La stagione 2017/2018 si annunciava decisamente
problematica in Algeria, dopo le lotte e le proteste dell’anno prima. Ci si
aspettava uno scontro duro sul fronte sociale, ma alla fine le piazze sono
state contenute e il governo continua a mantenere l’ordine costituito in modo
abbastanza efficace.
La caduta dei prezzidel petrolio ha svuotato le riserve di denaro
dello Stato. Il governo di crisi, guidato dal primo ministro Ahmed Ouyahia, sta
attuando progressivamente la sua terapia choc, che consiste nel tagliare
servizi e sostegni alla cittadinanza e alle famiglie, senza incontrare
grande resistenza. L’inflazione è alle stelle e il potere d’acquisto è stato
dimezzato in pochi anni. La gente sembra rassegnata.
Ma non tutti gli algerini sembrano voler pagare il prezzo di una
crisi dovuta non al calo del prezzo del petrolio, come sostiene il governo, ma
agli sprechi e alla corruzione profonda del sistema algerino, come risponde la
società civile. Gli insegnanti, ad esempio, non ci stanno e costituiscono
l’unico fronte sul quale il governo sembra veramente in difficoltà in questo
momento.
L’insegnante in Algeria era stato abituato,
dall’Indipendenza nel 1962 fino agli anni 2000, ad essere il più povero tra i
lavoratori. Ma poi successe un fatto non previsto. Alla fine degli anni ’90
arrivò al potere l’attuale presidente, Abdelaziz Bouteflika. Tornava da un
esilio di quasi 20 anni e non aveva un forte sostegno politico interno. Ad
imporlo all’Algeria come presidente furono in realtà le potenze occidentali
(Usa, in testa) e le petromonarchie del Golfo. L’accordo proposto ai generali,
i soli al potere fino a quel giorno, e ai ribelli islamisti era: fine della
guerra civile senza processi né inchieste sui crimini di guerra commessi da
entrambe le parti, in cambio di un posto al comando per il candidato delle
potenze occidentali e delle multinazionali del petrolio.
I primi anni furono abbastanza difficili. Per sedersi bene
al potere Bouteflika ci mise tempo e impegno e dovette prima mandare in
pensione i generali, comprare gli islamisti, mettere la museruola al
partito-Stato del Fronte di liberazione nazionale ( Fln) e, infine, indebolire
L’Unione generale dei lavoratori algerini (Ugta). L’Ugta era il principale
sindacato del paese, nato dalle lotte per l’indipendenza e la giustizia negli
anni ’50, ma poi diventò come l’Fln una macchina di potere: egemone,
ingombrante, corrotta e corruttrice.
L’indebolimento dell’Ugta liberò nella società una miriade di
sindacati indipendenti, che erano fino ad allora tenuti a bada proprio dal
sindacato gigante che spesso invece di curare gli interessi dei lavoratori
svolgeva il ruolo di poliziotto dentro i luoghi di lavoro. Questa liberazione
rese i sindacati più attivi e più combattivi. Ne conseguirono delle vittorie
importanti sul fronte salariale e delle condizioni di lavoro.
Tra questi sindacati indipendenti a ottenere i
risultati più eclatanti furono quelli della scuola e dell’università. In pochi
anni, insegnanti, lavoratori dell’educazione e universitari da classe povera
diventarono finalmente «classe media», non solo dal punto di vista culturale ma
anche socio-economico. I miglioramenti sono stati ottenuti con metodi di lotta
molto radicali, tra cui il ricorso a la grève illimitée, uno sciopero a
oltranza come quello che sta portando avanti in questi giorni il sindacato
chiamato Conseil national autonome du personnel enseignant du secteur
ternaire de l’éducation (Cnapeste).
I risultatati ottenuti negli anni 2000 hanno portato gli
insegnanti a vivere meglio. E adesso che la crisi ha svuotato le casse dello
Stato, tutti sanno che il parente povero, quello che ci rimette sempre in ogni
crisi, è l’educazione nazionale.
Ma i lavoratori della scuola non ci stanno. Dopo alcuni scioperi
di pochi giorni di avvertimento e di fronte al rifiuto dello Stato ad aprire un
tavolo serio di negoziati non solo sulla questione salariale, ma su una serie di
questioni legate al diritto all’alloggio, il riconoscimento di alcune malattie
professionali e le condizioni di lavoro in genere (stato delle scuole, mezzi
didattici, sovraffollamento delle aule…), Il Cnapeste ha lanciato un appello
allo sciopero ad oltranza, per il 27 ottobre scorso, che è stato molto seguito.
In alcune città ha raggiunto l’80 % di partecipazione. Mediamente si aggira
intorno ai 50%. Un numero di adesioni che forse nemmeno il sindacato stesso si
aspettava, essendo infinitamente superiore a quello dei suoi tesserati.
Da quel giorno il braccio di ferro continua, tra timidi
tentativi di dialogo, minacce, azioni giudiziarie, appelli della società civile
sia per sostenere gli insegnanti sia a non prendere i ragazzi come ostaggi di
una lotta che mette le famiglie in difficoltà. I giudici hanno dichiarato lo
sciopero illegale e hanno ingiunto a tutti gli insegnanti di raggiungere i loro
posti di lavoro. Le associazioni dei genitori non smettono di implorarli di
« tornare alla ragione ». Alcuni Imam del governo hanno dichiarato
che lasciare i bambini senza educazione è un peccato. Il segretario generale
del vecchio sindacato Ugta, a corto di argomenti, ha augurato
«che l’infelicità eterna possa colpire le case degli scioperanti». Il
ministero ha già licenziato ben 3816 insegnanti… Molti hanno ceduto alle
pressioni e alla paura e sono tornati in classe, ma tutto sommato lo sciopero
continua.
Lo Stato esige il ritorno al lavoro come condizione
inderogabile a qualsiasi trattativa. Il sindacato dice che lo sciopero può
finire solo se lo Stato dimostra durante la trattativa di avere «intenzioni
serie».
L’impasse politica che blocca la metà delle scuole algerine da 3
mesi e che in alcune regioni rischia di far annullare completamente l’anno
scolastico 2017/2018 è probabilmente solo un’anteprima degli scenari futuri che
aspettano il paese. Tra una società civile ormai abituata a un certo livello di
benessere e che non lo vuole perdere e uno Stato che finora ha sempre risolto i
problemi con due soli metodi: Il bastone della repressione e la carota dei
petrodollari.
Ma la cassetta dei petrodollari, dicono, è ormai bella vuota. I
bastoni, invece, non mancano.
(*)
Articolo pubblicato sul quotidiano “il manifesto” (in data 02.03.2018)
con il titolo “In Algeria una lotta che fa scuola”
da qui
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