«Ci sono momenti in cui è necessario gettare il cuore oltre l’ostacolo.
Come diceva XYZ, e pensando anche quelle parole lontane, ma oggi così vicine,
noi diciamo sì. Lo facciamo non a cuor leggero, consapevoli degli errori che
sono stati commessi nel passato. Ma è proprio per dimostrare che si può fare
bene ciò che è stato fatto male in passato che noi diciamo sì. Perché vogliamo
dimostrare che la sostenibilità ambientale ed economica è qualcosa che si può
fare. A coloro che dicono “no”, legittimamente, noi rispondiamo: stiamo
lavorando anche per voi, per far ritornare la fiducia anche in coloro che
l’avevano persa. Daremo tutta la nostra passione e il nostro coraggio per
costruire insieme un evento bello, forte, sostenibile, ecologico. Noi
trasformeremo gli errori del passato in lavoro, crescita, sviluppo. Quindi
Torino [ma forse ci sarà anche Milano, N.d.R.] dice “Sì” alla candidatura per
le Olimpiadi di Torino 2026.»
Probabile la deriva «noi ci mettiamo la faccia». Applausi, pagine sul
giornale di famiglia, il «coraggio del pragmatismo», «il senso di
responsabilità e la visione di futuro», oppure «Torino rilancia la sfida»,
«ripartenza». Campagna mediatica già ampiamente in corso.
Con ogni probabilità tutto questo, tra pochi giorni, verrà pronunciato dal
centro del cratere olimpico di Torino. Città che elegge ogni cinque anni un
commissario fallimentare, figura indispensabile per ripianare il maxidebito
lasciato dalle Olimpiadi, quelle del 2006.
Dall’uno vale uno, all’uno vale l’altro.
La Stampa di lunedì 30 ottobre 2017, a
proposito della difficile situazione finanziaria del Gruppo Trasporti Torinesi
e di conseguenza del Comune di Torino:
«…È Stefano Lo Russo,
oggi capogruppo del PD in Consiglio comunale, ma fino alla precedente
legislatura uomo chiave della squadra di Fassino intercettato il 4 novembre del
2016 mentre era al telefono con un giornalista. In realtà l’intercettazione è
stata effettuata per un’altra inchiesta ma finisce nel faldone GTT perché le
dichiarazioni dell’ex assessore sono da considerare eloquenti. Gli inquirenti,
che stanno lavorando sul disallineamento dei conti del Comune e sulle
Partecipate, vengono colpiti dalla fermezza con cui Lo Russo spiega che i
problemi dei conti di Torino sono nati con le Olimpiadi e che poi hanno cercato
di nascondere le cose.»
È veramente un peccato dover associare la parole del filosofo tedesco a
queste cosine ridicole della storia, e chi volesse avere un quadro completo
della tragedia, stadio originario della farsa prossima, può leggere qui.
Le cose, contano solo le cose
Il costo preventivo delle Olimpiadi invernali di Torino 2006, non «low
cost», fu pari a 550 milioni di euro.
Il preventivo, informale, delle Olimpiadi invernali di Torino 2026, «low cost», è pari a 975 milioni di euro.
Potremmo fermarci qui, stappare un bottiglia di vino forte affinché, come cantava il poeta, «ci sia allegria anche in agonia.» Ma dato che la vicenda deborda nel grottesco vale la pena di spenderci qualche parola.
Il preventivo, informale, delle Olimpiadi invernali di Torino 2026, «low cost», è pari a 975 milioni di euro.
Potremmo fermarci qui, stappare un bottiglia di vino forte affinché, come cantava il poeta, «ci sia allegria anche in agonia.» Ma dato che la vicenda deborda nel grottesco vale la pena di spenderci qualche parola.
Curiosa locuzione, «low cost»: ben conosciuta in Valsusa, perché la Torino
– Lione, non è più Tav, ma Tav «Low cost»: ribatezzata così da Graziano Delrio, costa appena 4.7
miliardi di euro. I sostenitori del Tav come quelli delle Olimpiadi hanno in
comune la voluta distorsione della realtà economica, nonché un uso
spregiudicato, e vagamente ridicolo, delle locuzioni. Ma perché sono poi «low
cost»?
Il Cio chiede con nuove norme di rendere sostenibili i giochi e dà vaghe
indicazioni in merito. Quindi, par di capire, è necessario svenare le casse
pubbliche dello Stato per riutilizzare, per altri quindici giorni, impianti
abbandonati al termine dei precedenti Giochi del 2006. I proponenti, con ampio
uso retorico, sostengono che verranno riutilizzati gli impianti abbandonati:
questo processo viene definito, niente meno, «il sogno». Intendono quindi
rimettere in sesto:
§
la pista di bob di Cesana Torinese;
§
il trampolino di Pragelato;
§
e probabilmente il Villaggio Olimpico di Torino.
I primi due marciscono da circa dieci anni, il terzo è diventato
l’alloggio di circa 1400 migranti in cerca di un tetto.
«Il sogno» – ricicliamo – non tiene conto di cosa fare di questi
impianti dopo le Olimpiadi: lo schema sarebbe ovviamente
quello del 2006, ancor più sicuro perché questa volta non ci sarebbero – se
veramente si vogliono tagliare i costi – fondi necessari per il riutilizzo
successivo. Certo, giureranno che dopo la cerimonia di chiusura sarà un
florilegio di attività, di cittadelle dello sport, di «Coverciano della neve»:
l’hanno già fatto i predecessori nel 2006, dilapidando miliardi, mentre si
chiudono gli ospedali. Quanto costerebbe quindi la ristrutturazione pro tempore? Nessuno al momento può dirlo, nemmeno
coloro che sostengono il principio del «riciclo».
Per quanto riguarda il Villaggio Olimpico, la situazione è ancora più
pericolosa e ridicola. In esso vivono circa 1400 migranti, fantasmi della città
che hanno trovato in questi palazzi un luogo dove ripararsi. Si dovrebbe quindi
buttarli fuori e sparpagliarli per la città, dato che il processo di «sgombero
dolce» organizzato da Comune, fondazioni bancarie e curia, è ormai fallito. Le
casette inoltre, costate oltre 140 milioni di euro, risultano devastate, non
dalla presenza dei migranti, bensì dalla loro debolezza infrastrutturale. Si
dovrebbero rifare da cima a fondo, quindi. Un vecchio adagio torinese dice così
«a volte costa più la corda del sacco»: ma ovviamente si punta ai soldi per la
corda con i grandi eventi. Se gli atleti verranno ospitati a Torino, è molto
probabile un nuovo villaggio olimpico.
Anche perché ci sono appetiti da soddisfare, la corrente cementizia della
città già scalpita, e non si accontenteranno di ridare il bianco a qualche
muro. Sono in molti ad avere «sogni» e «vision» a Torino, in
questi giorni.
In generale, inoltre, tutti gli impianti olimpici che potrebbero essere
utilizzati, oggi sono «gestiti» da privati. il Parco Olimpico era interamente
di proprietà della Fondazione XX marzo 2006. Nel 2009 il 70% delle azioni è
stato affidato ai privati. La gara è stata vinta dalla società americana Live
Nation, in collaborazione con la società torinese Set Up.
Vi è inoltre un costo non comprimibile della spesa, e non ammortizzabile,
in geometrica espansione dato il contesto storico: quello afferente alla sicurezza.
Organizzare le Olimpiadi è come organizzare una guerra: e il Cio, su questo
punto, non vuole sentir parlare di risparmi o «low cost». Torino, dopo il
disastro di Piazza san Carlo, dovrebbe aver imparato la lezione.
Il riciclo degli impianti, quindi, inciderà minimamente sul piano della
spesa finale, è solo fumo gettato negli occhi. In realtà, come sempre accade,
nessuno in questo momento può neanche immaginare quanto si spenderà. Nel 2012
il Guardian fece un’analisi di questo fenomeno mettendo sotto
la lente le Olimpiadi di Londra. Le sfortunate Olimpiadi parigine del 2024,
anch’esse ribattezzate «low cost», si stanno rivelando – come tutte quelle del
passato – una voragine senza fine.
Innsbruck – che ha gli impianti a disposizione, e in funzione, su un
territorio molto meno vasto – si è ritirata dopo un referendum, e nemmeno
Stoccolma ha superato la fase iniziale. L’idea di organizzare giochi olimpici
invernali sembra non piacere neanche agli svizzeri. In base a un sondaggio
realizzato a quattro mesi dal cruciale voto sul progetto di candidatura di Sion
2026, i pareri contrari raggiungono il 59% degli interpellati, mentre i
favorevoli solo il 36%. Decideranno a giugno.
Il direttore del Cio, relativamente ai dubbi svizzeri sulla cosiddetta
«garanzia limitata del deficit» ha precisato che a rispondere di un eventuale
disavanzo saranno gli organizzatori: «A fare stato sono le firme sul contratto
con l’ente ospitante». Ma quali sono i conti degli svizzeri per le loro
Olimpiadi del 2026? Come riporta Ticinoonline:
«Gli organizzatori hanno messo in preventivo spese
complessive per 1,98 miliardi di franchi ed entrate per 1,15 miliardi. Da più
parti è tuttavia stato osservato che si tratta di previsioni troppo
ottimistiche e che la sicurezza potrebbe fare lievitare i costi. L’ultima
parola sulla candidatura olimpica spetta comunque ai cittadini vallesani.»
Gli svizzeri hanno già detto che da loro ci sarà un buco minimo di 850
milioni di euro. In Svizzera. Noi qui, a trombe politiche unificate, suoniamo
la grancassa del «low cost». E siamo tutti entusiasti.
Entusiasta il Partito Democratico, coerentemente con la sua storia.
Entusiaste le banche, entusiasti i costruttori, entusiasta – suppongo– la
criminalità organizzata che ancora sta digerendo con fatica l’abbuffata
pantagruelica dell’altra volta.
Entusiasti Lega, Forza Italia, destra, tutti. È la Grande Colazione che si
avvicina, a Torino e in Italia.
Entusiasti quelli di adesso, i pentastellari torinesi. Ondivaghi, hanno
aperto la valvola della protesta anti sistema per poi trasformarla, nell’attimo
della vertigine del non-potere che hanno, nel più compiaciuto conservatorismo.
Bigotti del bilancio e dell’austerità, ma pronti a cercare la salvezza laddove
vi è la rovina della città. I dissidenti della maggioranza pentastellare in
Comune sono quattro e mezzo, gli altri sono impiegati della politica che un tempo
sbraitavano contro le grandi opere/eventi, e oggi sbraitano di «sogni» e «vision».
Entusiasta «Beppe», che telefona in diretta durante un’assemblea come nelle
migliori tradizioni del cabaret: e Beppe dice a «Chiara» che le Olimpiadi sono
«un’occasione», così Chiara si sente forte, e la dissidenza interna viene
tacitata per qualche ora.
Costoro affrontano allegramente la candidatura olimpica senza tener conto
che il sistema bancario in essere, l’assenza di una banca pubblica – per
cortesia nessuno tiri in ballo la Cdp – le regole di bilancio nazionali e sovra
nazionali, nonché la dimensione del debito pubblico, la svalutazione del lavoro
con il dilagare di impieghi non retribuiti spacciati per volontariato, tutto
questo rende impossibile l’organizzazione di una
Olimpiade che non sia un massacro sociale.
Ostacoli strutturali, incontrovertibili, a cui i proponenti rispondono con
la retorica del lowcost/sogno/vision/facciamo a
modo nostro. Il vecchio arnese della fuffa gettata negli occhi, affinché la
pietrosa materia risulti invisibile. Vivono, i proponenti, nella allucinata ed
egoriferita convinzione che il loro magico tocco possa trasformare in oro il
marciume: la sindrome di Re Mida.
Contrario brutalmente – perché consapevole di tutto quanto sopra elencato –
il Movimento No Tav, che in un durissimo comunicato stampa contesta la
narrazione tossica relativa al principio «low cost” nonché l’intera impalcatura
ideologica legata ai grandi eventi. Anche perché, se il Tav non sarà fermato –
da chi? Dai pentastellari di governo? – negli anni antecedenti alla cerimonia
di apertura i cantieri olimpici si sommeranno al maxicantiere del tunnel
di base a Chiomonte e al maxi cantiere di Salbertrand, ove verrà stoccato lo
smarino. La Valsusa, ancora una volta, utilizzata da tutti come un territorio
da saccheggiare.
Ma perché rifare le Olimpiadi? Le vere
ragioni
Premessa: in linea teorica esiste un articolo della Carta Olimpica, Cap. 5
art. 37 comma 7, che così recita:
«L’elezione riguardante la designazione della Città
Ospitante si svolge in un Paese che non presenti nessun candidato
all’organizzazione dei Giochi Olimpici in questione, dopo attento esame del
rapporto stilato dalla Commissione di valutazione delle città candidate.»
Ovvio conflitto di interessi. Il presidente del Coni Giovanni Malagò, il sindaco di Milano Giuseppe Sala e il Governatore della
Lombardia Roberto Maroni hanno
sottoscritto tale impegno, anche se poi hanno dichiarato di «non volersi
precludere nulla». Anche perché, e questo è lo scenario più probabile, Torino,
o Torino-Milano, potrebbe rimanere l’unica città candidata in Europa nel caso
in cui Sion si ritirasse.
Alla dolce tentazione leopardiana del prevaler del riso fuori posto o del
pianto consolatorio, è bene contrapporre la massima spinoziana «Non piangere,
non ridere, comprendere»: le Olimpiadi si vogliono rifare a Torino per le stesse ragioni dell’altra volta.
La Città sta andando verso la fase finale della deindustrializzazione, il
cratere sta per eruttare nuovamente conflitto. Soprattutto quelle periferie che
brulicano di malessere. Serve un grande evento –
non ci sono differenze tra grandi opere e grandi eventi – che distragga, che porti via
l’attenzione. Niente più panem, solo circenses: poi tanto da queste parti – mai dimenticare
la teoria dei vasi comunicanti quando si parla di debito pubblico e grandi opere – per recuperare denaro chiudiamo due
ospedali: Molinette e Sant’Anna. Al loro posto un ospedale più piccolo, la
Città della Salute.
«Il privato – si può leggere sul quotidiano di
Confindustria – sosterrà il 70% della spesa di realizzazione degli edifici, 306
milioni di euro, e sarà remunerato grazie al canone ottenuto dai risparmi sui
costi della gestione corrente.»
È il famoso Project Financing, il meccanismo
estrattivo principe – utilizzato sempre più per grandi
eventi e grandi opere –
per la creazione del debito pubblico e la privatizzazione dei servizi.
Ovviamente nella nuova struttura sanitaria privata affittata al pubblico i posti letto saranno tagliati, i pentastellari
regionali sostengono addirittura della metà: da 2000 a 1000. Progetto della
giunta regionale Chiamparino, fatto proprio dai Cinque Stelle di Torino dopo un
repentino cambio di opinione.
Ma torniamo alla deindustrializzazione. Il «Polo del lusso» di Torino,
quello che doveva arrivare dopo il referendum di Mirafiori del 2011, si sta
rivelando non solo insufficiente, ma inadeguato. La famiglia è sempre più
lontana da Torino, volutamente. La Fiat si prepara a lunghe
sospensioni produttive a Mirafiori e a Grugliasco. L’ombra dell’Imbraco si
allunga sugli ultimi rimasugli, ma ancora sostanziosi, della Fiat a Torino. In
questo contesto economico sociale regressivo, l’unica legge che vale è quella
dell’antropologo David Graeber:
«più i processi di redistribuzione della ricchezza dal
basso verso l’alto sono iniqui, più necessitano di eventi spettacolari e
autocelebrativi.»
Nella speranza che queste parole possano fermare la stoltezza di un tempo
buio e spensierato, sipario.
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