lunedì 30 settembre 2013

Slawomir Mrozek – L’elefante

Slawomir Mrozek è morto da poco (l’avevo ricordato qui), e ho ri-scoperto che a casa c’è “L’elefante”, un suo libro che ho da tanti anni(25, 30?) e non rileggevo da allora
L’ho ripreso in mano e ho letto ogni racconto, piano piano, i più “deboli” sono bellissimi, gli altri perfetti (dice JL Borges che il dubbio è uno dei nomi dell’intelligenza, umorismo e satira sono altri nomi, dico io)
A volte quando un libro ti piace molto lo leggi quasi con avidità, per vedere come finisce (questo metodo funziona con i romanzi), altre volte lentamente, come quando da bambino il gelato quasi si scioglieva sul cono, prima di finirlo (quest’altro metodo funziona con i libri di poesie, di racconti e di aforismi).
Di questo libro godetene lentamente, non vi deluderà - franz

Ps: QUI trovate il racconto che da il titolo al libro, se non vi piace non so cosa fare, fatevi vedere da qualcuno, ne avete bisogno.


…I bersagli principali dell’umorismo sfrenato di Mrożek sono la burocratizzazione e la retorica dei regimi, nella fattispecie di quello stalinista che ebbe modo di sperimentare in Polonia, sebbene i suoi scritti, proprio per la capacità di cogliere il ridicolo nell’esistenza, possano essere benissimo adattati a tutti i totalitarismi e più in generale alle ideologie quando riducono l’uomo a marionetta utile solo se inglobata in un Comitato, in un’Assemblea, in un Circolo. Mrożek, però, non sceglie la strada dell’attacco diretto, ma attraverso i suoi racconti surreali riesce a farci ridere e riflettere, estremizzando certi comportamenti umani ma anche con una più sottile ironia percepibile nelle singole frasi dei racconti…

Tutte le volte che ho preso in mano un libro di Slawomir Mrozek davanti a terzi mi sono trovato ad ascoltare queste frasi: “intellettuale”, “mitteleuropa”, “questa moda della mitteleuropa”, “nome impronunciabile”, “comunista sovietico”, “ma te lo inventi tu? sei sicuro che esiste?”, “ma non leggi mai roba normale? sempre e solo cose da intellettuali, ma tu cosa ti credi di essere?”.
E’ da allora, dalla terza volta che mi è capitato, che leggo i libri di Slawomir Mrozek solo di nascosto, ben occultato, in angoli bui, con molta fatica, ogni volta guardando bene in giro che non ci sia nessuno a spiarmi, e stando bene attento a non ridere troppo forte per non farmi beccare. 
Poveretti! Non sanno cosa si perdono...


sabato 28 settembre 2013

Il passeggero - Bertolt Brecht

Il passeggero

Quando anni fa imparai
a guidare la macchina, il mio istruttore mi imponeva
di fumare un sigaro; e se
nel groviglio del traffico o in curve strette
si spegneva, lui mi spingeva via dalla guida. Durante
la corsa raccontava anche barzellette e se io,
troppo intento alla guida, non ridevo, mi strappava
il volante di mano. Mi sento insicuro, diceva.
Io, passeggero, mi spavento se vedo
che il guidatore dell’auto è troppo intento
alla guida.

Da allora quando lavoro
mi guardo bene dallo sprofondarmi troppo in quello che faccio.
Mi impongo più d’una volta di guardarmi in giro,
talora interrompo il lavoro per conversare con qualcuno.
Mi sono disabituato ad andare così forte
da non poter fumare. Penso
al passeggero.

undicesimo comandamento (almeno per me)

Una volta, alla presentazione di un suo libro, uno scrittore che mi piace, rispondendo a una domanda trabocchetto su come giudicasse un suo amico finito in cella, ha detto: “Prima di giudicare una persona, bisogna camminare tre giorni nella sue scarpe. Io non so nemmeno che mocassini usa, che libri legge, da anni l’avevo perso di vista. Ma so che è più facile scegliere tra il bene e il male, tra la cosa giusta e quella sbagliata, se non si mette al primo posto il proprio tornaconto. Chi ha un pensiero per gli altri sbaglia meno” - Piero Colaprico, da “Manuale di sopravvivenza per immigrati clandestini”

giovedì 26 settembre 2013

E’ ora di cambiare la Costituzione

“I genitori non ce la fanno a pagare la quota della mensa e i Comuni bloccano il servizio. 400 a Vigevano, 69 a Fino Mornasco, in provincia di Como, 250 a Mantova, mentre a Vercelli 500 rinunciano a iscriversi. Sono i primi numeri di un fenomeno destinato a espandersi. Bambini di scuole primarie e dell'infanzia esclusi dalle mense dei loro istituti. "Colpevoli" di non aver pagato la retta per la refezione scolastica negli anni precedenti, e perciò "vittime" delle politiche di rigore del proprio Comune. Perché se non paghi il servizio, non puoi mangiare il pasto caldo come i tuoi compagni di classe e si aprono due possibilità: portarti il cibo da casa e consumarlo in un'altra aula , dove i "morosi" vengono collocati, o lasciare la scuola all'ora di pranzo.

“…in alcune città, come testimonia un recente rapporto di Save The Children, l'esenzione non è addirittura  prevista.
"In quei casi ci sono i consorzi di assistenza sociale. In qualunque momento il genitore può rivolgersi a loro e ottenere l'esenzione dal pagamento della retta. I veri bisognosi e gli indigenti riceveranno tutta l'assistenza necessaria. Gli altri invece...".
Si riferisce a chi vuole fare il furbo, a chi elude la retta non per necessità?
"Esattamente. I cittadini morosi non solo sono le famiglie che non ce la fanno ad arrivare a fine mese. Sono anche i furbetti, quelli che nonostante abbiano ricevuto solleciti su solleciti dal Comune, con inviti alla rateizzazione del debito, continuano a non presentarsi. Questa è una pratica che lede i diritti di tutti ed è dannosa per tutta la popolazione".
Ma a rimetterci in questo caso sono i bambini. Sono loro che pagano per tutti. Non si potrebbe trovare un modo per garantire comunque loro un pasto caldo, magari tagliando da qualche altra parte?
"Questa è una valutazione ingenerosa. Le assicuro che un sindaco è pronto a tutto prima di arrivare a tagliare sulle mense scolastiche o sui servizi socio-assistenziali. Si chiede, ad esempio, se si possono tagliare le indennità dei primi cittadini o degli assessori? È una domanda lecita. La risposta è semplice: certo che si può. Ma non è dignitoso. Il nostro è uno stipendio assolutamente non congruo rispetto all'enorme carico di responsabilità che abbiamo. Il problema sta da un'altra parte"...

Leggo i due articoli che riporto sopra e devo dire che non se ne può più, dei furbetti che non pagano la retta della mensa per i figli, e magari spendono i soldi per la ricarica del telefonino o per comprare le sigarette, o magari hanno anche un cane o un gatto.
È veramente diseducativo che dei genitori facciano trovare così male i figli, li facciano soffrire perché dicono che non hanno soldi, che vadano a lavorare, ci siamo tutti stancati di mantenere dei mangiapane a tradimento
E basta  con questo pietismo cattocomunista, i bambini devono imparare da piccoli come funziona il mondo, chi non lavora non mangia, mica siamo il paese dei balocchi.
E se dessimo da mangiare a tutti i bambini gratis, zingari, negri e tutti gli scarti umani verrebbero in Italia, anche con i bambini, ancora più di adesso.
Sarebbe insostenibile per il Paese, signora Contessa.

Queste che avete letto sono le parole che mai scriverò, o penserò, roba da TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio).

Quello che penso è questo, e sono le cose che pensa anche Chance il giardiniere (protagonista di quel film immenso che è “Oltre il giardino” le direbbe al presidente degli Stati Uniti d’America):
ogni Paese è come un orto, e i bambini sono i semi e le piantine, che poi diventeranno cittadini responsabili e orgogliosi, curati con amore durante l’infanzia e l’adolescenza, e produrranno frutti sani e meravigliosi.
ma se gli ortolani, da noi, amano la plastica, i soldi, i concimi chimici e i diserbanti faranno il deserto colturale e culturale, i semi li compreranno da Monsanto, cosa importa loro del ciclo naturale delle stagioni, della salute, della bellezza, della gioia?
ecco che, insieme a Chance il giardiniere, proponiamo che all’articolo 3 della Costituzione italiana si aggiunga il seguente comma:
“Tutti i bambini, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali, hanno diritto a mangiare gratuitamente nelle mense scolastiche della scuola dell’obbligo. I costi sono a carico della fiscalità generale.”

Il grande presidente uruguayano Pepe Mujica, che ama i fiori, il giardinaggio e l’orto queste cose le sa bene, mi ha detto Chance che sono grandi amici e spesso passano le vacanze insieme, nell'orto di Pepe, felici.
Chance è molto pessimista sul nostro Paese, mi ha detto che sta leggendo Gramsci, Pepe gli ha regalato i libri.
Mi ha detto oggi Chance che quella storia dell’ottimismo della volontà, di Gramsci, gli piace molto, solo uno che ha conosciuto la campagna poteva pensare una cosa così semplice e così profonda.

mercoledì 25 settembre 2013

Simon & Garfunkel - concerto a Central Park (1981)

L'intimità - Marco Rovelli (testo di Erri De Luca)



Nel mese di luglio di quell'anno primo
per le strade sopra il mare erano i corpi all'erta 
vedevano salire a schiere giù dal mare anime nere

Agli occhi i cieli cadevano
i fumi accecavano il cammino
ma quelle grida non cancellavano un'intimità

Quando cresce il pericolo aumenta ciò che salva
Quando cresce il pericolo aumenta tutto ciò che salva
Ché dai vili di anima serva, sempre c'è chi diserta
Quando cresce il pericolo, aumenta pure tutto ciò che salva

Lo ha scritto un poeta che non era a Genova
nel mese di luglio di quell'anno primo
era morto da un secolo e mezzo
ma stava con noi nella tempesta

E mi sono salvato con la contraerea dei poeti
E ci siamo salvati con la contraerea dei poeti
E mi sono salvato con lo sguardo teso dei poeti
E ci siamo salvati con lo sguardo teso dei poeti

Cantano i poeti la dimenticanza
cantano il sangue cantano l'erranza
cantano i poeti e non hanno memoria
di qualche utilità e del danno della storia

martedì 24 settembre 2013

Un anno sull'altopiano - Emilio Lussu (una pagina bellissima)



Non si parlava più di nuovi assalti. La calma sembrava ridiscesa per lungo tempo sulla vallata. Dall'una parte e dall'altra, si rafforzavano le posizioni. I zappatori lavoravano tutta la notte. Il cannoncino da 37 continuava a darci fastidi, sempre invisibile. Rimaneva dei giorni interi senza sparare un colpo, poi, improvvisamente, apriva il fuoco contro una feritoia e ci feriva una vedetta.
Il mio battaglione era sempre in linea e attendevamo che il battaglione di rincalzo ci desse il cambio. Io volevo poter dare indicazioni precise al comandante del reparto che mi avrebbe sostituito. Giorno e notte, avevo un servizio speciale di osservazione, nella speranza che il bagliore dello sparo o il movimento dei serventi tradisse l'appostazione del pezzo.
La notte precedente a quella del cambio, poiché il servizio di vigilanza non ci aveva dato alcun risultato, accompagnato da un caporale, io stesso m'ero voluto mettere in osservazione. Il caporale era uscito molte volte di pattuglia, ed era pratico del luogo. La luna rischiarava il bosco e, all'apparire di qualche raro razzo, la luce improvvisa dava un'apparenza di movimento alla foresta. Era difficile capire se si trattasse sempre d'una illusione. Potevano anche essere uomini che si spostassero, non alberi che, per la velocità del passaggio della luce dei razzi attraverso i rami, sembrassero muoversi. Noi due eravamo usciti all'estrema sinistra della compagnia, nel punto in cui le nostre trincee erano piú vicine alie trincee nemiche. Camminando carponi, eravamo arrivati dietro un cespuglio, una decina di metri oltre la nostra linea, una trentina dall'austriaca. Un leggero avvallamento separava le nostre trincee dal cespuglio, e questo coronava un rialzo di terreno dominante la trincea antistante.
Eravamo là immobili, indecisi se avanzare ancora oppure fermarci, quando ci parve di notare un movimento nelle trincee nemiche, alla nostra sinistra. In quel tratto di trincea, non v'erano alberi: non era quindi possibile si trattasse di una illusione ottica. Comunque, noi constatavamo di essere in un punto da cui si poteva spiare la trincea nemica, d'infilata. Un simile posto non l'avevamo ancora scoperto, in nessun altro punto. Decisi perciò di rimanere là tutta la notte, per essere in grado di osservare l'animarsi della trincea nemica, ai primi chiarori dell'alba. Che il cannoncino sparasse o tacesse, mi era ormai indifferente. L'essenziale era mantenere quell'insperato posto di osservazione.
Il cespuglio e il rialzo ci mascheravano e ci proteggevano così bene che decisi di ricollegarli alla nostra linea e di farne un posto clandestino d'osservazione permanente. Rimandai indietro il caporale e feci venire un graduato dei zappatori al quale detti le indicazioni necessarie al lavoro. In poche ore, tra il cespuglio e la nostra trincea, fu scavato un camminamento di comunicazione. Il rumore del lavoro fu coperto dal rumore dei tiri lungo la nostra linea. Il camminamento non era alto, ma consentiva il passaggio al coperto, anche di giorno, ad un uomo che avesse camminato strisciando. La terra scavata fu ritirata indietro nella trincea, e dello scavo non rimasero tracce appariscenti. Piccoli rami freschi e cespugli completarono il mascheramento.
Addossati al cespuglio, il caporale ed io rimanemmo in agguato tutta la notte, senza riuscire a distinguere segni di vita nella trincea nemica. Ma l'alba ci compensò dell'attesa. Prima, fu un muoversi confuso di qualche ombra nei camminamenti, indi, in trincea, apparvero dei soldati con delle marmitte. Era certo la corvée del caffè. I soldati passavano, per uno o per due, senza curvarsi, sicuri com'erano di non esser visti, ché le trincee e i traversoni laterali li proteggevano dall'osservazione e dai tiri d'infilata della nostra linea, Mai avevo visto uno spettacolo eguale. Ora erano là, gli austriaci: vicini, quasi a contatto, tranquilli, come i passanti su un marciapiede di città. Ne provai una sensazione strana. Stringevo forte il braccio del caporale che avevo alla mia destra, per comunicargli, senza voler parlare, la mia meraviglia. Anch'egli era attento e sorpreso, e io ne sentivo il tremito che gli dava il respiro lungamente trattenuto. Una vita sconosciuta si mostrava improvvisamente ai nostri occhi. Quelle trincee, che pure noi avevamo attaccato tante volte inutilmente, così viva ne era stata la resistenza, avevano poi finito con l'apparirci inanimate, come cose lugubri, inabitate da viventi, rifugio di fantasmi misteriosi e terribili. Ora si mostravano a noi, nella loro vera vita. Il nemico, il nemico, gli austriaci, gli austriaci!... Ecco il nemico ed ecco gli austriaci. Uomini e soldati come noi, fatti come noi, in uniforme come noi, che ora si muovevano, parlavano e prendevano il caffè, proprio come stavano facendo, dietro di noi, in quell'ora stessa, i nostri stessi compagni. Strana cosa. Un'idea simile non mi era mai venuta alla mente. Ora prendevano il caffè. Curioso! E perché non avrebbero dovuto prendere il caffè? Perché mai mi appariva straordinario che prendessero il caffè? E, verso le 10 o le 11, avrebbero anche consumato il rancio, esattamente come noi. Forse che il nemico può vivere senza bere e senza mangiare? Certamente no. E allora, quale la ragione del mio stupore?
Ci erano tanto vicini e noi li potevamo contare, uno per uno. Nella trincea, fra due traversoni, v'era un piccolo spazio tondo, dove qualcuno, di tanto in tanto, si fermava. Si capiva che parlavano, ma la voce non arrivava fino a noi. Quello spazio doveva trovarsi di fronte a un ricovero piú grande degli altri, perché v'era attorno maggior movimento. Il movimento cessò all'arrivo d'un ufficiale. Dal modo con cui era vestito, si capiva ch'era un ufficiale. Aveva scarpe e gambali di cuoio giallo e l'uniforme appariva nuovissima. Probabilmente, era un ufficiale arrivato in quei giorni, forse uscito appena da una scuola militare. Era giovanissimo e il biondo dei capelli lo faceva apparire ancora piú giovane. Sembrava non dovesse avere neppure diciott'anni. Al suo arrivo, i soldati si scartarono e, nello spazio tondo, non rimase che lui. La distribuzione del caffè doveva incominciare in quel momento. Io non vedevo che l'ufficiale.
Io facevo la guerra fin dall'inizio. Far la guerra, per anni, significa acquistare abitudini e mentalità di guerra. Questa caccia grossa fra uomini non era molto dissimile dall'altra caccia grossa. Io non vedevo un uomo. Vedevo solamente il nemico. Dopo tante attese, tante pattuglie, tanto sonno perduto, egli passava al varco. La caccia era ben riuscita. Macchinalmente, senza un pensiero, senza una volontà precisa, ma cosí, solo per istinto, afferrai il fucile del caporale. Egli me lo abbandonò ed io me ne impadronii. Se fossimo stati per terra, come altre notti, stesi dietro il cespuglio, è probabile che avrei tirato immediatamente, senza perdere un secondo di tempo. Ma ero in ginocchio, nel fosso scavato, ed il cespuglio mi stava di fronte come una difesa di tiro a segno. Ero come in un poligono e mi potevo prendere tutte le comodità per puntare. Poggiai bene i gomiti a terra, e cominciai a puntare.
L'ufficiale austriaco accese una sigaretta. Ora egli fumava. Quella sigaretta creò un rapporto improvviso fra lui e me. Appena ne vidi il fumo, anch'io sentii il bisogno di fumare. Questo mio desiderio mi fece pensare che anch'io avevo delle sigarette. Fu un attimo. Il mio atto del puntare, ch'era automatico, divenne ragionato. Dovetti pensare che puntavo, e che puntavo contro qualcuno. L'indice che toccava il grilletto allentò la pressione. Pensavo. Ero obbligato a pensare.
Certo, facevo coscientemente la guerra e la giustificavo moralmente e politicamente. La mia coscienza di uomo e di cittadino non erano in conflitto con i miei doveri militari. La guerra era, per me, una dura necessità, terribile certo, ma alla quale ubbidivo, come ad una delle tante necessità, ingrate ma inevitabili, della vita. Pertanto facevo la guerra e avevo il comando di soldati. La facevo dunque, moralmente, due volte. Avevo già preso parte a tanti combattimenti. Che io tirassi contro un ufficiale nemico era quindi un fatto logico. Anzi, esigevo che i miei soldati fossero attenti nel loro servizio di vedetta e tirassero bene, se il nemico si scopriva. Perché non avrei, ora, tirato io su quell'ufficiale? Avevo il dovere di tirare. Sentivo che ne avevo il dovere. Se non avessi sentito che quello era un dovere, sarebbe stato mostruoso che io continuassi a fare la guerra e a farla fare agli altri. No, non v'era dubbio, io avevo il dovere di tirare.
E intanto, non tiravo. Il mio pensiero si sviluppava con calma. Non ero affatto nervoso. La sera precedente, prima di uscire dalla trincea, avevo dormito quattro o cinque ore: mi sentivo benissimo: dietro il cespuglio, nel fosso, non ero minacciato da pericolo alcuno. Non avrei potuto essere piú calmo, in una camera di casa mia, nella mia città.
Forse, era quella calma completa che allontanava il mio spirito dalla guerra. Avevo di fronte un ufficiale, giovane, inconscio del pericolo che gli sovrastava. Non lo potevo sbagliare. Avrei potuto sparare mille colpi a quella distanza, senza sbagliarne uno. Bastava che premessi il grilletto: egli sarebbe stramazzato al suolo. Questa certezza che la sua vita dipendesse dalla mia volontà, mi rese esitante. Avevo di fronte un uomo. Un uomo!
Un uomo!
Ne distinguevo gli occhi e i tratti del viso. La luce dell'alba si faceva piú chiara ed il sole si annunziava dietro la cima dei monti. Tirare cosi, a pochi passi, su un uomo... come su un cinghiale!
Cominciai a pensare che, forse, non avrei tirato. Pensavo. Condurre all'assalto cento uomini, o mille, contro cento altri o altri mille è una cosa. Prendere un uomo, staccarlo dal resto degli uomini e poi dire: "Ecco, sta' fermo, io ti sparo, io t'uccido " è un'altra. È assolutamente un'altra cosa. Fare la guerra è una cosa, uccidere un uomo è un'altra cosa. Uccidere un uomo, cosí, è assassinare un uomo.
Non so fino a che punto il mio pensiero procedesse logico. Certo è che avevo abbassato il fucile e non sparavo. In me s'erano formate due coscienze, due individualità, una ostile all'altra. Dicevo a me stesso: "Eh! non sarai tu che ucciderai un uomo, cosí! "
Io stesso che ho vissuto quegli istanti, non sarei ora in grado di rifare l'esame di quel processo psicologico. V'è un salto che io, oggi, non vedo piú chiaramente. E mi chiedo ancora come, arrivato a quella conclusione, io pensassi di far eseguire da un altro quello che io stesso non mi sentivo la coscienza di compiere. Avevo il fucile poggiato, per terra, infilato nel cespuglio. Il caporale si stringeva al mio fianco. Gli porsi il calcio del fucile e gli dissi, a fior di labbra:
- Sai... cosí... un uomo solo... io non sparo. Tu, vuoi? Il caporale prese il calcio del fucile e mi rispose:
- Neppure io.
Rientrammo, carponi, in trincea. Il caffè era già distribuito e lo prendemmo anche noi.
La sera, dopo l'imbrunire, il battaglione di rincalzo ci dette il cambio.

lunedì 23 settembre 2013

Lettere alla madre – Charles Baudelaire

Charles Baudelaire muore a 46 anni, e il rapporto con la madre è davvero tormentato, non aveva mai soldi, ne aspettava sempre dalla madre, dalle lettere mica capisci che è lo stesso dei capolavori, davvero strano l'artista, traduceva Edgar Allan Poe, è stato pieno di delusioni e tristezze, un altro sarebbe stato un alcolizzato come tanti, lui ci ha lasciato opere eccelse.
una lettura istruttiva - franz




La prima delle lettere raccolte in questo volume è stata scritta da un ragazzo di non ancora tredici anni; l'ultima, da un uomo di non ancora quarantacinque che dopo poche ore sarebbe stato colpito o, come usa dire, offeso dall'attacco di una malattia mortale - la malattia della sua morte. Tra l'una e l'altra, scandito da tante altre lettere ugualmente piene di tenerezza, sgomento e furore, si stende il tempo durante il quale il "grande abbandonato" ha scritto un libro di poesie che inaugura e oltrepassa la storia della lirica moderna, un libro di prose che fissa insuperabilmente il modello di un genere letterario, alcuni saggi che fondano il pensiero estetico e la critica d'arte contemporanei. Non è certo facile, per il lettore di questo romanzo epistolare univoco e involontario, orripilante e sublime, conciliare la pietà suscitata dall'"interdetto" (come egli stesso si definisce, alludendo all'indelebile umiliazione giudiziaria inflittagli dalla madre) torturato dai debiti e dal disamore, dall'incomprensione altrui e dalla propria "svogliatezza", con la venerazione dovuta a uno dei più grandi artisti e dei più lucidi e operosi intelletti che l'umanità abbia mai prodotto. (Dallo scritto di Giovanni Raboni)

domenica 22 settembre 2013

To Whom It May Concern -- Adrian Mitchell



To Whom It May Concern

I was run over by the truth one day.
Ever since the accident I've walked this way
    So stick my legs in plaster
    Tell me lies about Vietnam.

Heard the alarm clock screaming with pain,
Couldn't find myself so I went back to sleep again
    So fill my ears with silver
    Stick my legs in plaster
    Tell me lies about Vietnam.

Every time I shut my eyes all I see is flames.
Made a marble phone book and I carved out all the names
    So coat my eyes with butter
    Fill my ears with silver
    Stick my legs in plaster
    Tell me lies about Vietnam.

I smell something burning, hope it's just my brains.
They're only dropping peppermints and daisy-chains
    So stuff my nose with garlic
    Coat my eyes with butter
    Fill my ears with silver
    Stick my legs in plaster
    Tell me lies about Vietnam.

Where were you at the time of the crime?
Down by the Cenotaph drinking slime
    So chain my tongue with whisky
    Stuff my nose with garlic
    Coat my eyes with butter
    Fill my ears with silver
    Stick my legs in plaster
    Tell me lies about Vietnam.

You put your bombers in, you put your conscience out,
You take the human being and you twist it all about
    So scrub my skin with women
    Chain my tongue with whisky
    Stuff my nose with garlic
    Coat my eyes with butter
    Fill my ears with silver
    Stick my legs in plaster
    Tell me lies about Vietnam.


venerdì 20 settembre 2013

tranquillo


i sardi lo capiscono meglio, a me fa ridere molto, se uno è curioso glielo spiego:) - franz


mercoledì 18 settembre 2013

Grande Orgoglio Italiano

così dice Letta, il presidente del consiglio di un paese al dessert.
avrebbe potuto dire che da domani alle compagnie di navigazione che permettono “l’inchino” (la manovra che ha fatto la Costa Concordia) verrà revocato il permesso di navigazione, e chi si azzarderà ad avvicinarsi a Venezia verrà arrestato.
no, è un altro l’orgoglio, quello di chi loda l’efficienza delle pompe funebri, ma trascura gli ospedali, la medicina preventiva, le scuole.
come diceva Gassman, “abbiamo un grande avvenire dietro le spalle”.

martedì 17 settembre 2013

Sara Lee Guthrie & Caitlin Stubbs - Victor Jara



Victor Jara of Chile 
Lived like a shooting star 
He fought for the people of Chile 
With his songs and his guitar 
His hands were gentle, his hands were strong 

Victor Jara was a peasant 
He worked from a few years old 
He sat upon his father's plow 
And watched the earth unfold 
His hands were gentle, his hands were strong 

Now when the neighbors had a wedding 
Or one of their children died 
His mother sang all night for them 
With Victor by her side 
His hands were gentle, his hands were strong 

He grew up to be a fighter 
Against the people's wrongs 
He listened to their grief and joy 
And turned them into songs 
His hands were gentle, his hands were strong 

He sang about the copper miners 
And those who worked the land 
He sang about the factory workers 
And they knew he was their man 
His hands were gentle, his hands were strong 

He campaigned for Allende 
Working night and day 
He sang "Take hold of your brothers hand 
You know the future begins today" 
His hands were gentle, his hands were strong 

Then the generals seized Chile 
They arrested Victor then 
They caged him in a stadium 
With five-thousand frightened men 
His hands were gentle, his hands were strong 

Victor stood in the stadium 
His voice was brave and strong 
And he sang for his fellow prisoners 
Till the guards cut short his song 
His hands were gentle, his hands were strong 

They broke the bones in both his hands 
They beat him on the head 
They tore him with electric shocks 
And then they shot him dead 
His hands were gentle, his hands were strong 

Repeat first verse


words by Adrian Mitchell, music by Arlo Guthrie 

La musica è finita - Giorgio Maimone

pubblico nella sua totalità un articolo di Giorgio Maimone su una questione interessante e importante, molti abbiamo pensato più di una volta alle cose che dice Giorgio Maimone, ma mai le avevo viste scritte con tanta chiarezza e disillusione.
come si da a dargli torto, quello che dice vale anche per il calcio, secondo me, chi ha visto giocare Maradona e Baggio e Zola, come fa ad appassionarsi al calcio di oggi, chi ha visto l'Olanda del '74 come fa a riprovare gli stessi entusiasmi oggi?
torno alla musica, penso alla Francia, dopo Jacques Brel, George Brassens, Yves Montand, Leo Ferrè, Aznavour (cito solo loro, ma penso che ne sarebbero anche altri, mi sa) questi anni c'è stato qualcun'altro di quel livello?
poi è vero, come dice Maimone, che ce n'è diversi bravi, ma sono e restano nani, troppo spesso, davanti ai giganti che sono spesso morti o hanno lasciato - franz





La musica è finita, sì. La gioia che mi dava ascoltare a turno la voce di Bob Dylan, di Fabrizio De André, di Francesco De Gregori o di Van Morrison è sfumata in un silenzio che sa di morte, di funerale , di De profundis. La musica è finita nel senso che sono finite le canzoni, che non ci sono più spinte vitali, che nessuno scrive niente che possa interessare. Alcuni parlano del mondo, altri di sé. I primi hanno per referente le pagine dei giornali, i secondi il proprio ombelico. La musica è però finita, perché non sa più raccontare la società, non ci sa dire chi siamo, non ci sa fotografare. Sì, ogni tanto qualche bagliore emerge, ma mancano i cantautori eponimi, manca chi, con un endecasillabo ben temprato sappia (o voglia, o possa) trovare il modo per raccontarci. Fate mente locale: le prima canzoni di De André non erano un magnifico ritratto dell'Italietta degli anni '60? Così ipocrita, meschina, stretta tra le sue mille ipocrisie e le sue puttane di alto e basso bordo? È Bob Dylan non ci ha forse saputo dare appieno la luce ed i bagliori di una diversa cultura, in maturazione sul l'altra sponda dell'Atlantico? O forse De Gregori non ci ha raccontato gli anni di mezzo, da quelli di piombo a quelli di niente attuali. La storia siamo noi. O meglio, la eravamo. Ora ci sentiamo esclusi. Ora guardo fuori e vedo un mondo incattivito e smarrito, una società alla deriva, con valori etici allo sbando e una cattiveria di fondo irrecuperabile. Homo homini lupus, molto più di prima. Eppure ... tutto questo nelle canzoni non c'è. Non c'è internet, non ci sono i social network, gli smartphone, un mondo del lavoro che sta chiudendo per fallimento, rapporti umani onerosi, onusti e consumati, dove, anche lì, non si sa più dove andare. Se è solo sesso è fatto male. Sostenuto chimicamente, praticato atleticamente, ma perso anni luce lontano da amore, progetti, stili di vita da reinventare. Se è possesso invece diventa negazione della vita, tormento, femminicidio. La musica è finita. Non ci sa raccontare l'Italia di Berlusconi, di Grillo, dei politici imbelli, degli zimbelli televisivi, dello strapotere di You Tube, del cyber-ululato, dal vuoto dei valori. È finita come parole, ma è finita anche come musica. L'unica novità dagli anni '90 in qua, indipendentemente da qualsiasi valore gli si voglia dare, è stato il rap. L'unica. Poi il silenzio. Niente di nuovo sul fronte occidentale, niente a levante, niente a occidente. Il rock, il progressive, il grunge, l'hard rock, il talking blues, il country, il folk, la New wave avevano tutti portato qualcosa, avevano tutti gettato semi che sono germogliati o meno, in modo più o meno fruttifero, ma ogni tanto il vento del nuovo scuoteva le piazze e divideva figli e genitori, nonni e nipoti. Ora è stasi. La forma canzone è invecchiata senza sapersi reinventare, seguendo un processo che la musica classica ha compiuto nelle secolo scorso: crisalide cristallizzata in un bozzolo da cui mai più uscirà una farfalla, una pupa, un bruco. Insomma, non in grado di andare né avanti né indietro. Ora è tutto melassa pop. I più onesti lo dicono, lo ammettono di fare pop. Altri, la maggioranza, no. Ma non si capisce cosa facciano e cosa vogliano fare. Di sicuro fanno canzoni che non emozionano. È che, nella maggior parte dei casi non interessano.

Volete fare un gioco molto cattivo? Segnatevi dieci grandi canzoni del secolo scorso (oh, guardate che non parlo della preistoria! Dagli anni '60 ai '90. Tagliamo fuori gli anni zero, che non contano, e confrontatele a dieci canzoni che vi piacciono adesso. Su, è semplice: dividete il foglio in due, a sinistra scrivete:
Creuza de ma
Una notte in Italia
Mimi sarà
Un uomo a metà
La stazione di Zima
Un altro giorno è andato
Sad eyed lady of the lowlands
And the healing has begun
I'm a walrus
Festa di piazza
Ho scritto le prime dieci che mi sono venute in mente, rigorosamente una per ogni grande autore (e ho lasciato fuori Conte, Cohen, Endrigo, Springsteen etc etc etc). Ecco, io nella colonna di destra non saprei cosa metterci. Che ci metto? Cosa dovrei metterci? Pacifico o Niccolò Agliardi? Che pure sono dignitosissimi autori? O il futuro della musica sono altrettanto abili autori però più che 40enni come Alessio Lega, Federico Sirianni, Giambattista Galli, Luigi Maieron. Ma valgono Dylan? Parlano del mondo come De André? Conoscono gli imperscrutabili labirinti dell'animo umano o la povera gente o la rivolta di classe, di ceto, di tensione politica? Ci sono solo due grandissimi nella nostra epoca, in Italia che non si sa per quanto continueranno a fare il loro mestiere: Davide Van De Sfroos e Max Manfredi. Il primo ha portato aria diversa, pur su una base ritmico-armonica totalmente americana, il secondo, disgustato e un po' cinico, osserva e poco si mischia. Negli anni-zero speranze avevo coltivato ne La luce della centrale elettrica, rabbia e disperazione metropolitana, ma un grande disco è stato seguito da un clone. Zibba, di Zibba non si può dire che bene, ma ancora non ha dato quello che potrebbe e forse, forse, si badi bene, non vuole darlo. Lo so che c'è tanta brava gente che scrive e fa canzoni, anche troppa. Forse sulle canzoni bisognerebbe meditarci più a lungo prima di farle uscire. Personalmente ho scritto più di 800 canzoni e nessuna mai vedrà la luce, perché non ne vale la pena, perché il loro ambito è la cameretta o qualche raro amico. Sarebbe bene forse se anche i nostri si tenessero più in caldo le canzoni prima di farle uscire, pubblicandole solo quando e se esse stesse si impongono con forza e allora è d"obbligo pubblicarle. Per il resto siamo qua e viene naturale citare Alessandro Hellmann: "di cosa parliamo quando parliamo d'amore?" E quando "non" parliamo d'amore? La forza sono le storie, mi dicono? Non solo. Anche le idee, anche le emozioni, ma più ancora bisognerebbe andare a chiedersi perché si fa una canzone e quale sia il suo scopo. Per cantarla, che domanda! Ma allora, beati miei, fate qualcosa che si possa cantare! Che abbia la gioia del canto dentro! L'esplosione di un acuto, l'intimo di un sussurrato, una melodia che si ricordi e si possa canticchiare! Sì, canticchiare! Perché De Andrè, Dylan, De Gregori, Vecchioni, Jannacci e Fossati si canticchiano anche. Pure sotto la doccia. Dateci ancora pezzi come "Bang bang" o "Io ho in mente te", "Una ragazza in due", "Senza luce", "L'ora dell'amore" o "Il pescatore", tutte canzoni che fa piacere cantare, perché il canto è gioia. "Il mio canto libero", scriveva Battisti, uno che non ne sbagliava una di melodia. È così, invece ora, il canto non è libero. È avvinghiato, avvoltolato, involuto, nascosto e mortificato.

Certo, i grandi sono tutti morti o non stanno tanto bene. L'elenco è lungo, ma per un motivo o per l'altro resta solo De Gregori a rappresentare la grande stagione del cantautorato italiano. Morti Gaber, Jannacci, Endrigo, De André, Lucio Dalla; ritirati Guccini, Fossati e la De Sio; ridotto al silenzio Claudio Lolli; quasi uscito di scena Paolo Conte, resta indomito e ricco di carica e di cose da dire Goran Kuzminac. Un po' poco per reggere tutta la scena. La musica è finita, ma non ce ne dobbiamo preoccupare. Ogni grande genere ha avuto la sua epoca: il melodramma è durato tre o quattro secoli, ma alla fine si è estinto, l’Operetta ha avuto vita brevissima: dal 1870 al 1930: 60 anni, quasi come la canzone d’autore o da cantautore. Il jazz storico è pure durato 60 anni, dall’inizio del Novecento agli anni Sessanta, pur continuando a trasformarsi e a cambiare pelle, dando luogo a ramificazioni ulteriori, ora un po’ disseccate. Se entriamo nell’ambito del rock, il rock and roll in senso stretto non è andato oltre i due decenni (anni ‘40/60), il progressive non ha superato le soglie degli anni ’70, durando meno di 10 anni, come pure il punk, l’hard rock, il metal. Per non parlare di meteore come il grunge, il rock demenziale, lo ska, il reggae. Resistono inviolabili il folk (la musica popolare) e il blues che però hanno cambiato a loro volta forma tante di quelle volte da averne perso il conto. Se si sono estinti tanti illustri progenitori non è forse a rischio di estinzione la canzone stessa? Che poi non vuol dire il canto: la canzone così come percepita, con strofe o stanze, ritornelli o meno, bridge, introduzione e finale. La canzone pop fatta di melodia, armonia, tempo. No, sinceramente non c’è più nessuno che sa fare canzoni che possano durare e resistere al trascorrere degli anni. Poco male. Arriverà qualcosa d’altro. Qualcosa che sappia tenere conto dei differenti metodi di fruizione, dello spezzettarsi dell’attenzione, della gratuita presunta di quello che si ascolta. Chi vuole più pagare una canzone? Nessuno. Quando ero giovane l’unico modo per sentire la musica che mi interessava (i Pentangle, gli Steeleye Span, John Martyn, Richard Thompson, ma anche Johnny Cash e tutta la musica country, J.J.Cale e gli epigoni di Dylan) era comprarsi i dischi. Oppure registrarli (male) da qualcuno che li aveva comprati. Non c’erano radio per questa musica, né televisione. Solo pochi giornali e la carta non canta. Adesso basta accendere un computer, aprire un tablet e si ha tutta la musica del mondo a disposizione, tendenzialmente gratis. Marx spiegava tanti anni fa che i mezzi di produzione sono in ogni memento storico l’espressione del livello tecnico e delle esigenze produttive del momento stesso. Il mezzo fa il messaggio, insomma. E noi questo nuovo messaggio non l’abbiamo trovato e non riusciamo neanche a scorgerlo. Difficilmente la salvezza sarà nelle parole: speriamo nella musica. La musica è finita e forse non riprenderà mai. Ma qualcosa d'altro nascerà. Celebriamo il funerale della canzone d'autore con la massima dignità e restiamo ad aspettare che i tempi riprendano a cambiare e che le risposte siano di nuovo portate dal vento.

lunedì 16 settembre 2013

ricordo di Slawomir Mrozek

…Disegnatore, scrittore, drammaturgo, Sławomir Mrożek è stato una delle figure intellettuali più interessanti del recente panorama culturale polacco.
Il mio incontro con Mrożek risale a una quindicina d'anni fa, quando comprai su una bancarella di libri usati una delle sue più celebri raccolte di racconti, "L'elefante": non sapevo nulla di lui, ma interessandomi  - al solito in maniera dilettantesca e disordinata - di tutto ciò che fosse polacco, pensai che un nome e un cognome così fossero una garanzia sufficiente.
Mi bastarono poche pagine per capire che quello che avevo per le mani era il libro di un fuoriclasse. Una fantasia scatenata e un'intelligenza acuminata come un fascio laser  facevano di ognuno di quei brevi raccontini una specie di benefica pilloletta per la mente.
Sono racconti nei quali spesso si parte da presupposti verosimili, da situazioni apparentemente pacifiche e si arriva - a fil di logica - verso conclusioni grottesche ed assurde…

Le cose cambiarono con l’invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe del Patto di Varsavia, quando prese definitivamente le distanze dal regime comunista polacco con una lettera indirizzata al periodico dell’emigrazione Kultura di Parigi e successivamente chiese l’asilo politico alla Francia: “Ricordo la stupenda giornata estiva e la mia cieca furia quando appresi la notizia dell’invasione dalla radio. Potevo tollerare, anche se con crescente impazienza, l’umiliante situazione di chi sa ma ha paura di parlare. Ma questo era troppo. Uno schiavo che prendeva a calci un altro schiavo per compiacere il padrone, era una cosa intollerabile”, ricorda Mrozek. Da un giorno all’altro le sue opere vennero messe all’indice e furono ritirate dalle librerie in Polonia…
Con Mrozek, personaggio estremamente schivo (posso testimoniarlo personalmente dal momento che ho avuto la sorte di incontrarlo insieme a Jerzy Stuhr a Cracovia per la strada: vedemmo passare un’ombra e Jerzy lo salutò quasi commosso, mentre lui, dopo un cenno di saluto, scomparve subito nei vicoli dietro il Teatr Stary) scompare uno degli ultimi rappresentanti di una grande tradizione di intellettuali che hanno saputo fare tesoro delle varie vicissitudini, perlopiù tragiche, vissute dal proprio Paese, passando da un’infanzia segnata dalla guerra all’adolescenza negli anni dello stalinismo polacco alla maturazione politica e intellettuale con il disgelo e con il successivo trauma dell’invasione della Cecoslovacchia nel ’68. Lo stesso percorso intellettuale ed esistenziale della poetessa polacca Wislawa Szymborska, nata nel 1923 e scomparsa lo scorso anno, anche lei legata a Cracovia, dove verranno tumulate le spoglie di Slawomir Mrozek per sua espressa volontà.

Se cade il governo si pagherà l'Imu

Supponendo che a destra votino i più ricchi (non è così, ma supponiamo che lo sia):
cari ricchi, se il mio governo cade vi faccio pagare più tasse, dice Letta,
e io, di un partito che difende i poveri e quelli meno ricchi (non è così, ma supponiamo che lo sia), se il governo non cade fregherò come sempre gli elettori del mio partito (che non capiscono niente, aggiungo io)
il comma 22 era niente al confronto di questo abisso di disinformazione, di logica e di onestà - franz
Ps: per chi è distratto il comma 22 è il seguente: "Chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalle missioni di volo, ma chi chiede di essere esentato dalle missioni di volo non è pazzo".

sabato 14 settembre 2013

il giornalismo oscuro

dice redpoz: ”…Se, come quegli imbecilli del tg2, credete l’11 settembre cileno sia un fatto “oscuro” della storia del ’900, vi consiglio di fare un salto al Museo de la Memoria y de los Derechos Humanos di Santiago (qui l’archivio di foto), oppure come cantava Neruda “venite a vedere il sangue per le strade“, od andate all’infame “Patio 29″ del cimitero centrale (“che magnifico risparmio di spazio“, commentò Pinochet quando gli dissero che nelle tombe dei desaparecidos c’erano anche due o tre cadaveri): nei nomi dei torturatori e dei desaparecidos non v’è proprio niente di oscuro.
Così come non v’è niente d’oscuro sull’origine dei dollari che finanziarono e sostennero quel golpe…”


forse anche l’uccisione di Giulio Cesare e la “presunta” dittatura argentina sono fatti oscuri della storia, quanto buio nella storia, e poi il passo è breve sino a “Mussolini ha fatto anche del bene” e “Gramsci poteva essere peggio di Stalin”. - franz

venerdì 13 settembre 2013

dice Nicolás Gómez Dávila


"Il racconto intelligente della sconfitta è la sottile vittoria del vinto"

(dice García Márquez  riferendosi a Gómez Dávila: «Se non fossi comunista, penserei in tutto e per tutto come lui»)

giovedì 12 settembre 2013

Lottare e condividere, questa la vittoria di Federica - Antonella Sinopoli

Uno si potrebbe chiedere: a che serve vivere due anni in più se poi si muore? A che serve vivere due anni in più sottoponendosi a cure dolorose, a stress inimmaginabili, a paure, ansie, sconforto. Bisognerebbe chiederlo a chi è riuscito a strappare due anni in più alla sua vita. Bisognerebbe chiedere a questa persona quante gioie, forza, coraggio e soddisfazione ha succhiato in questi due anni. E bisognerebbe chiedere a tutti coloro che hanno potuto vivere questa esperienza insieme alla protagonista che cosa ne hanno tratto.
Chi ha “strappato” due anni in più alla sua vita è Federica Cardia, una donna cagliaritana morta ieri a 30 anni per un cancro al colon. Un cancro diagnosticato due anni fa come incurabile. La cosa più fantastica che a Federica è venuta in mente quando lo ha saputo è stata di non dimenticare chi era, di non dimenticare quello che sapeva fare, di non dimenticare quello che le piaceva fare. Le piaceva comunicare. E così ha “usato” la sua malattia e ha usato la Rete per condividere, raccontare, cercare notizie. Aveva studiato comunicazione e conseguito un dottorato di ricerca in questa materia e da qualche anno si era dedicata alla ricerca sulle nuove potenzialità della Rete nella comunicazione.
È per questo che in Rete ha cercato aiuti (una raccolta fondi per sottoporsi alle costosissime cure), notizie (chiedeva ad altri: fatemi sapere se esistono cure alternative, a chi altro posso rivolgermi), condivisione (storie comuni, link per saperne di più e per coinvolgere altri con lo stesso problema)…

mercoledì 11 settembre 2013

ultimo discorso di Salvador Allende

La gamba sinistra di Joe Strummer – Caryl Férey

non sarà un capolavoro, ma si legge bene, sembra già la sceneggiatura di un film.
a me è piaciuto abbastanza, lo consiglio a chi vuole fare un viaggio di due ore fra la Bretagna e il Marocco, con una storia che non ti stacchi più - franz



…Un bel giallo, solido anche quando pare non esserlo, capace di trasciare il lettore nell'oscura provincia francese e nelle sue perversioni, seguendo un protagonista che è bidimenesionale al punto giusto per farci da Virgilio nel suo personale inferno…

…sempre la solita storia dell'ex poliziotto incazzato con la vita, Irlandese ex guerrigliero dell'IRA che non si capisce il perché faccia il poliziotto in Francia, e soprattutto non si capisce il perché per la mancanza di un occhio che lui non si cura, lasciandolo in balia delle infezioni, sembra avere una malattia terminale peggio di un tumore ultimo stadio.
Fondamentalmente nulla di nuovo, che forse riesce a piacere a qualche lettore della domenica, ma un lettore vorace di storie così ne ha già lette a centinaia...
L'autore ha ricevuto molti premi in Francia, mi fa piacere, vuol dire che non solo in Italia danno premi senza un perchè...

…Avevo appena cominciato a leggere il romanzo, e subito mi sono accorta di quanto sia stato scritto come piace a me. Innanzitutto, perché è un noir di nome, anzi, di copertina, e di fatto. A cominciare da Mc Cash, un uomo che ha vissuto l'epoca dei Clash e del suo cantante, Joe Strummer, come un periodo di rivoluzione culturale e sociale, attraverso una musica rock di "un'epoca in cui l'utopia non si riassumeva nel sopravvivere all'imminente catastrofe ecologica e sanitaria". Un ex poliziotto, cupo e aggressivo quando i dolori allucinanti della protesi all'occhio gli perforano il cervello, con una durata dai 5 minuti alle 10 ore. In quei casi, si barrica in casa con le persiane abbassate, cattivo più che mai. Ha un suo stile e un suo carattere, comunque, e le donne ne sono affascinate da un lato, ma spaventate dall'aspetto del suo volto. Ma come molti scorbutici, la sua è una facciata di solitudine e di desolazione. In sole 176 pagine, Férey riesce a trasmettere quella sensazione necessaria in  un noir, quel sottofondo di disperazione, che mi hanno ricordato André Héléna o Jean Claude Izzo. La vita vissuta inutilmente, senza futuro, con la consapevolezza che basterebbe il clic di un grilletto, per finirla lì...

martedì 10 settembre 2013

La velocità della luce - Javier Cercas

“Soldati di Salamina” mi era piaciuto molto, poi (qui) ho stroncato un libro giovanile che era meglio restasse nel cassetto, adesso mi capita per le mani “La velocità della luce”.
inizia lento, poi non riesci a smettere, è un libro formidabile, a me ha ricordato molto Auster (è un gran complimento).
cercatelo e godetene, davvero ottimo - franz


L’impressione è che al di là delle frasi ben cesellate qui ci sia dell’anima, delle domande autentiche, delle risposte abbozzate ma offerte al lettore per quello che sono. Naturalmente Cercas si diverte a confonderci le idee e il ci è o ci fa è sempre in agguato, ma questa è parte del gioco molto serio di La velocità della luce

Che cosa è un romanzo, per Javier Cercas?
Ogni lettore fa il suo libro, interpreta la storia che viene raccontata. L’unica cosa veramente importante è che rimanga fedele alla partitura del romanzo. Il più bel libro che abbia mail letto è il Don Chisciotte. Un libro letto e amato da tutti. Quando venne pubblicato nel diciassettesimo secolo, era giudicato una commedia, un libro per far ridere. Dal diciannovesimo in poi si è tramutato in un’opera malinconia e introspettiva. Due interpretazioni diverse, ma entrambe giuste. Samuel Johnson diceva che solo gli stupidi scrivono senza essere pagati. In questo senso scrivere mi ha cambiato la vita, anche economica. Questa è l’importanza che attribuisco al romanzo. Solo cambiando la vita di chi lo scrive, un libro può cambiare la vita di chi lo legge. Prima di Soldati di Salamina non mi leggeva nessuno, eccezione fatta per mia madre e pochi intimi. Ricordo un aneddoto in cui è coinvolto il mio grande amico Roberto Bolaño. Anni fa uscì in Spagna un dettagliato dizionario dei più importanti autori in lingua spagnola. Mancava soltanto il mio nome e ricordo Roberto, che aveva un senso guerriero della letteratura, dirmi alterato che doveva esserci per forza qualcuno a cui avevo fatto torto, per meritarmi questa assenza. Gli risposi di no, semplicemente non mi conosceva nessuno all’epoca. Ora vivo di scrittura, perché non so fare altro. Perché sono affascinato dalle immagini e dalla storia. Prima di Soldati di Salamina non raccontavo del passato, solo del presente e per di più non ne ero capace. Il lavoro di un romanziere è quello di farsi domande e il tempo passato è terreno fertile per porsi dei dubbi. Al contrario dei politici, che dovrebbero lavorare per risolvere problemi, lo scrittore  si rovina la vita creandosene ancora di più con ciò che scrive…
da qui

lunedì 9 settembre 2013

una canzone sempre (purtroppo) d'attualità

...E spero che moriate
e che la vostra morte giunga presto
seguirò la vostra bara
in un pallido pomeriggio
e guarderò mentre
vi calano giù nella fossa
e starò sulla vostra tomba
finché non sarò sicuro che siate morti.





Masters of war - Bob Dylan

Come you masters of war
You that build all the guns
You that build the death planes
You that build the big bombs
You that hide behind walls
You that hide behind desks
I just want you to know
I can see through your masks
You that never done nothin’
But build to destroy
You play with my world
Like it’s your little toy
You put a gun in my hand
And you hide from my eyes
And you turn and run farther
When the fast bullets fly
Like Judas of old
You lie and deceive
A world war can be won
You want me to believe
But I see through your eyes
And I see through your brain
Like I see through the water
That runs down my drain
You fasten the triggers       
For the others to fire
Then you set back and watch
When the death count gets higher
You hide in your mansion
As young people’s blood
Flows out of their bodies
And is buried in the mud
You’ve thrown the worst fear
That can ever be hurled
Fear to bring children
Into the world
For threatening my baby
Unborn and unnamed
You ain’t worth the blood
That runs in your veins
How much do I know
To talk out of turn
You might say that I’m young
You might say I’m unlearned
But there’s one thing I know
Though I’m younger than you
Even Jesus would never
Forgive what you do
Let me ask you one question
Is your money that good
Will it buy you forgiveness
Do you think that it could
I think you will find
When your death takes its toll
All the money you made
Will never buy back your soul
And I hope that you die
And your death’ll come soon
I will follow your casket
In the pale afternoon
And I’ll watch while you’re lowered
Down to your deathbed
And I’ll stand o’er your grave
’Til I’m sure that you’re dead