò potrebbe avere conseguenze politiche di vasta portata.
Prospettiva ancora più allarmante è che aziende internet come Facebook e Google abbinino i loro sistemi di sorveglianza aziendale con la sorveglianza dello stato – una tendenza che sta già emergendo in luoghi come le Filippine.
Ciò potrebbe comportare una rete di controllo totalitario che nemmeno Aldous Huxley e George Orwell avrebbero potuto immaginare.
Soros invoca forme di controllo e regolamentazione: ma saranno ancora possibili, se si pensa che perfino il controllo della moneta è sfuggito agli stati?
certo, ora o mai piu`.
ma questo non è nazismo che avanza?
e pensare che sia proprio Soros a lanciare l’allarme della democrazia non basta da solo a dimostrare che la democrazia è morta?
qualcosa non torna, qualcosa non torna…
. . .
.4. e il problema democratico sarebbero le presidenze delle Camere in Italia?
questi sono i veri pericoli che corre la democrazia.
la democrazia non viene messa in pericolo se in Italia in elezioni alle quali la maggioranza del popolo ha deciso di partecipare, nonostante il loro carattere truffaldino, emergono due forze dotate del consenso maggioritario dei votanti e queste si attribuiscono le presidenze delle due Camere.
dove erano i grandi difensori della democrazia che non trovavano invece nulla di strano nella situazione precedente? quando queste due cariche andavano entrambe, e assieme al governo, ad un partito che aveva preso il 25% dei voti…
per favore, tacete: per sette anni avete governato alle spalle del popolo, con i trucchi piu` vari.
il consenso a questa gente sgradevole lo avete costruito voi, giorno per giorno.
ora governi chi ha il consenso: non smetteremo di criticarli quando sbagliano, di riconoscere dove ci pare che abbiano ragione, e soprattutto di provare a costruire una alternativa basata sul consenso vero e sui bisogni di massa.
ma chi non lo vuole fare si rassegni a sparire; ma non contesti a chi non la pensa come lui di governare in nime di qualche presunta superiorita`.
anche questo è crisi della democrazia: sono anche queste critiche che dimostrano che il senso vero della democrazia e` morto e che qualcuno pensa di essere piu` democratico degli altri proprio perché non lo è affatto.

Anna, Samuel e gli altri: quei giovani europei morti in Siria per difendere Afrin e la libertà dei curdi – Paolo Gallori




Per circa un anno, tra l'estate del 2014 e quella del 2015, i curdi hanno davvero coltivato il sogno di poter bussare alla porta della storia e finalmente vedersi aprire. Quando le milizie curdo-siriane dell'Ypg respingevano l'Isis a Kobane e i curdi di Turchia entravano in Parlamento per la prima volta. Quattro anni dopo, il tempo degli eroi per i curdi è finito e tutto è cambiato da Kobane ad Afrin, a cominciare dal 'nemico': allora era l'Isis, oggi è l'esercito di Erdogan. La Ue si è tirata fuori perché la Turchia garantisce (a pagamento) il blocco ad Oriente delle "invasioni" dei profughi siriani e dei migranti verso l'Europa. Gli Usa di Trump perché le sue basi in Turchia sono troppo importanti per contestare l'alleato Nato.
In questo isolamento si decidono anche i destini di quei giovani europei che per motivazioni diverse sono rimasti in Siria al fianco dei curdi. Ci sono i militanti dell'estrema sinistra, i rivoluzionari, gli anarchici. Chi è stato conquistato dal confederalismo democratico teorizzato da Ocalan, un progetto di società che guarda alle comunità, alle municipalità più che allo Stato, dove tutto si decide nelle assemblee. I "semplici" innamorati del desiderio altrui di libertà. Insieme, costituiscono l'International Freedom Brigade, il braccio "internazionale" della resistenza curdo-siriana. Anche per loro, il tempo degli eroi è finito. C'è chi è riuscito a tornare a casa. Queste, invece, sono le storie di quelli che non ce l'hanno fatta…

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Lo Stato fa la guerra ai migranti, ma siamo tutti stranieri residenti – Lorenzo Guadagnucci



La cosiddetta emergenza migratoria sta facendo colare a picco le democrazie europee, che stanno rinnegando i propri valori fondamentali, ossia la dottrina dei diritti umani e il principio di uguaglianza, per l’obiettivo dichiarato di proteggere i propri cittadini, tutto sommato benestanti, da una presunta minaccia – fisica, economica, di valori – in arrivo dall’esterno.
Il potenziale immigrato è d il nuovo barbaro e viene sistematicamente destituito della propria dignità di persona. Si agita lo spauracchio della sicurezza esasperando diffidenze istintive e poco ragionate col progetto di istituire il “governo della paura”:  è questo il nuovo carburante dell’azione politica, miserabile sostituto delle correnti culturali e ideologiche di un tempo. E’ un progetto rovinoso e contraddittorio, se pensiamo che un’Europa senza gli immigrati presenti e futuri andrebbe incontro a un inesorabile tracollo demografico e quindi economico, oltre che culturale.
E’ un ragionamento, quello appena esposto, escluso dal ragionamento politico corrente: viene di solito bollato come ideologico, oppure buonista, o magari ingenuo; la tesi corrente è che siamo di fronte a un’invasione epocale, che occorre “governare” i flussi e che l’obiettivo dev’essere la limitazione degli ingressi e il rafforzamento delle frontiere, costi quel che costi (c’è anche ci si produce in acrobatici cortocircuiti sostenendo che proprio il blocco delle migrazioni salvaguarda le democrazie, che altrimenti finirebbero sgretolate dal rancore sociale e dall’odio razziale…)
Donatella Di Cesare, in un bellissimo intervento su Radio 3, ha sviluppato su questo tema una visione filosofico-politica molto originale, nella quale mette a fuoco le origini dell’attuale guerra che lo stato nazionale sta conducendo contro i migranti, in nome di un’idea di cittadinanza che postula un sorta di diritto di proprietà sul territorio spettante ai nativi. Per difendere questa equivoca idea di cittadinanza lo stato è disposto a sacrificare i diritti umani, abiurando così i propri valori fondamentali.
Eppure le migrazioni non sono certo una novità nella storia dell’umanità e della stessa società occidentale: il punto è allora tutto politico. Donatella Di Cesare afferma che la globalizzazione ha portato in primo piano il cuore di un diverso concetto di cittadinanza, nel quale non esiste una relazione di proprietà fra nativi e territorio: siamo invece tutti “stranieri residenti”, a vario titolo ospiti del luogo nel quale si vive e si opera, senza alcun diritto proprietario. Questa visione è oggi negata da chi ha interesse a mantenere lo status quo, costi quel che costi, anche una guerra ai migranti e ai diritti umani, una guerra che sta mettendo a repentaglio la stessa possibilità di una convivenza democratica su basi di uguaglianza.
Perciò Di Cesare conclude sostenendo che il diritto di migrare è la prospettiva dei nostri tempi e del nostro futuro, in una battaglia culturale e politica simile – dice – a quella combattuta contro la schiavitù.

giovedì 29 marzo 2018

Le parole della Storia - Mu'ammar Gheddafi

La sentenza che non piaceva alle banche - Marco Bersani



Una sentenza della Commissione Europea permette a singoli cittadini, imprese ed enti pubblici di chiudere tutti i contratti, stipulati tra il 2005 e il 2008, di mutuo, prestiti e derivati, che avevano, nel contratto, un tasso variabile legato all’Euribor, riconoscendo agli stessi il diritto al risarcimento. La sentenza è il “caso AT 39914” del 3 dicembre 2013, pubblicata dalla Commissione Europea solo a fine 2016 (!), ma ormai interamente operativa e attivabile da qualsiasi soggetto coinvolto.
La sentenza si basa su due elementi:
a) il primo è relativo all’indeterminatezza del tasso quando il parametro di riferimento preso è l’Euribor (un tasso inteso a riflettere il costo dei prestiti interbancari in euro); in questo caso, rileva la sentenza, i parametri atti ad individuare il tasso variabile sono scarsamente intelligibili, poiché nella clausola è prevista una serie di rinvii concatenati a valori anche di valute estere in astratto recuperabili, ma tali da non rendere immediatamente reperibili e via via verificabili i dati.
L’incertezza della clausola di determinazione degli interessi in un contratto di mutuo determina la nullità della clausola stessa (art. 117 T.U.B.);
b) il secondo è relativo all’intesa restrittiva della concorrenza, operata da un cartello tra le principali banche europee, con lo scopo di manipolare, a proprio vantaggio, il corso dell’Euribor; vicenda che si è chiusa con la condanna di 4 tra le più note banche europee (Barclays, Deutsche Bank, Royal Bank of Scotland e Société Générale) al pagamento di una multa pari a 1,7 mld ed il conseguente diritto tangibile al risarcimento dell’utente finale per indeterminatezza e manipolazione del tasso.
La sentenza riguarda il 100% dei contratti di mutuo ipotecario e fondiario a tasso variabile, ma riguarda anche il 100% dei contratti derivati sul tasso (interest rate swap= IRS), in quanto atti il cui tasso di riferimento è nel 100% dei casi l’Euribor, stipulati da famiglie, imprese ed enti locali italiani con banche commerciali, sia italiane che estere operanti in Italia. Gli enti locali italiani possono in sostanza ora ottenere il risarcimento integrale di tutti gli interessi e flussi negativi su derivati che si sono visti addebitare relativamente a tali contratti nel periodo che va dal 2005 al 2008.
La Sentenza, essendo stata emessa dalla Commissione Europea, ha potere vincolante sul Giudice competente nazionale, che, pertanto, è chiamato ad uniformarsi, diversamente sanzionabile a seguito di apposita istanza al Presidente del Tribunale competente, al Consiglio/organismo della Magistratura nazionale o alla Corte di Giustizia UE.
Alcune riflessioni sono decisamente necessarie.
Va innanzitutto sottolineata la subalternità della Commissione Europea allo strapotere del sistema bancario che, se pur condannato, ottiene la non pubblicazione di una sentenza a proprio sfavore per oltre 3 anni (!).
Ma altrettanto severamente va giudicata la condotta degli enti locali che, a distanza di oltre 4 anni dalla sentenza e di oltre 1 anno dalla sua pubblicazione, non hanno ancora agito di conseguenza, tutelando la propria funzione pubblica e sociale, le comunità territoriali amministrate e la ricchezza collettiva prodotta.
Gli anni 2005-2008 costituiscono il periodo di massima dimensione della stipula di contratti derivati da parte degli Enti Locali, il cui apice è stato raggiunto nel 2007 con 796 enti interessati e 1.331 contratti sottoscritti dal valore nozionale iniziale di 37,042 miliardi di euro.
Fu proprio l’espansione senza controllo dei derivati a far decidere nel 2008 (art. 62, D.Lgs. n. 112/2008) la sospensione temporanea all’attività in derivati di regioni ed enti locali (poi divenuta definitiva con la Legge di stabilità 2014).
Siamo dunque di fronte a una massiccia e criminale sottrazione di ricchezza alle comunità locali, operata dalle banche con la complicità, ingenua o consapevole, degli amministratori.
Ora nessuno potrà più dire “Io non lo sapevo”. Per questo i movimenti in lotta per i diritti sociali e per la riappropriazione dei beni comuni e i comitati per l’audit sul debito locale devono immediatamente aprire un conflitto dentro ogni territorio e città rivendicando:
a) la pubblicizzazione di tutti i contratti derivati e di tutti i mutui sottoscritti nel periodo 2005-2008;
b) l’annullamento dei medesimi contratti derivati, con conseguente risarcimento collettivo degli interessi negativi pagati;
c) la revisione al ribasso dei tassi d’interesse su tutti i mutui contratti nel periodo sopra indicato, con conseguente risarcimento della quota sovrastimata pagata;
d) la sospensione del pagamento degli interessi su tutti i mutui e i derivati, fino alla definizione di quanto sopra indicato;
e) la pressante richiesta all’ANCI di farsi carico dell’iter legale per il riconoscimento di quanto dovuto.
Come si vede, i soldi ci sono. Sono solo finiti nelle mani sbagliate e si tratta di riappropriarsene collettivamente.

mercoledì 28 marzo 2018

Beauty, il suo destino è il nostro - Andrea Segre



Potremmo spendere pagine e pagine per alzare il nostro urlo di dolore per Beauty e per tutte e tutti i Beauty vittime della Fortezza Europa. Sarebbe giusto e necessario. Ma siamo arrivati ad un punto tale per cui indignazione e domande non bastano più. È arrivato il tempo delle alternative e delle risposte.
Ci rivolgiamo a tutti gli esseri umani che non accettano di vedere la propria condizione umiliata da scelte politiche che ci costringono ad accettare conseguenze disumane.
Ci rivolgiamo a tutti coloro che vogliono reagire a questo ordine delle cose. A chi sente vibrare la pelle e tremare il cuore quando pensa che noi stiamo accettando la morte di madri incinte, bambini, ragazzi e ragazze che stanno commettendo l’unico errore di volersi muovere e che spesso devono muoversi.
Dobbiamo avere la forza di immaginare e proporre un sistema diverso, che non abbia come inevitabile conseguenza l’umiliazione dell’umanità e la violazione delle vite e dei diritti. Perché oggi il sistema “democratico” con cui la questione migratoria viene gestita prevede strutturalmente queste conseguenze. I gendarmi francesi che hanno riportato indietro Beauty non verranno processati. Hanno agito secondo un ordine operativo ben preciso. Così come i militari e i funzionari italiani che gestiscono le operazioni sul confine libico non verranno processati.Nemmeno conosciamo i loro nomi. Agiscono per far funzionare le cose come le istituzioni chiedono loro e come l’opinione pubblica accetta che funzionino.
Allora adesso spetta all’opinione pubblica costruire altre risposte. Risposte che abbiano il coraggio di non parlare di “diritti dei migranti”, perché tale definizione tematica costituisce un ghetto mediatico, che ci sta allontanando dal centro della questione.
Dobbiamo mettere al centro la nostra dignità comune, il coraggio di non rinunciare a principi di civiltà che continuiamo a ritenere fondamentali nelle nostre vite ( o siamo pronti ad essere detenuti o uccisi anche noi perché vogliamo viaggiare?).
Dobbiamo mettere al centro la giustizia sociale, quella che prevede che le ricchezze vanno distribuite verso chi ne ha bisogno, al di là delle proprie origini etniche, e che i privilegi e le furbizie fiscali non vanno invidiati, ma combattuti.
Dobbiamo mettere al centro i principi di solidarietà, che non significa essere caritatevoli con i poveri, ma distribuire fatiche e vantaggi, impegni e diritti in modo equo in diversi territori, senza proteggere luoghi di elite e schiacciare periferie a cui affidare tutti i pesi sociali.
Dobbiamo mettere al centro il diritto alla mobilità, alla scelta personale di raggiungere un luogo dove c’è qualcuno che ti aspetta o dove sai che c’è lavoro o dove hai voglia di studiare, facendo diventare questo diritto un perno di cambiamento dell’ordine delle cose, con il coraggio di farlo diventare principio capace di guidare scelte pragmatiche di gestione del fenomeno migratorio che riguarda le vite di tutti noi (alzi la mano chi fa parte di una famiglia dove tutti sono stati o sono “a casa sua”).
Dobbiamo insomma avere il coraggio insieme di studiare e avanzare proposte. Partendo dai territori e puntando ad incidere a livello europeo. Come? Con un partito nuovo? Nossignori, con un movimento di opinione, di azione e di pressione sociale. Non un movimento per i migranti.  Un movimento per la dignità umana e la giustizia sociale di tutti noi.
Non dobbiamo aiutare i migranti, dobbiamo toglierci da questo imbuto maledetto che ci costringe ad accettare la morte di Beauty come conseguenza strutturale della nostra protezione. Nostra di chi? Quale protezione?
Il Forum Per cambiare l’ordine delle cose sta crescendo ed è ben altra cosa rispetto al mio film. In dieci città si sono riunite decine di persone che hanno dato vita ai Forum territoriali. Ognuno ha eletto un rappresentante che fa parte del coordinamento nazionale insieme ai rappresentanti delle organizzazioni che hanno fatto nascere il Forum (Msf, Amnesty international, Naga, Banca etica, ZaLab). Il coordinamento nazionale si è messo in contatto con movimenti europei che hanno gli stessi scopi. Stiamo costruendo una mobilitazione europea in questa direzione che da maggio a fine anno cercherà di far crescere idee e proposte. Molte persone che fanno parte di questo percorso sono operatori dell’accoglienza, educatori, assistenti legali, mediatori interculturali, perché agendo da anni su questo territorio conoscono bene la situazione e ne comprendono le tragiche dinamiche. Ma anche tanti cittadini semplici si stanno unendo al percorso.
Se abitate nelle città dove il Forum già esiste (Milano, Verona, Bolzano, Padova, Venezia, Bologna, Firenze, Roma, Caserta, Potenza) prendete contatti e partecipate agli incontri che nelle prossime settimane prepareranno la mobilitazione europea. Se nella vostra città il Forum non si è ancora formato potete farlo voi direttamente. Scrivete a percambiarelordinedellecose@zalab.org e vi daremo le informazioni necessarie.
Invitiamo anche le Ong, associazioni, organizzazioni sindacali, cooperative interessate al percorso di aderire. Ma non ci basta un’adesione formale, non raccogliamo firme on line, costruiamo azioni e percorsi off line, città per città verso il cuore d’Europa. Quindi vi chiediamo o di nominare un vostro rappresentante che partecipa al coordinamento nazionale stabilmente (se siete un’associazione nazionale) o di prendere contatto con i Forum territoriali o di aiutarne la nascita se ancora non ci sono.
Non serve proiettare il film L’ordine delle cose (il film di Andrea Segre intorno al quale è nato il Forum, ndr). Qui si parla di tutt’altro. Io continuerò a fare film, raccontare storie e fare domande scomode. È il mio lavoro e la mia passione. Ma dopo anni di incontri, dibattiti, discussioni ora è arrivato il tempo dell’azione comune e della proposta. Se no saremo sempre solo capaci di fare post di indignazione su Facebook ed è assolutamente inutile, perché su Facebook vincono le parole d’ordine e le parole d’ordine fanno vincere i signori della paura o ci costringono agli slogan umanitari, che non sono ciò che ora ci serve. Proviamoci tutti insieme e subito, se la dignità umana ci sembra ancora un principio importante. Perché non possiamo più aspettare ad agire.

Le scomode verità di Enrico Zucca - Lorenzo Guadagnucci





Parafrasando un aforisma del compianto Roberto Freak Antoni potremmo dire, pensando alla bufera mediatica esplosa attorno a Enrico Zucca, che non c’è gusto in Italia a dire la verità. Invece d’essere ascoltato e ringraziato, il magistrato è stato additato come una minaccia da buona parte della nomenclatura istituzionale, con il chiaro obiettivo di non discutere le questioni da lui sollevate.
Enrico Zucca, che fu pm nel processo Diaz (il cui esito non è mai stato digerito ai vari piani del Palazzo), durante un convegno a Genova ha messo in fila alcune evidenze processuali degli ultimi anni.
Ha detto che la tutela dei diritti fondamentali è diventata più difficile dopo l’11 settembre e l’avvio della cosiddetta guerra al terrorismo, tanto che la ragion di stato, in più casi, ha prevalso sulle regole scritte nelle Convenzioni sui diritti umani.
Ha detto che l’Italia ha violato più volte queste convenzioni, ad esempio nel caso Abu Omar (l’imam rapito a Milano dalla Cia e consegnato all’Egitto dove è stato torturato), subendo così una condanna davanti alla Corte europea per i diritti umani, e anche nelle vicende riguardanti il G8 di Genova, quando il nostro paese ha disatteso l’impegno a sospendere e rimuovere i funzionari condannati per le torture alla scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto.
Ha aggiunto che simili condotte, con l’implicita indifferenza verso gli impegni dettati da Carte così solenni, mina la statura morale del nostro paese quando si trova a chiedere ad altri paesi, com’è il caso dell’Egitto per l’omicidio di Giulio Regeni, di punire e consegnare i responsabili di abusi e torture.
Enrico Zucca ha quindi offerto una dettagliata e articolata ricostruzione di vicende giudiziarie ben conosciute, arrivando a conclusioni assai fondate: è noto, addirittura stranoto, che i funzionari processati e poi condannati per le torture alla Diaz e a Bolzaneto sono stati nel tempo protetti, promossi (almeno quelli di grado gerarchico più alto) e infine reintegrati in servizio, anche in ruoli di vertice, alla scadenza dei cinque anni di interdizione dai pubblici uffici.
È bene  ricordare un passaggio contenuto nella dirompente sentenza della Corte di Strasburgo sul caso Diaz (Cestaro vs Italia, del 7 aprile 2015), una sentenza che non suscitò alcuna seria reazione da parte di chi oggi grida allo scandalo per l’intervento di Enrico Zucca. È il paragrafo 216: “(…) l’assenza di identificazione degli autori  materiali dei maltrattamenti in causa deriva dalla difficoltà oggettiva della procura di procedere a identificazioni certe e dalla mancata collaborazione della polizia nel corso delle indagini preliminari. La Corte si rammarica che la polizia italiana si sia potuta rifiutare impunemente di fornire alle autorità competenti la collaborazione necessaria all’identificazione degli agenti che potevano essere coinvolti negli atti di tortura”.
Quel “rifiutarsi impunemente” è un macigno che pesa sulla credibilità della nostra polizia quanto la mancata sospensione dei funzionari durante indagini e processi e la loro mancata rimozione dopo le condanne definitive (paragrafo 210).
Il quadro d’insieme è tanto limpido quanto desolante: nei nostri recenti casi di tortura, la protezione istituzionale verso indagati, imputati e condannati è stata la rotta seguita dai vertici amministrativi e politici dello stato.
Per questi motivi l’ondata di indignazione e sdegno per l’intervento di Enrico Zucca avviata dal capo della polizia Franco Gabrielli e molti altri, tutti attenti a non entrare nel merito delle constatazioni e delle valutazioni espresse dal magistrato, appare come una montagna di panna montata sotto la quale si conta di occultare alcune scomode verità.
Né Gabrielli né altri hanno spiegato perché la polizia di stato abbia coperto, promosso, reintegrato i responsabili della cosiddetta perquisizione alla scuola Diaz, qualificata come un caso di tortura dalla Corte di Strasburgo, ed è proprio questo il punto dell’intera vicenda.
Per la reputazione della polizia di stato non sono oltraggiose le parole di Enrico Zucca, bensì le condotte tenute nel corso del tempo, dal 2001 in poi, da numerosi funzionari, dirigenti e responsabili politici. Condotte delle quali non si vuole parlare.
Si tace sulla sostanza e si urla su immaginari oltraggi. Fra tante grida scomposte, le parole più serie e sincere le dobbiamo ai genitori di Giulio Regeni, che hanno espresso “stima e gratitudine al dottor Zucca per il suo intervento preciso ed equilibrato”.

Sono indignato per quanto sta avvenendo sotto i nostri occhi verso i migranti - Alex Zanotelli



Sono indignato per quanto sta avvenendo sotto i nostri occhi verso i migranti, nell’indifferenza generale. Stiamo assistendo a gesti e a situazioni inaccettabili sia a livello giuridico, etico ed umano.
È bestiale che Destinity, donna nigeriana incinta, sia stata respinta dalla gendarmeria francese. Lasciata alla stazione di Bardonecchia, nella notte, nonostante il pancione di sei mesi e nonostante non riuscisse quasi a respirare perché affetta da linfoma. È morta in ospedale dopo aver partorito il bimbo: un raggio di luce di appena 700 grammi!
È inammissibile che la Procura di Ragusa abbia messo sotto sequestro la nave spagnola Open Arms per aver soccorso dei migranti in acque internazionali, rifiutandosi di consegnarli ai libici che li avrebbero riportati nell’inferno della Libia.
È disumano vedere arrivare a Pozzallo sempre sulla nave Open Arms Resen, un eritreo di 22 anni che pesava 35 kg, ridotto alla fame in Libia, morto poche ore dopo in ospedale. Il sindaco che lo ha accolto fra le sue braccia, inorridito ha detto: “Erano tutti pelle e ossa, sembravano usciti dai campi di concentramento nazisti”.
È criminale quello che sta avvenendo in Libia, dove sono rimasti quasi un milione di rifugiati che sono sottoposti -secondo il Rapporto del segretario generale dell’ONU, A. Guterres- a “detenzione arbitraria e torture, tra cui stupri e altre forme di violenza sessuale, a lavori forzati e uccisioni illegali.” E nel Rapporto si condanna anche la “condotta spregiudicata e violenta da parte della Guardia Costiera libica nei salvataggi e intercettazioni in mare”.
È scellerato, in questo contesto, l’accordo fatto dal governo italiano con l’uomo forte di Tripoli, El-Serraj (non c’è nessun governo in Libia!) per bloccare l’arrivo dei migranti in Europa.
È illegale l’invio dei soldati italiani in Niger deciso dal Parlamento italiano, senza che il governo del Niger ne sapesse nulla e che ora protesta.
È immorale anche l’accordo della UE con la Turchia di Erdogan con la promessa di sei miliardi di euro, per bloccare soprattutto l’arrivo in Europa dei rifugiati siriani, mentre assistiamo a sempre nuovi naufragi anche nell’Egeo: l’ultimo ha visto la morte di sette bambini!
È disumanizzante la condizione dei migranti nei campi profughi delle isole della Grecia. “Chi vede gli occhi dei bambini che incontriamo nei campi profughi” ha detto l’arcivescovo Hyeronymous di Grecia a Lesbos “è in grado di riconoscere immediatamente, nella sua interezza la ‘bancarotta dell’umanità’.”
È vergognoso che una guida alpina sia stata denunciata dalle autorità francesi e rischi cinque anni di carcere per aver aiutato una donna nigeriana in preda alle doglie, insieme al marito e agli altri due figli, trovati a 1.800 metri nella neve.
Ed è incredibile che un’Europa che ha fatto una guerra per abbattere il nazi-fascismo stia ora generando nel suo seno tanti partiti xenofobi, razzisti o fascisti.
“Europa, cosa ti è successo?”, ha chiesto ai leader della UE Papa Francesco. È questo anche il mio grido di dolore. Purtroppo non naufragano solo i migranti nel Mediterraneo, sta naufragando anche l’Europa come “patria dei diritti”.
Ho paura che, in un prossimo futuro, i popoli del Sud del mondo diranno di noi quello che noi diciamo dei nazisti.
Per questo mi meraviglio del silenzio dei nostri vescovi che mi ferisce come cristiano, ma soprattutto come missionario che ha sentito sulla sua pelle cosa significa vivere dodici anni da baraccato con i baraccati di Korogocho a Nairobi (Kenya). Ma mi ferisce ancora di più il quasi silenzio degli Istituti missionari e delle Curie degli Ordini religiosi che operano in Africa.
Per me è in ballo il Vangelo di quel povero Gesù di Nazareth: “Ero affamato, assetato, forestiero…”. È quel Gesù crocifisso, torturato e sfigurato che noi cristiani veneriamo in questi giorni nelle nostre chiese, ma che ci rifiutiamo di riconoscere nella carne martoriata dei nostri fratelli e sorelle migranti. È questa la carne viva di Cristo oggi.

martedì 27 marzo 2018

docenti molto incazzati


Red Virginia - Pietro Bianchi

Nella West Virginia, lo stato più povero d’America, dove Donald Trump ha raccolto in assoluto più consensi durante l’ultima elezione, nelle ultime settimane gli insegnanti delle scuole pubbliche hanno portato avanti una delle lotte sindacali più radicali degli ultimi anni. E hanno vinto
Quando il 9 novembre 2016 l’America si svegliò nell’incubo di una vittoria di Donald Trump, nessuno nel piccolo stato della West Virginia poteva dirsi davvero sorpreso. Si trattò, con il 68.5% dei voti (e punte in alcuni contee dell’87%) dello Stato in cui la percentuale di consenso di Trump fu più alta di tutti gli Stati Uniti, con una vera e propria umiliazione di Hillary Clinton che venne staccata di più di 42 punti. È ormai qualche decade che la West Virginia sembra essere un’inattaccabile roccaforte repubblicana, persino più di Alabama, Tennessee o degli stati di quell’America bianca, rozza e rurale che sembrerebbe essere il più grande bacino di consenso del miliardario di New York. D’altra parte è lo stato dove Obama venne brutalmente sconfitto due volte persino nella sua “gloriosa” vittoria del 2008 e dove ormai i Repubblicani stravincono senza nemmeno aver bisogno di fare campagna elettorale. Com’è che allora proprio nello Stato più repubblicano e conservatore d’America nelle ultime settimane è avvenuta una delle lotte sindacali più radicali e avanzate degli ultimi anni?
La storia della West Virginia può davvero essere considerata una metafora della parabola della lotta di classe in America. All’inizio del XX Secolo quando il carbone doveva alimentare il motore dello sviluppo industriale americano, le miniere della West Virginia avevano un ruolo fondamentale e attraevano capitali e lavoratori da tutta l’America. Ma le condizioni della miniera erano devastanti e la mortalità sul lavoro più alta di ogni altro settore produttivo.

Il sindacato degli United Mine Workers of America (UMWA) iniziò una durissima battaglia sindacale che culminò nelle famosissime Mine Wars. Non dobbiamo pensare al termine war come metaforico: fu il più grande conflitto sul lavoro dell’intera storia degli Stati Uniti e il più imponente scontro armato sul territorio americano dopo la Guerra Civile. Per cinque giorni dalla fine di agosto all’inizio di settembre nel 1921 a Logan County 10mila minatori armati si batterono con 3mila tra poliziotti, crumiri e guardie private pagati dalle aziende minerarie per il riconoscimento del proprio sindacato, fino a che il Governo Federale non decise di mandare l’esercito.
Com’è noto il movimento sindacale americano iniziò a essere duramente represso a partire dagli anni Trenta, ma la West Virgina riuscì a mantenere la nomea di zoccolo duro della sinistra sindacale americana fino a pochi anni fa. Ancora negli anni Sessanta e Settanta nella West Virginia il partito democratico prevaleva anche in elezioni storiche per i repubblicani come la vittoria di Nixon del 1968 o il famoso landslide di Reagan del 1980 (dove vinse 44 a 6 e la West Virginia era uno dei sei stati “in controtendenza”). Ciò che non fece l’ideologia neo-liberale degli anni Ottanta e Novanta lo fece la deindustrializzazione che rese obsoleto il ciclo produttivo del carbone, soprattutto a fronte di una produzione manifatturiera che il capitale americano riuscì parzialmente a spostare in luoghi dal costo del lavoro più basso. Oggi la West Virginia è il 49esimo Stato come reddito pro capite, secondo solo al Mississippi, e nella famosa Logan County, teatro delle Mine Wars, nonostante si abbia un’aspettativa di vita maschile di 69 anni (9 in meno della media nazionale, con un dato che è in linea con i paesi africani del Nord), Trump nelle ultime elezioni ha preso il 79,6% dei voti.

E tuttavia la lotta di classe riesce spesso a essere “carsica” e a conservare in modo inaspettato la memoria lunga dei conflitti sindacali del passato. È interessante che siano stati proprio gli insegnati delle contee di Logan, Wyoming e Mingo, a fronte di un’emergenza sociale e persino “sanitaria” di questo tipo, a iniziare lo scorso 2 febbraio una delle più esaltanti lotte degli ultimi anni che si è appena conclusa ieri con un’incredibile vittoria. La West Virginia, che si è unito da poco alla lunga lista degli Stati che hanno adottato la legislazione right-to-work (una disciplina del diritto del lavoro particolarmente ostile alle organizzazioni del lavoro), prevede che i contratti dei dipendenti statali vengano decisi in modo unilaterale dagli organi legislativi dello stato, senza l’obbligo di alcuna consultazione delle parti sociali. Quando lo scorso autunno si è trattato di rinnovare il contratto, lo Stato della West Virgina aveva proposto a tutti i dipendenti un misero aumento dell’1%, ben al di sotto l’aumento dell’inflazione e del costo della vita, e una revisione dei benefit della Public Employees Insurance Agency (PEIA), l’assicurazione sanitaria di tutti i dipendenti statali, che avrebbe sensibilmente aumentato i premi assicurativi anche di centinaia di dollari l’anno. Gli insegnanti della scuole pubbliche, che hanno tra gli stipendi più bassi di tutta la nazione (sono il 48esimo Stato su 50 che formano gli Stati Uniti) e continuano a “perdere” insegnati a favore degli Stati limitrofi, hanno allora iniziato un processo di auto-organizzazione utilizzando i due sindacati degli insegnanti presenti – l’American Federation of Teachers che fa parte dell’AFL-CIO e il West Virginia Education Association, che fa parte del più moderato National Education Association (NEA) – e anche il West Virginia School Service Professional Association che riunisce gli autisti dei bus, i custodi, i bidelli e i lavoratori delle mense.
In passato queste sigle sindacali sono state spesso in competizione tra loro, ma questa volta hanno deciso di lavorare insieme per organizzare una mobilitazione che è cresciuta di settimana in settimana a partire da un semplice gruppo Facebook fino ad arrivare il 17 febbraio a una manifestazione di 10mila persone fuori dalla Camera dei Delegati e dal Senato della capitale Charleston dove insieme ai lavoratori statali hanno manifestato anche i Teamster (lo storico sindacato dei camonisti) e gli United Mine Workers.

Con molti di loro che sfoggiavano le bandane rosse simbolo delle lotte sindacali delle miniere (uno dei simboli da cui viene il soprannome dispregiativo di redneck, gli ignoranti della provincia del Sud) gli insegnati si sono accampati fuori dal parlamento per convincere i delegati e i senatori a rivedere la loro decisione. Tuttavia è stato solo con la convocazione di uno sciopero selvaggio dell’intero Stato (che per i dipendenti pubblici è illegale) che la lotta ha iniziato davvero a fare male. Gli insegnanti chiedevano un aumento del 5% dei salari e una revisione radicale della politica dei premi dell’assicurazione sanitaria statale. Ci sono voluti ben 9 giorni di sciopero a oltranza che hanno bloccato l’intero sistema scolastico dello Stato per riuscire ad arrivare a un accordo nel quale tutte le richieste degli insegnati sono state accettate dalla controparte. Jim Justice, il Governatore dello Stato – un’opportunista che è passato due volte dall’essere Democratico all’essere Repubblicano, ora in quota Trump – e che nell’ultima campagna elettorale aveva avuto un endorsement persino dal West Virginia Education Association, si è dovuto rimangiare tutto quello che aveva detto nei primi giorni. 277mila studenti sono rimasti a casa da scuola per 9 giorni scolastici, ma la solidarietà delle famiglie da tutte le contee dello Stato è stata totale, e sono stati organizzati addirittura dei pranzi autogestiti per permettere ai ragazzi e alle ragazze delle scuole di far fronte alla chiusura delle mense durante i giorni di sciopero.
Molti sono rimasti sorpresi dalla radicalità della lotta degli insegnati della West Virginia, che viene tutt’ora considerato come uno dei buchi neri della provincia americana più arretrata e incolta, dove il conservatorismo trumpiano sembrava avere un’egemonia totale. Eppure la grande lezione di questi giorni è che le lotte sul lavoro riescono a pagare anche là dove il conflitto di classe sembrerebbe essere più nascosto e più difficile da organizzare: in quei right-to-work state che sembrano aver fatto ritornare la lancetta delle relazioni industriali a inizio Novecento. Ma che di quegli anni stanno facendo ritornare anche i conflitti.