1. “Quel bastardo è morto”
Elisei
Marcello, di anni 19, muore alle tre di notte, solo come un cane alla catena in
una casa abbandonata. Muore dopo un giorno e una notte di urla, suppliche,
gemiti, lasciato senza cibo né acqua, legato per i polsi e le caviglie a un
tavolaccio in una cella del carcere di Regina Coeli. Ha la broncopolmonite, è
in stato di shock, la cella è gelida. I legacci bloccano la circolazione del
sangue. Da una cella vicina un altro detenuto, il neofascista Paolo Signorelli,
sente il ragazzo gridare a lungo, poi rantolare, invocare acqua, infine il
silenzio. La mattina, chiede lumi su cosa sia accaduto. “Quel bastardo è
morto”, taglia corto un agente di custodia. È il 29 novembre 1959.
Marcello
Elisei stava scontando una condanna a quattro anni e sette mesi per aver rubato
gomme d’automobile. Aveva dato segni di disagio psichico. Segni chiarissimi:
aveva ingoiato chiodi, poi rimossi con una lavanda gastrica; il giorno prima
aveva battuto più volte la testa contro un muro, cercando di uccidersi. I
medici del carcere lo avevano accusato di “simulare”. Le guardie lo avevano
trascinato via con la forza e legato al tavolaccio.
Il
15 dicembre si dimette il direttore del carcere Carmelo Scalia, ufficialmente
per motivi di salute. A parte questo, per la morte di Elisei non pagherà
nessuno. Inchieste e processi scagioneranno tutti gli indagati.
Leggendo
della vicenda, Pier Paolo Pasolini rimane sconvolto. “Non so come avrei scritto
un articolo su questa orribile morte”, dichiara alla rivista Noi donne del 27
dicembre 1959. “Ma certamente è un episodio che inserirò in uno dei racconti
che ho in mente, o forse anche nel romanzo Il rio della grana”. Un romanzo rimasto incompiuto,
poi incluso tra i materiali della raccolta Alì dagli occhi azzurri (1965).Se dovessi scrivere un’inchiesta,
aggiunge, “sarei assolutamente spietato con i responsabili: dai secondini al
direttore del carcere. E non mancherei di implicare le responsabilità dei
governanti”.
L’agonia
e la morte in solitudine di Marcello Elisei scaveranno a lungo dentro Pasolini,
fino a ispirare il finale di Mamma Roma (1962). Ma nel 1959 Pasolini non è
ancora un regista. Ha 37 anni, è autore di raccolte poetiche, sceneggiature e
due romanzi che hanno fatto scalpore: Ragazzi di vita e Una vita violenta. Ha già subìto fermi di polizia,
denunce, processi. Per censurare Ragazzi di vita si è mossa direttamente la
presidenza del consiglio dei ministri. Eppure, a paragone dello stalking
fascista, del mobbing poliziesco-giudiziario e del linciaggio mediatico che
l’uomo sta per subire, questa è ancora poca roba.
Nel
libro collettaneo Pasolini: cronaca giudiziaria,
persecuzione, morte (Garzanti 1977) Stefano Rodotà riassume la
questione in una frase: “Pasolini rimane ininterrottamente nelle mani dei giudici dal 1960
al 1975”. E anche oltre, va precisato. Post mortem. Rodotà parla di “un solo
processo”, lunga catena di istruttorie e udienze che trascinò Pasolini decine e
decine di volte nelle aule di tribunale, perfino più volte al giorno, tra
umiliazioni e vessazioni, mentre fuori la stampa lo insultava, lo irrideva, lo
linciava.
2. Il giornalismo libero
“Siamo
ovviamente d’accordo contro l’istituzione della polizia”.
L’uomo
che nel giugno 1968 scrive questo verso ha già sulle spalle quattro fermi di
polizia, 16 denunce e undici processi come imputato, oltre a tre aggressioni da
parte di neofascisti (tutte archiviate dalla magistratura) e una perquisizione
del proprio appartamento da parte della polizia in cerca di armi da fuoco.
“Appena avrò un po’ di tempo”, scrive in un appunto inedito, “pubblicherò un
libro bianco di una dozzina di sentenze pronunciate contro di me: senza
commento. Sarà uno dei libri più comici della pubblicistica italiana. Ma ora le
cose non sono più comiche. Sono tragiche, perché non riguardano più la
persecuzione di un capro espiatorio […]: ora si tratta di una vasta, profonda
calcolata opera di repressione, a cui la parte più retriva della Magistratura si
è dedicata con zelo…”. E ancora: “Ho speso circa quindici milioni in avvocati,
per difendermi in processi assurdi e puramente politici”.
Oggi
è difficile, quasi impossibile cogliere la portata della persecuzione subita
ogni giorno da Pasolini in 15 anni. La mostra Una strategia del linciaggio e delle mistificazioni,
inaugurata nel 2005 e da poco riallestita alla sala Borsa di Bologna,
restituisce appena tenui riverberi. Non può che essere così, per capire
bisognerebbe calarsi nell’abisso – come ha fatto Franco Grattarola, autore di Pasolini. Una vita violentata (Coniglio
2005) – e ripercorrere la sfilza dei pestaggi a mezzo stampa. Toccare con le
dita un’omofobia da sporcarsi solo a immaginarla. Soppesare l’intero corpus
fradicio di articoli, denso come un grande bolo di sterco e vermi.
Tra
i quotidiani si fa notare soprattutto Il Tempo, ma è la stampa periodica di
destra a tormentare Pasolini in maniera teppistica e ininterrotta. Rotocalchi
come Lo Specchio e Il Borghese si dedicano alla missione con entusiasmo, con
reporter e corsivisti distaccati a tallonare la vittima, a provocarla, a
colpirla in ogni occasione, con titoli come “Il c..o batte a sinistra” e lo
stile inconfondibile oggi ereditato da Libero – per citare una sola testata.
Sulle
pagine del Borghese si distinguono nel killeraggio il critico musicale Piero
Buscaroli e il futuro autore e regista televisivo Pier Francesco Pingitore,
fondatore del Bagaglino. Altre invettive giungono dallo scrittore Giovannino
Guareschi e, in un’occasione, dal critico cinematografico Gian Luigi Rondi, ma
la regina dell’antipasolinismo è senza dubbio Gianna Preda, pseudonimo di Maria
Giovanna Pazzagli Predassi (1922-1981), poi cofondatrice – indovinate – del
Bagaglino.
Celebrata
ancora oggi su un blog di destra come “la signora del giornalismo libero”,
“fuori dal coro”, “mai moralista né oscurantista” e via ritinteggiando, Preda
coltiva nei confronti di Pasolini un’autentica ossessione omofobica,
sessuofobica e – ça va sans dire –
ideologica. Sovente si riferisce allo scrittore/regista chiamandolo “la
Pasolina”. Per gli omosessuali, descritti come artefici di loschi complotti,
conia il termine “pasolinidi”. Va avanti per anni – proseguendo anche dopo la
morte di PPP – a scrivere cose del genere:
[Pasolini]
ha potuto, con immutata disinvoltura, continuare a confondere le questioni del
bassoschiena con quelle dell’antifascismo […] Una segreta alleanza […] fa dei
‘capovolti’ il partito più numeroso e saldo d’Italia; un partito che,
attraverso i suoi illustri esponenti, finisce sempre col far capo o col rendere
servizi al Pci […] Il ‘capovolto’ sente, a naso, quel che gli conviene e dove
deve appoggiarsi, se non vuole rendere conto all’opinione pubblica di quello
che essa giudica ancora un vizio […] Così nasce un nuovo mito… [A celebrarlo]
pensano poi i giornali di sinistra, che riescono a camuffare da eroismo la
paura segreta di questo o quel ‘capovolto’ clandestino. Luminose saranno le
sorti dei pasolinidi d’Italia. Già si avvertono i segni delle fortune di coloro
che hanno scoperto troppo tardi il vantaggio d’esser pasolinidi […] Se avremo,
dunque, nuovi scontri con i marxisti […] prima di pensare a coprirci il petto,
preoccupiamoci di coprirci le terga…
Il
“metodo Boffo” giunge da lontano. E anche i complottismi sulla malvagia “teoria
del gender”.
L’equivalente
di Gianna Preda sullo Specchio è lo scrittore ex repubblichino Giose Rimanelli,
celato dietro il nom de plume A.
G. Solari. Com’è ovvio, attacchi forsennati a Pasolini giungono anche dal
Secolo d’Italia, ma un lavorìo più subdolo e influente di character assassination ha
luogo sulla stampa popolare nazionalconservatrice, quella di riviste come Oggi
e Gente.
Si
va molto più in là, purtroppo. Pasolini sembra essere la cartina di tornasole
del peggio. Nel 1968 il regista Sergio Leone, interpellato dal Borghese, sente
l’urgenza di commentare così le polemiche sul film Teorema: “Sono convinto che tanti film sull’omosessualità
hanno fatto diventare del tutto normale e legittima questa forma di rapporto
anormale”. Perfino su Il manifesto si trovano battute omofobe: “La tesi [di
Pasolini] ridotta all’osso (sacro) è molto chiara…” (21 gennaio 1975). Come ha
scritto Tullio De Mauro:
I
fiotti neri finiscono con l’inquinare anche acque relativamente lontane. Il
linguaggio verbale non è fatto solo di ciò che diciamo e udiamo. È fatto anche
di ciò che, nella memoria comune, circonda e alona il detto e l’udito. Il
non-detto pesa accanto al detto, ne orienta l’apprezzamento e intendimento. Chi
legge nell’Espresso del 18 febbraio 1968 il pezzo Pasolini benedice i nudisti con foto di
giovanotto ciociaro nudo a cavallo di violoncello, è coinvolto dagli effetti
del fiotto nero d’origine fascista, gli piaccia o no e lo volessero o no i
redattori del settimanale radical-socialista.
È
una vasta campagna a favorire, o meglio, istigare non solo le azioni
poliziesche e giudiziarie, ma anche le aggressioni fisiche da parte di
fascisti. Fascisti mai toccati dalla magistratura, che poi finiranno in diverse
inchieste sulla strategia della tensione, come Serafino Di Luia, Flavio Campo e
Paolo Pecoriello.
Il
13 febbraio 1964, davanti alla Casa dello studente di Roma, una Fiat 600 cerca
di investire un gruppo di amici di Pasolini che difendevano quest’ultimo da un
agguato fascista. A guidare l’auto è Adriano Romualdi, discepolo di Julius
Evola e figlio di Pino, deputato e presidente del Movimento sociale italiano
(Msi). L’episodio è riportato con dettagli e fonti in tutte le biografie di
Pasolini, mentre è assente dalla voce che Wikipedia dedica a Romualdi.
Pasolini
non querela, né per le diffamazioni a mezzo stampa né per le aggressioni
fisiche. È una scelta meditata: non vuole abbassarsi al livello dei suoi
persecutori. Inoltre, se querelasse non farebbe che aumentare la già enorme
quantità di tempo che trascorre in tribunale.
3. Come mai?
Come
mai una simile persecuzione? Perché era omosessuale? Tra gli artisti e gli
scrittori non era certo l’unico. Perché era omosessuale e comunista? Sì, ma
nemmeno questo basta. Perché era omosessuale, comunista e si esprimeva senza
alcuna reticenza contro la borghesia, il governo, la Democrazia cristiana, i
fascisti, la magistratura e la polizia? Sì, questo basta. Sarebbe bastato
ovunque, figurarsi in Italia e in quell’Italia.
La
borghesia italiana si è vendicata e, in modi più obliqui, continua a
vendicarsi. La fandonia di “Pasolini che stava con la polizia”, ripetuta dai
fascisti, dai perbenisti e dai falsi anticonformisti di oggi, prosegue la révanche dei fascisti, dei
perbenisti e dei falsi anticonformisti di ieri.
Anche
l’apologia postuma di un Pasolini semplificato, appiattito, lucidato e ridotto
a santino fa parte della révanche.
4. “Non potranno mentire in eterno”
Nel
marzo 1960 Fernando Tambroni, già ministro dell’interno e poi del bilancio,
diventa capo di un governo monocolore Dc. L’esecutivo si forma grazie ai voti
dei parlamentari missini. Appena quindici anni dopo la liberazione, una forza
neofascista si avvicina all’area di governo. Proteste e disordini esplodono in
tutto il paese. Il 30 giugno, decine di migliaia di manifestanti si scontrano
con la polizia a Genova, città operaia e partigiana scelta dall’Msi per il suo
congresso. Il 7 luglio, a Reggio Emilia, polizia e carabinieri sparano su una
manifestazione sindacale uccidendo cinque persone. Il 19 luglio, Tambroni si
dimette.
La
rivista Vie nuove – su cui Pasolini tiene una rubrica dove dialoga con i
lettori – produce all’istante un disco sull’eccidio di Reggio Emilia. Si tratta
della registrazione della sparatoria. Su Vie nuove, anno XV, numero 33, del 20
agosto 1960, Pasolini commenta: “Quello che colpisce […] è la freddezza
organizzata e meccanica con cui la polizia ha sparato: i colpi si succedono ai
colpi, le raffiche alle raffiche, senza che niente le possa arrestare, come un
gioco, quasi con la voluttà distratta di un divertimento”.
Sono
i giorni del processo al criminale nazista Eichmann, e Pasolini collega le due
storie:
Egli
uccideva così, con questo distacco freddo e preveduto, con questa dissociazione
folle. È da prevedere che le giustificazioni dei poliziotti […] saranno del
tutto simili a quelle già ben note… Anch’essi parleranno di ordini, di dovere
ecc. […] La polizia italiana… si configura quasi come l’esercito di una potenza
straniera, installata nel cuore dell’Italia. Come combattere contro questa potenza
e questo suo esercito? […] Noi abbiamo un potente mezzo di lotta: la forza
della ragione, con la coerenza e la resistenza fisica e morale che essa dà. È
con essa che dobbiamo lottare, senza perdere un colpo, senza desistere mai. I
nostri avversari sono, criticamente e razionalmente, tanto deboli quanto sono
poliziescamente forti: non potranno mentire in eterno.
Nel
1961 Pasolini gira il suo primo film, Accattone. In un paese dove si legge pochissimo, il
cinema è potenzialmente più pericoloso della letteratura.
La riprovazione borghese, la censura e la repressione scatenate dai film di Pasolini (tutti, nessuno escluso) saranno incommensurabilmente maggiori di quelle scatenate dai libri e dagli articoli. Se poi in un film riemerge la storia di come morì Marcello Elisei…
La riprovazione borghese, la censura e la repressione scatenate dai film di Pasolini (tutti, nessuno escluso) saranno incommensurabilmente maggiori di quelle scatenate dai libri e dagli articoli. Se poi in un film riemerge la storia di come morì Marcello Elisei…
Nel
1962, il finale di Mamma Roma –
film che scatena violenze fasciste ed è subito proibito dalla censura – mostra
il giovane Ettore che muore in prigione, gemente, febbricitante e invocante la
mamma, legato in mutande e canottiera a un letto di contenzione. “Aiuto, aiuto,
perché mi avete messo qua?… Non lo faccio più, lo giuro, non lo faccio più… So’
bono, adesso… Mamma, sto a mori’ de freddo… Sto male… Mamma!… Mamma, sto a
mori’… È tutta notte che sto qua… Nun je ‘a faccio più…”.
Il
31 agosto 1962 il tenente colonnello Giulio Fabi, comandante del gruppo
carabinieri di Venezia, denuncia Mamma Roma per oscenità e si premura di
aggiungere: “Si fa presente che l’autore e regista Pasolini e uno degli
interpreti, il Citti, dovrebbero avere precedenti penali presso il tribunale di
Roma”. Tra coloro che seguono e apprezzano Pasolini circola l’ipotesi che a
irritare l’arma sia stato il finale del film.
Da
qui in avanti, Pasolini è investito da un’onda d’urto censoria e repressiva che
non ha corrispettivi nella carriera di altri artisti italiani.
5. “Distruggere il Potere”
Ecco
il senso dell’avverbio “ovviamente”, usato da Pasolini per rafforzare una
premessa che ritiene importante. È del tutto ovvio che PPP sia contro
l’istituzione della polizia.
Ancora
più ovvio il verso che segue: “Ma provate a prendervela con la magistratura, e
vedrete!”. Quella magistratura che tanto ha perseguitato, continua e continuerà
a perseguitare Pasolini, anche dopo la morte.
È
a partire da questa posizione che l’autore della poesia Il Pci ai giovani affida a un
mucchio di “brutti versi” – definizione sua – una riflessione confusa, che
deraglia subito e diventa uno sfogo, un’invettiva antiborghese. Come scriverà
poco dopo: “Sono troppo traumatizzato dalla borghesia, e il mio odio verso di
lei è ormai patologico”.
Ma
per quanto l’invettiva possa essere brutta sul piano formale e carente di focus
nei contenuti, dopo averla letta tutta (tutta intera, non solo i 4-5 versi
estrapolati e branditi come randelli da questo o quello scagnozzo) è difficile
concludere che “Pasolini stava con la polizia”.
Pasolini
descrive i poliziotti che si sono scontrati con gli studenti a Valle Giulia
come “umiliati dalla perdita della qualità di uomini / per quella di
poliziotti”. L’istituzione della polizia disumanizza. Per questo gli studenti –
“quei mille o duemila giovani miei fratelli / che operano a Trento o a Torino,
/ a Pavia o a Pisa, / a Firenze e un po’ anche a Roma” – sono comunque “dalla
parte della ragione” e la polizia “dalla parte del torto”. Se non si capisce
questo, non si coglie l’intento paradossale di Pasolini. Il paradosso gli serve
a precisare che la vera rivoluzione non la faranno mai gli studenti, perché
sono figli di borghesi. Al massimo potranno fare una “guerra civile”, in questo
caso generazionale, in seno alla borghesia. La rivoluzione, dice Pasolini,
possono farla solo gli operai, ai quali la grande stampa borghese non leccherà
mai il culo, come invece – nell’iperbole pasoliniana – sta facendo con gli
studenti. Sono gli operai il vero pericolo per il potere capitalistico, dunque
saranno loro a subire la repressione poliziesca più pesante: “La polizia si
limiterà a prendere un po’ di botte dentro una fabbrica occupata?”, si chiede
retoricamente l’autore. Quindi, è proprio là che dovranno trovarsi gli
studenti, se vogliono essere rivoluzionari: tra gli operai. “I Maestri si fanno
occupando le Fabbriche / non le università”. Ma soprattutto, gli studenti
devono riprendere in mano “l’unico strumento davvero pericoloso / per
combattere contro i [loro] padri: / ossia il comunismo”. Pasolini li invita a
impadronirsi del Pci, partito che ha “l’obiettivo teorico” di “distruggere il
Potere” (quell’estinzione dello stato che Marx pone a obiettivo finale della
lotta di classe e del socialismo) ma è finito in indegne mani, le mani di
“signori in modesto doppiopetto”, “borghesi coetanei dei vostri stupidi padri”.
Occupare le federazioni del Pci, dice Pasolini, aiuterebbe il partito a
“distruggere, intanto, ciò che di borghese ha in sé”.
Questa
esortazione occupa tutta la seconda metà del testo, ma – guarda caso – non
viene mai citata.
Lo
so, ti gira la testa. Ti avevano detto che Il Pci ai giovani parlava bene della repressione
poliziesca. Hai sentito versi di questa poesia citati da pubblici ministeri
mentre chiedevano pene pesantissime per i No Tav. Li hai uditi dalle labbra di
Belpietro. Li hai letti nei comunicati del Sap e del Coisp…
6. Un infame mantra
Il Pci ai giovani fu
attaccata subito, e non solo dagli studenti che criticava. Franco Fortini
riempì Pasolini di insulti. Sotto il cumulo di quegli insulti, le critiche
erano giuste. Pasolini provò a spiegarsi, cercando di non rimangiarsi il
paradosso. Quei versi erano “brutti” perché non erano bastati “da soli a
esprimere ciò che l’autore [voleva] esprimere”. Erano versi “’sdoppiati’, cioè
ironici, autoironici. Tutto è detto tra virgolette”. Parlò di “boutade”, di “captatio malevolantiae”, ma non arretrò mai dal punto
che aveva scelto e deciso di difendere: l’invito agli studenti a “operare
l’ultima scelta ancora possibile […] in favore di ciò che non è borghese”.
Ma
ormai la frittata era fatta e sarebbe rimasta a fumigare in padella per i
quarant’anni e passa a venire, per la gioia di “postfascisti”, ciellini,
sindacati gialli, teste da talk-show, scrittori tuttologi esternazionisti,
commentatori pavloviani.
Ogni
volta che si manifesta il conflitto sociale e la polizia interviene a
reprimerlo riparte, come lo ha chiamato un cattivo maestro, “l’infame mantra”
su Pasolini che stava con la polizia e i manganelli. Con quel mantra si è
giustificato ogni ricorso alla violenza da parte delle forze dell’ordine.
Bastonate, candelotti sparati in faccia, gas tossici, l’uccisione di Carlo
Giuliani, l’irruzione alla scuola Diaz di Genova, la solidarietà di corpo agli
assassini di Federico Aldrovandi eccetera. Periodicamente, frasi
decontestualizzate sui manifestanti “figli di papà” e i poliziotti proletari
sono usate contro precari, sfrattati o popolazioni che si oppongono alla
devastazione del proprio territorio.
Ho
però il sospetto che il mantra si sia imposto solo a partire dagli anni
novanta, insieme a certe “appropriazioni” del pensiero di Pasolini.
Sicuramente, nel periodo 1968-75 nessun detentore del potere, nessun membro del
blocco d’ordine lesse quei versi come davvero apologetici della repressione.
Basti vedere come proseguirono i rapporti tra Pasolini, la polizia e la
magistratura, e come si evolsero quelli tra Pasolini, il movimento studentesco
e le sinistre extraparlamentari.
7. “Propaganda antinazionale”
Nell’agosto
1968, due mesi dopo la polemica su Il Pci ai giovani, Pasolini partecipa alla
contestazione contro la Mostra d’arte cinematografica di Venezia, occupa il
palazzo del cinema al Lido, subisce lo sgombero poliziesco e si prende
l’ennesima denuncia. Sarà processato insieme ad altri registi, con l’accusa di
aver “turbato l’altrui pacifico possesso di cose immobili”. Verrà assolto
nell’ottobre 1969.
Sulla
rivista Tempo, anno XXX, numero 39, del 21 settembre 1968, la rubrica Il Caos
tenuta da Pasolini contiene una “Lettera al Presidente del Consiglio”, che in
quei giorni è Giovanni Leone, non ancora “quirinato” né impeached. Lo scrittore accusa il
capo del governo per la repressione a Venezia. Quanti credono che Pasolini
fosse contro il ‘68 e i contestatori trasecolerebbero leggendo questo passaggio
(corsivo mio):
Nel
’44-’45 e nel ’68, sia pure parzialmente, il popolo italiano ha saputo cosa
vuol dire – magari solo a livello pragmatico – cosa siano autogestione e
decentramento, e ha vissuto, con violenza, una pretesa, sia pure indefinita, di
democrazia reale. La Resistenza e il Movimento
Studentesco sono le due uniche esperienze democratiche-rivoluzionarie del
popolo italiano. Intorno c’è silenzio e deserto: il qualunquismo,
la degenerazione statalistica, le orrende tradizioni sabaude, borboniche,
papaline.
Leone
risponde arzigogolando, Pasolini continua a mirare diritto e sul numero 41 del
5 ottobre 1968 ribadisce: “Io ero presente, quella notte. E ho visto coi miei occhile violenze della
polizia”.
Due
mesi dopo, sul numero 52 del 21 dicembre 1968, Pasolini commenta l’ennesimo
eccidio per mano poliziesca – due braccianti crivellati di colpi ad Avola, in
Sicilia – e sostiene la proposta, fatta da un Pci ancora lontano dall’appoggio
alle leggi speciali, di disarmare la polizia:
Disarmare
la polizia significa infatti creare le condizioni oggettive per un immediato
cambiamento della psicologia del poliziotto. Un poliziotto disarmato è un altro
poliziotto. Crollerebbe di colpo, in lui, il fondamento della ‘falsa idea di
sé’ che il Potere gli ha dato, addestrandolo come un automa.
In
una puntata della rubrica rimasta inedita e ritrovata da Gian Carlo Ferretti,
Pasolini risponde a una lettrice di destra, tale Romana Grandi, che gli ha
inviato un volantino dell’Msi-Dn pieno di ingiurie nei confronti suoi e di
altri intellettuali: “Un piccolo sforzo potrebbe pur farlo, visto che scrive e
riscrive di essere una lavoratrice: non si
è accorta che coloro che sono colpiti dalla polizia sono i lavoratori (e gli
studenti che lottano accanto ai lavoratori)?”.
Pasolini,
Moravia, Maraini, Asor Rosa e altri intellettuali firmano un appello “contro l’ondata
repressiva”. Sul Borghese del 28 dicembre 1969, Alberto Giovannini coglie la
palla al balzo e scrive:
Tra
gli arrestati, oltre al Valpreda, uso a voltare la schiena non solo all’odiata
borghesia ma anche agli amati giovinetti, vi sono molti ‘travestiti’ e
‘checche’; e il fatto non può lasciare indifferente P. P. Pasolini, che dei
capovolti di tutta Italia è, di certo, il padre spirituale, visto che la natura
ingrata […] non gli ha consentito di esserne la madre.
Sul
numero 2, anno XXXII, di Tempo, del 10 gennaio 1970, Pasolini si rivolge al
deputato socialdemocratico Mauro Ferri e scrive:
L’estremismo
dei gruppi minoritari ed extraparlamentari di sinistra non ha portato in nessun
modo (è infame solo pensarlo) alla strage di Piazza Fontana: esso ha portato
alla grande vittoria dei metalmeccanici. Prima che Potere Operaio e gli altri gruppi minoritari
extra-partitici agissero, i sindacati dormivano.
Dal
1 marzo 1971, per due mesi, Pasolini si presta a fare il direttore responsabile
del giornale Lotta Continua, accettando il rischio di essere inquisito,
rinviato a giudizio e processato per i contenuti del giornale. Cosa che succede
il 18 ottobre dello stesso anno, per avere “istigato militari a disobbedire le
leggi […], svolto propaganda antinazionale e per il sovvertimento degli
ordinamenti economici e sociali costituiti dallo Stato [e] pubblicamente
istigato a commettere delitti”. Pena massima prevista dal codice: 15 anni di
reclusione. Testimoni per l’accusa: ufficiali, sottufficiali e agenti della
pubblica sicurezza e dei carabinieri.
Dopo
questo rinvio a giudizio, in spregio a qualsivoglia presunzione d’innocenza, la
Rai blocca la messa in onda del programma di Enzo Biagi Terza B: facciamo l’appello. Oggi
è una delle più famose apparizioni televisive di Pasolini, ma molti non sanno
che fu censurata e andò in onda solo dopo la sua morte, cinque anni dopo essere
stata registrata.
Nel
frattempo, per chiedere – e il più delle volte ottenere – il sequestro delle
opere di Pasolini agiscono in prima persona membri delle forze dell’ordine. A
Bari, l’ispettrice di polizia Santoro segnala l’oscenità “orripilante” del film Decameron. Ad Ancona, contro la
medesima pellicola sporge denuncia l’ispettore forestale Lorenzo Mannozzi
Torini, secondo Wikipedia un “pioniere della tartuficoltura”.
Certamente
provato ma per nulla intimidito, Pasolini finanzia e gira insieme al collettivo
cinematografico di Lotta continua (Lc) un documentario-inchiesta su piazza
Fontana e sullo stato delle lotte in Italia. Sceneggiato da Giovanni Bonfanti e
Goffredo Fofi, il documentario esce nel 1972 con il titolo 12 dicembre e la dicitura “Da
un’idea di Pier Paolo Pasolini”.
Ancora
nel novembre 1973, quando il rapporto con Lc è teso e sull’orlo della rottura,
Pasolini dichiara: “I ragazzi di Lotta continua sono degli estremisti,
d’accordo, magari fanatici e protervamente rozzi dal punto di vista culturale,
ma tirano la corda e mi pare che, proprio per questo, meritino di essere
appoggiati. Bisogna volere il troppo per ottenere il poco”.
8. “Le nostre vecchie conoscenze”
L’ultima
stagione, quella “corsara” e “luterana”, è segnata dalla reiterata, implacabile
richiesta di un grande processo alla Democrazia cristiana, ai suoi dirigenti e
notabili, ai complici delle sue politiche.
Dopo Il Pci ai giovani, sono alcune
formule-shock del Pasolini 1974-75 a detenere il primato delle
decontestualizzazioni e delle letture strumentali.
Per
esempio, si estrapolano paradossi come “il fascismo degli antifascisti” per
difendere le adunate di estrema destra, guardandosi bene dal dire che Pasolini
usava l’espressione per attaccare l’ipocrisia del cosiddetto arco
costituzionale, l’insieme dei partiti al potere, quelli che – dice in
un’intervista del giugno 1975 – “continueranno a organizzare altri assassinii e
altre stragi, e dunque a inventare i sicari fascisti; creando così una tensione
antifascista per rifarsi una verginità antifascista, e per rubare ai ladri i
loro voti; ma, nel tempo stesso, mantenendo l’impunità delle bande fasciste che
essi, se volessero, liquiderebbero in un giorno”.
Senza
il contesto cosa rimane? Una manciata di immagini – le lucciole, la fine del
mondo contadino, i corpi omologati dei capelloni – ridotte a cliché e rese
innocue. Rimane il “mito tecnicizzato” di uno pseudoPasolini light e lactose-free, propinato dalla stessa
cultura dominante che perseguitò Pasolini, dagli eredi giornalistici dei suoi
diffamatori e dagli eredi politici di chi lo aggrediva per strada.
L’8
ottobre 1975, sul Corriere della Sera, Pasolini commenta la messa in onda di Accattone da parte della Rai.
Nel suo film d’esordio, scrive, metteva in scena due fenomeni di continuità tra
regime fascista e regime democristiano: “Primo, la segregazione del
sottoproletariato in una marginalità dove tutto era diverso; secondo, la
spietata, criminaloide, insindacabile violenza della polizia”.
Riguardo
al primo fenomeno, scrive Pasolini, la società dei consumi ha “integrato” e
omologato anche i sottoproletari, le loro abitudini, i loro corpi. Ergo, il
mondo rappresentato in Accattone è
finito per sempre.
È
trascorso poco tempo, ma quelle parti di Roma sono cambiate. Pasolini le
attraversa e dietro ogni
incrocio, dietro ogni
edificio, dietro ogni
capannello di giovani vede – in una sovrapposizione lievemente sfasata –
com’erano l’incrocio, l’edificio e quei giovani solo poco tempo prima. Tutto è
in apparenza simile, ma la tonalità emotiva è alterata, la nota di fondo è
irriconoscibile. Per un potente resoconto psicogeografico su tale “doppiezza”
rimando alla passeggiata del Merda in Petrolio, Appunti 71-74a.
Ma
cosa dice Pasolini del secondo fenomeno di continuità tra regime fascista e
regime democristiano? “Su questo punto c’intendiamo subito tutti”, scrive, e sa
di essere provocatorio. Sta parlando ai lettori del Corsera, è implausibile che
tutti siano d’accordo nel ritenere “spietata” e “criminaloide” la violenza
della polizia.
Ma
l’autore è adamantino: “È inutile spendere parole. Parte della polizia è ancora
così”. Segue un riferimento alla polizia spagnola, la guardia civil del regime
franchista. Riferimento oggi incomprensibile, se non si sa cosa accadeva in
Spagna in quei giorni. Ecco un titolo da l’Unità del 5 ottobre 1975: “Tortura a
Madrid. / È stata usata dalla polizia franchista in modo sistematico contro non
meno di 250 baschi. – Le conclusioni di un’inchiesta di Amnesty International –
Testimonianze agghiaccianti”.
Il
passaggio è rapido, ma non superficiale. Ci mostra un altro “doppio mondo”
sfasato. Nella polizia fascista di Madrid e Barcellona, scrive Pasolini,
rivediamo la nostra polizia, “le nostre vecchie conoscenze in tutto il loro
squallido splendore”.
9. L’uomo che sorride
Tre
settimane dopo, la notte tra il 1 e il 2 novembre, il corpo di Pasolini giace
nel fango di Ostia, massacrato, ridotto a un unico cencio intriso di sangue.
Ora,
per chiudere, prendo in prestito le parole di Roberto Chiesi:
Se
guardate tra le terribili foto del ritrovamento del cadavere di Pasolini, ce
n’è una, forse la più terribile, che mostra il corpo rovesciato e martoriato,
con intorno alcuni inquirenti e poliziotti seduti sulle ginocchia. In
particolare c’è un poliziotto seduto accanto al cadavere di Pasolini, che
sorride. La foto lo mostra in maniera inequivocabile: è un sorriso di scherno,
di disprezzo. Questa immagine può essere presa a campione di tutta un’Italia
deteriore, da rifiutare, condensata in quell’immagine in bianco e nero, apparsa
sulle prime pagine di tanti giornali dell’epoca.
Pasolini
continuava a essere contro la polizia, la polizia continuava a essere contro
Pasolini.
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