giovedì 31 ottobre 2019

L’est antisemita e la “risoluzione” del parlamento Ue – intervista ad Alessandro Barbero



(di Natalia Marino)

Lo storico Barbero come valuta la Risoluzione adottata dal parlamento europeo lo scorso 19 settembre, nell’anno in cui “si celebra l’80° dello scoppio della seconda guerra mondiale”?
Prima di tutto segnalo una doppia assurdità nella ricostruzione storica avallata all’Assemblea di Strasburgo. Il documento “sottolinea” infatti che la seconda guerra mondiale “è iniziata come conseguenza immediata del famigerato” patto Molotov-Ribbentrop, il trattato di non aggressione siglato il 23 agosto 1939 da “Unione Sovietica comunista e la Germania nazista” e, ancor più incredibilmente, che con quell’accordo i “due regimi totalitari, che avevano in comune l’obiettivo di conquistare il mondo, hanno diviso l’Europa in due zone d’influenza”. In questo passaggio c’è un equivoco abnorme, peggio un falso, perché in realtà ciò venne deciso molti anni dopo, negli ultimi mesi del conflitto, e non da Stalin e Hitler ma da Stalin insieme a Churchill e Roosevelt nelle Conferenze di Yalta e di Postdam.

Perché la forzatura se non corrisponde ai fatti?
Leggendo la Risoluzione è palese sia stata promossa dagli Stati dell’Europa centrale e orientale dove, dopo il 1945, dominarono regimi dittatoriali sostenuti dall’Urss, e dunque l’intento era di condanna. Bene inteso, non si può dar loro torto perché sono stati regimi impopolari e oppressivi. Tuttavia attestare un interesse all’egemonia mondiale da parte di Stalin è una fandonia totale. È storicamente assodato e risaputo che, in quel 1939, il suo unico obiettivo era evitare a qualsiasi costo una guerra all’Unione Sovietica.

Più volte la Risoluzione ribadisce che il patto indicato col cognome dei due ministri degli Esteri di allora avrebbe invece la responsabilità di aver “spianato la strada allo scoppio della seconda guerra mondiale”.
Stalin fa il patto con la Germania quando sono falliti tutti i tentativi di stringere accordi con l’Inghilterra e con la Francia, quando già Inghilterra e Francia hanno lasciato via libera a Hitler. Per paura, per incapacità, furono anni terribili per fare politica, sia chiaro. Ma certamente prima del Molotov-Ribbentrop, c’è l’annessione dell’Austria da parte della Germania nazista, siamo nel marzo 1938, e nessuno dice niente; subito dopo ci sono le rivendicazioni del Terzo Reich sui Sudeti, quindi su un pezzo di Cecoslovacchia, e con gli accordi di Monaco, fine settembre ’38, non solo nessuno dice niente bensì Regno Unito e Francia aiutano Hitler a costringere i cecoslovacchi a cedere quei territori; quindi pochi mesi più tardi, arriviamo al marzo 1939, Hitler invade il resto della Cecoslovacchia e, ancora una volta, Inghilterra e Francia restano alla finestra. Fino a quel momento, l’Unione Sovietica cercò in ogni modo di creare un’alleanza contro Hitler. I governi occidentali non si fidarono, si può anche dire che non avevano torto, però poi Churchill e Roosevelt daranno credito a Stalin e vinceranno la seconda guerra mondiale. In altre parole, affermare che il patto Molotov-Ribbentrop abbia spianato la strada al conflitto bellico ha senso solo se ricordiamo che fu l’ultimo atto di una sequenza di compromessi e cedimenti a Hitler. Tutti hanno ceduto a Hitler. E infine lo fece anche Stalin decidendo, con estremo cinismo, che fosse l’unico modo per salvaguardare il suo Paese da una guerra.

E neppure intendeva conquistare il mondo?
Vedere nel trattato di non aggressione un patto di spartizione tra due dittature, ribadisco, è falso e insensato. Fino ad allora Stalin aveva sostenuto la politica del socialismo in un solo Paese e aveva fatto fuori quanti teorizzavano la rivoluzione permanente e volevano esportarla a livello globale.
Premesso che affrontiamo una vicenda terribilmente complessa, non intendo affatto contestare le responsabilità staliniane: il Molotov-Ribbentrop è una mossa spudorata. Stalin era sempre stato disposto a fare delle giravolte incredibili, interessato unicamente al risultato da ottenere in quel momento. E in quel momento vuole assicurarsi che la Germania non attacchi l’Unione Sovietica e che l’Unione Sovietica non rimanga isolata. Dunque benissimo un patto col diavolo, un “il fine giustifica i mezzi” moralmente e politicamente discutibile, ma sul piano storico è un’alleanza fra due nemici che si odiano, consapevoli che cercheranno di imbrogliarsi l’un l‘altro. Sono assurde e senza fondamento tutte le letture che ritengono simili nazismo e stalinismo e la loro alleanza un fatto naturale.

E Hitler voleva la guerra?
Niente affatto, piuttosto per le sue mire era disposto a rischiare anche una grande guerra mondiale; in realtà avrebbe preferito che Inghilterra e Francia gli lasciassero conquistare la Polonia come aveva già fatto con l’Austria e la Cecoslovacchia. Nessuno lo aveva fermato e lui era andato avanti. Semplicemente. La stessa Polonia dell’epoca mise i bastoni fra le ruote ad un allargato schieramento contro Hitler ed è comprensibile: era nata da appena due decenni dopo una guerra con l’Urss e aveva il terrore di una riconquista. Per lo scoppio del conflitto mondiale l’atteggiamento polacco non fu tuttavia determinante, va messo bene in chiaro. Decisiva fu la debolezza dei governi del Regno Unito e della Francia, lo spettro di una nuova guerra, la diffidenza verso il dittatore sovietico Stalin e il cinismo criminale dello stesso Stalin.

Nei Paesi dell’est Europa, prima del 1939 c’erano simpatie verso il fascismo e il nazismo?
È un argomento molto delicato ed è d’obbligo prendere atto di differenti sensibilità. Prima della seconda guerra mondiale quei Paesi avevano sistemi autoritari e militaristi ma non tutti allo stesso modo. In alcuni ambienti, c’era sì una sorta di attrattiva nei confronti del nazismo ma era l’anticomunismo il denominatore comune, talmente forte da accecare, da non permettere di vedere altro, come accade oggi. Soprattutto, e dispiace doverlo dire, erano Paesi violentemente antisemiti. In Polonia l’occupazione tedesca fu spaventosa, la popolazione resistette con grandissimo impegno e sacrificio, però che i nazisti sterminassero gli ebrei non lo valutò, al tempo, l’aspetto più terribile. I Paesi baltici si sentirono liberati dai nazisti dopo la breve occupazione staliniana e ci furono episodi di collaborazione delle milizie locali alla shoah ebraica. La Romania, che oggi si lamenta, nel 1941 insieme ai nazisti invase l’Unione Sovietica e contribuì al genocidio della comunità ebraica di Odessa. Purtroppo, l’antisemitismo diffuso nei Paesi dell’Europa orientale ha permesso che l’occupazione nazista non incontrasse una netta opposizione.

La Risoluzione è intitolata “Sull’importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa”.
Il documento concorre a consolidare un distorto e frequente luogo comune, cioè che la memoria da sola, possa unificare, si possa condividere. Ma la memoria non è critica, è parziale per definizione, e spesso infatti è usata per additare nei nemici. Ognuno, legittimamente, ha la sua memoria. Ma senza una visione d’insieme, se non si vuole restare confinati a un circoscritto punto di vista e provare a capire come l’umanità ha attraversato gli eventi, deve essere interpretata dalla storia. In Italia altrimenti ci dovremmo ricordare le stragi nazifasciste e i bombardamenti alleati, fatti che di per sé aiutano ben poco ad amare gli altri popoli… Il parlamento europeo parte dalla memoria e, già che c’è, suggerisce di abbattere i monumenti che ricordano una memoria che non gli piace! Quei monumenti rappresentano una memoria di parte? Certo, dunque abbatterli significa schierarsi dall’altra parte. La memoria del parlamento europeo è insomma brandita “contro” qualcuno.

Nel testo si rimarca l’adesione “all’UE e alla Nato dei Paesi dell’Europa centrale e orientale”, è c’è un appello alla società russa, “la più grande vittima del totalitarismo comunista”, affinché si confronti “con il suo tragico passato”. Cosa ne pensa Barbero?
Quella Risoluzione è chiaramente un documento politico, fabbricato con fini politici e per di più abbastanza mediocri. Mi fa venire in mente quei politici italiani che da quando è nato il nuovo governo gridano ai loro elettori: “Oddio oddio, i comunisti sono andati al potere!”. È un documento dalla visione stranamente provinciale e ristretta, arcaica, perché parla delle conseguenze della seconda guerra mondiale solo da un punto di vista molto localistico. Non c’è una parola sulla fine dell’imperialismo coloniale, sull’indipendenza dell’India e della Cina, per esempio. Anche la visione del comunismo è altrettanto limitata: è come se il comunismo si identificasse con lo stalinismo e con i regimi dei Paesi del Patto di Varsavia, quelli che fino alla caduta del Muro di Berlino facevano parte del blocco sovietico. Qualsiasi parallelo tra comunismo e nazismo è un falso storico. Il nazismo è durato vent’anni e ha governato un unico Paese per tredici anni; regime nazista e ideologia nazista sono la stessa cosa. Invece il comunismo è una realtà storica durata ben un secolo e mezzo, esisteva già alla metà dell’800. Ammettiamo per ipotesi, nonostante forse la Cina non sarebbe d’accordo, che non esista più dall’89, con il crollo dell’Unione Sovietica. Ebbene in tutti i Paesi del mondo ci sono state generazioni e generazioni di comunisti, nella maggior parte dei casi sono stati perseguitati, messi in galera; in altri, come in Italia e Francia, dal secondo dopoguerra sono stati elemento fondamentale della vita democratica. Non c’è alcun dubbio che, diversamente, in Urss il comunismo abbia dato luogo a un regime terribile e nell’Europa centrale e orientale a regimi che, come ho detto, si sono rivelati impopolari e oppressivi. Il punto è un altro però. La falce e il martello non sono simboli della dittatura di Stalin ma di una speranza che per oltre centocinquant’anni ha animato milioni di persone in tutto il mondo. Lo prova il fatto che si può essere comunisti e avere una pessima opinione di Stalin e criticare il suo regime; al contrario, ed è facile verificarlo, non troverà nessuno tra quanti si richiamano al fascismo che abbia la forza di criticare Mussolini e il suo regime; se lo immagina in Germania un neonazista che critichi il Führer? Non esiste fascismo al di là della dittatura di Mussolini, né nazismo al di là di Hitler. Il comunismo invece ha espresso diverse personalità e pensieri. Se avessi una vecchia tessera del Pci, magari firmata da Enrico Berlinguer, mi dovrei forse vergognare?

Una difesa degli studi classici - Paolo Di Remigio




Che agli alunni sfugga la natura della difficoltà della versione mi appare evidente: appena consegnato il testo da tradurre, i candidati si precipitano a cercare i significati delle parole sul vocabolario.  I risultati sono univoci: per la maggior parte le versioni consistono in una assurda sequenza di frasi quasi tutte senza senso. Lo studio delle lingue classiche finisce per suggerire agli studenti che la frase sgrammaticata e informe, il discorso insensato e privo di contenuto siano espressioni linguistiche accettabili. Per noi il periodo complesso, la ricchezza lessicale, l’etimologia e il senso storico sono i vantaggi più evidenti dello studio delle lingue classiche. Anche nel mondo tedesco a cavallo tra Settecento e Ottocento sembrava che la cultura moderna dovesse rendersi autonoma e che lo studio delle opere antiche si perdesse in un’erudizione oziosa. A questa contestazione Hegel replicava innanzitutto dal lato del contenuto. A chi sosteneva che l’attività didattica si può esercitare su qualunque materia, Hegel rispondeva che l’esercizio non è indifferente alla materia: solo un contenuto valido e significativo corrobora la mente, le procura contegno, saggezza, presenza di spirito, senza le quali essa non acquisisce la versatilità. “Chi non ha conosciuto le opere degli antichi ha vissuto senza conoscere la bellezza”. Il nutrimento offerto dalle opere antiche non è però soltanto nel loro contenuto; non meno importante è la forma in cui è realizzato. Il rigoroso studio grammaticale delle lingue classiche si raccomanda così – questa la conclusione di Hegel – come uno dei mezzi didattici più nobili e universali. Se la didattica gentiliana era guastata da intenzioni classiste; l’attuale scuola pubblica non fa meglio sotto il profilo sociale: disprezzando gli obiettivi didattici, essa mantiene ignorante chi la frequenta.

1.
Osservando[1] una volta il corso di recupero di latino di un mio collega che con meravigliosa finezza filologica estraeva davanti agli alunni morfologia, semantica ed etimologia da ogni parola, mi sono chiesto se gli amorevoli indugi di quel recupero non comportassero la rinuncia ai vantaggi della quantità: è almeno probabile che la traduzione di cinquanta frasi permetta di memorizzare più parole e più regole sintattiche, permetta di acquisire più familiarità con lo spirito della lingua, di quanto possa fare lo scrutinio dei misteri di tre frasi. Il mio collega procedeva secondo il suo apprendistato nel liceo gentiliano che, sicuro del lavoro della scuola media e incurante se non desideroso di future perdite di alunni, si dedicava di preferenza all’approfondimento filologico.
L’eredità dell’impostazione gentiliana e la fine dello studio del latino e della grammatica italiana alle medie hanno generato la convinzione diffusa della difficoltà enorme, addirittura insormontabile della versione. Eppure la traduzione di testi scritti richiede una competenza meno elevata di quella richiesta da una lingua straniera – infatti è già meno agevole capire chi la parla, e parlarla e redigervi testi scritti è ancora più difficile. Non solo, tra il lessico italiano e quello latino (un po’ meno quello greco) si presenta una forte somiglianza. Risulta dunque un’unica vera difficoltà di traduzione, quella per cui le lingue classiche si differenziano dall’inglese e dal francese, ma sono simili al tedesco: l’ordine tipico delle loro frasi non è quello a cui siamo abituati dalla nostra lingua: soggetto – predicato – complementi, ma uno diverso: soggetto – complementi – predicato.
Che agli alunni sfugga la natura della difficoltà della versione mi appare evidente durante la sorveglianza agli esami di Stato. Appena consegnato e letto il testo da tradurre, si apre la fase ventilata dello sfogliare il vocabolario: i candidati si precipitano a cercare i significati delle parole. Ma iniziare così la versione è il modo migliore per fallirla: le parole hanno più significati e la loro ambiguità si accentua a scuola, che propone non le lingue usate in un unico momento storico, ma sviluppate in una lunghissima diacronia. I risultati rilevati in fase di correzione sono univoci: per la maggior parte le versioni non tanto contengono errori gravi di comprensione, quanto consistono in una assurda sequenza di frasi quasi tutte senza senso. Questo fallimento generale non è rilevato dai commissari che, in esecuzione del principio ‘inclusivo’ della scuola attuale, accettano tutto e trasformano la valutazione da atto del riconoscere il valore ad atto del dare un valore. Che alunni con simili abilità di traduzione siano stati ammessi all’esame di Stato dimostra peraltro che l’atteggiamento valorizzante dei commissari è stato già proprio dei docenti nei precedenti anni di liceo.
La conclusione non può che essere questa: attualmente lo studio delle lingue classiche suggerisce agli studenti che la frase sgrammaticata e informe, il discorso insensato e privo di contenuto siano espressioni linguistiche accettabili, che gli autori classici, pur essendo i creatori del nostro linguaggio e della nostra cultura, ci abbiano lasciato testi adeguatamente traducibili in modo assurdo. In altri termini: lo studio delle lingue classiche, che nella scuola gentiliana era la palestra delle competenze più raffinate, è diventato nella nuova scuola la zona oscura in cui cessa di valere la logica e si regredisce alla libera associazione.
Tutto ciò sembra non costituire un danno evidente perché il liceo classico attrae scarse iscrizioni e soltanto i pochi diplomati che sceglieranno gli studi letterari sentiranno (c’è almeno da sperarlo) la sofferenza per la loro impreparazione. Ma non soffrire non significa essere in salute. Anche nel caso meno grave che la convinzione di poter scrivere impunemente assurdità sia arginata entro l’ambito nel quale ci si è abituati a farlo e non esondi su tutta l’intelligenza, resta tuttavia il danno della mancata acquisizione delle conoscenze e delle competenze che nascono dallo studio delle lettere classiche.
Queste hanno la particolarità di essere studiate su testi che il tempo ha selezionato in modo drastico, spesso crudele; per questa selezione esse sono lingue dotte, lingue non funzionali ai bisogni quotidiani, per i quali spesso sarebbe sufficiente la gestualità e l’espressione linguistica si aggiunge per cortesia, ma dirette all’argomentazione – filosofica, storica, retorica – e alla forma artistica. Esse non sono lingue morte (è morto il tronco da cui si diparte il ramo?), come si sente spesso, ma sono il fondamento della cultura, perché nella maggioranza delle attuali lingue europee le forme sintattiche sono debitrici della sintassi latina e i termini astratti derivano dal greco attraverso la mediazione del latino. Lo studio delle lingue classiche permette dunque di acquisire la padronanza del periodo complesso, di tesaurizzare le parole astratte indispensabili a ogni discorso teorico e di connetterle ai gesti a cui in definitiva risalgono. A questo proposito si pensi, per esempio, alla parola ‘concetto’ la cui etimologia riconduce alla presa riuscita dell’oggetto (da cui anche il tedesco ‘Begriff’). L’etimologia non può sostituire la semantica e la sintattica; assicurando però la connessione del termine astratto al gesto, è uno strumento indispensabile per afferrarne il contenuto, dunque per impedire che le catene argomentative si risolvano in un calcolo, che i termini diventino pure convenzioni esterne e quindi più sorgenti di perplessità che elementi di scienza.
Che la complessità sintattica, il lessico astratto e l’etimologia siano appresi direttamente dalle opere classiche ha un ulteriore significato: confutare la convinzione ingenua che il mondo sia appena venuto fuori dal nulla, che tutto sia possibile e dipenda dalla nostra spontanea creatività, che dunque ci si dia alla creatività prima di avere imparato. Le lingue classiche sono l’ostacolo più importante alla presunzione e al dilettantismo.
2.
Per noi il periodo complesso, la ricchezza lessicale, l’etimologia e il senso storico sono i vantaggi più evidenti dello studio delle lingue classiche. Altrove e in passato non è stato così. Nel mondo tedesco a cavallo tra Settecento e Ottocento il periodo complesso non era ancora stato emarginato dal giornalismo, le lingue classiche non costituivano il passato della lingua in uso e quindi non offrivano approfondimenti etimologici, l’ignoranza non era così fitta da comportare il disprezzo del passato. A quel tempo era possibile scorgere altri motivi per lo studio delle lingue classiche. Quelli più decisivi sono indicati in uno dei discorsi ginnasiali di Hegel[2].
In accordo con lo spirito della sua filosofia, a differenza dell’intelletto, che è la capacità di scoprire le costanti generali che regolano l’inquietudine della realtà, ragione è la facoltà superiore che dapprima, come dialettica, scopre le antinomie nel generale, poi, come speculazione, le risolve, così da pervenire a conoscere l’essenza della realtà. In pedagogia la dialettica si mostra come esigenza di estraniarsi da sé del soggetto, come esigenza di cercarsi nel lontano; la speculazione è invece un ritrovarsi nel lontano, quindi il conciliare la sua estraneità e ritornarvi a sé. Il sistema filosofico hegeliano contiene dunque una critica profonda di ogni pedagogia che presupponga uno sviluppo individuale secondo un progresso rettilineo dall’incompetenza alla competenza e si arrovelli per bruciarne le tappe: contrariamente a un pregiudizio molto diffuso, la filosofia hegeliana non è dominata dall’idea di progresso, ma la coniuga con la circolarità; così che lo sviluppo non è indeterminato, ma ha come fine il ritorno all’inizio, e la sua fecondità è condizionata dalla capacità di consegnarsi al lontano.
Ripercorriamo in breve le argomentazioni del discorso di Hegel. Egli osserva che in passato l’apprendimento del latino era a tal punto la parte più essenziale dello studio teorico, che alle altre discipline si riconosceva utilità pratica, non dignità formativa. In seguito la giusta esigenza che un popolo esprima nella propria lingua i tesori della conoscenza scientifica, i metodi meccanici o erronei adottati nello studio del latino e la preoccupazione per il ritardo con cui si acquisivano molte importanti conoscenze e abilità misero in crisi la certezza che il latino fosse il mezzo formativo principale se non unico. Dalla crisi è emerso un sistema scolastico distinto su tre livelli: quello che insegna nozioni e abilità pratiche, quello che offre competenze superiori senza la letteratura antica, quello che ha conservato lo studio delle lingue classiche come base dello studio teorico.
Si contestò tuttavia, e lo si fa ancora oggi, che gli studi classici dovessero conservare questa funzione: sembrava che la cultura moderna dovesse rendersi autonoma e che lo studio delle opere antiche si perdesse in un’erudizione oziosa.
A questa contestazione Hegel risponde innanzitutto dal lato del contenuto. La letteratura greca, e poi quella latina, rappresentano l’eccellenza da cui occorre partire nell’azione didattica: “Chi non ha conosciuto le opere degli antichi ha vissuto senza conoscere la bellezza”. A chi ribatte che l’attività didattica si può esercitare su qualunque materia, Hegel risponde che l’esercizio non è indifferente alla materia, che questa è un nutrimento per la mente che vi si esercita: solo un contenuto valido e significativo corrobora la mente, le procura contegno, saggezza, presenza di spirito, senza le quali essa non acquisisce la versatilità.
Il nutrimento offerto dalle opere antiche non è però soltanto nel loro contenuto; non meno importante è la forma in cui è realizzato. Poiché la forma va perduta nelle traduzioni, occorre imparare le lingue classiche. Lo sforzo richiesto per imparare il latino e il greco appare un indugio nel progresso dell’apprendimento; ma questo indugio è un bisogno essenziale della mente. Perché siano oggetti conosciuti, la natura e la mente devono prima essere oggetti, devono cioè essere estranei alla mente; la cultura teorica non può dunque che iniziare dal non-immediato, dallo straniero, da ciò che esiste soltanto nel ricordo. L’esigenza di separazione è così necessaria da mostrarsi come istinto, come forza di attrazione esercitata dal lontano. Cercare la profondità nella lontananza potrebbe sembrare un inganno, ma è un inganno necessario, perché la forza della mente si misura dall’ampiezza del suo scostamento dal centro in cui era immersa e in cui aspira a ritornare. L’opportunità di portare la mente dei giovani in un mondo lontano e straniero poggia sull’impulso centrifugo che la domina.
Il muro del mondo antico e della sua lingua, che separa da sé stessi, contiene d’altra parte anche i fili del ritorno a sé: la meccanicità nell’apprendimento delle lingue classiche è qualcosa di più di un male necessario per arrivare ai contenuti eccellenti; proprio essa è l’estraneo che la mente assimila per tornare a sé stessa. Alla meccanicità si connette infatti lo studio della grammatica, che non può essere mai abbastanza celebrato perché è l’inizio dell’educazione logica: la grammatica procura il primo incontro con le categorie, cioè con i prodotti propri dell’intelligenza. Per la loro semplicità esse sono quanto di più comprensibile, adatte dunque a essere apprese da menti giovani non ancora capaci di assimilare il molteplice nella sua ricchezza; per loro tramite l’intelligenza inizia a comprendere sé stessa; i nomi con cui la grammatica le indica permettono infatti di distinguerle, e possedere queste differenze è il primo passo per acquisire la capacità di muoversi tra le astrazioni, presupposta dallo studio della logica. La grammatica, contrariamente a un’opinione comune, è dunque il fine, non il mezzo, dell’apprendere.
Mentre infine l’abitudine irriflessa guida la comprensione della lingua madre, la comprensione delle lingue classiche dipende dalla conoscenza e dall’applicazione delle loro regole; il lavoro sulle lingue classiche genera dunque l’abitudine a sussumere il particolare sotto il generale e a particolarizzare il generale; propriamente in questa abitudine a superare il contrasto tra particolare e generale consiste la ragione. Il rigoroso studio grammaticale delle lingue classiche si raccomanda così – questa la conclusione di Hegel – come uno dei mezzi didattici più nobili e universali.
3.
L’inquietudine per la decadenza della cultura liceale in Italia mi induce a espormi al rimprovero di dilettantismo e a divulgare un procedimento il cui uso mi facilita notevolmente la traduzione dei testi. Esso presuppone la padronanza della logica della frase e del periodo: occorre saper distinguere la principale dalle secondarie, il predicato e il soggetto; presuppone quindi la conoscenza delle congiunzioni, dei pronomi relativi e dei participi. La successione dei passi, da osservare rigidamente, è la seguente:
·         Prima di leggere, segnare con una doppia sbarra “||” il più vicino segno forte di punteggiatura (il punto, il punto e virgola, il due punti e i segni corrispondenti nel greco), in modo da concentrare l’attenzione al periodo da tradurre.
·         Leggere e rileggere fino alla doppia sbarra in modo da eliminare errori.
·         Individuare gli incisi e metterli tra parentesi “(…)” per posticiparne la traduzione.
·         Per lo stesso motivo, cercando le congiunzioni subordinanti, i pronomi relativi e i participi, individuare le secondarie e metterle tra parentesi.
·         Individuare la principale.
·         Individuarne il predicato (in latino è particolarmente facile perché le sue terze persone, a differenza di quasi tutte le altre parole, finiscono con la lettera ‘t’) e sottolinearlo “___”(elegantemente, se possibile); isolare la principale con una sbarra “|” da eventuali coordinate; osservando la persona e il numero del predicato, individuare il soggetto e segnarlo con un cerchio (elegantemente, se possibile); se il verbo è transitivo, individuare il complemento oggetto.
·         Solo a questo punto precisare, con l’aiuto del vocabolario se occorre, il significato delle parole della principale e tradurla. Memorizzare la traduzione prima di procedere.
·         Tradurre gli incisi.
·         Tradurre le coordinate usando lo stesso metodo.
·         Individuare i predicati delle secondarie e mediante persona e numero risalire ai loro soggetti che devono essere segnati (elegantemente, se possibile) con una “x” sopra la prima sillaba.
·         Controllare la nitidezza della traduzione e applicare lo stesso metodo ai periodi successivi.
Come si vede, questo procedimento, oltre al vantaggio di affrontare innanzitutto la difficoltà più grave, quella del diverso ordine delle parole nelle frasi, e di individuare gli elementi centrali del periodo, consente il ricorso al vocabolario soltanto dopo che l’emersione del contesto aiuta a selezionare il giusto significato dei singoli termini.
L’altezza degli obiettivi della didattica gentiliana era guastata da intenzioni classiste; tuttavia l’attuale scuola pubblica, assoggettata all’imperativo irrazionale della “vera inclusività”, rinuncia a insegnare, né fa meglio di quella gentiliana sotto il profilo sociale: disprezzando gli obiettivi didattici, essa mantiene ignorante chi la frequenta e lo rallenta rispetto a chi frequenta la scuola a pagamento. Nel suo contesto la preoccupazione di rimodulare il primo approccio alle lingue classiche può soltanto far sorridere. Questo tentativo valga almeno come augurio di tempi migliori.
[1] Ringrazio il prof. Fausto Di Biase per i preziosi consigli durante la stesura di queste riflessioni.
[2] Una nostra traduzione del discorso menzionato è disponibile al seguente indirizzo: http://www.badiale-tringali.it/2016/08/un-discorso-di-hegel.html


I tuoi tentativi di "umanizzare" noi palestinesi sono razzisti - Mariam Barghouti



Essendo una donna palestinese politicamente attiva  in Palestina, ho una profonda familiarità con il razzismo costruito dall' occupazione israeliana che ci nega le libertà fondamentali .Negli  ultimi anni ho assistito a  una cancellazione dell'identità palestinese non solo da parte degli israeliani che ci opprimono, ma anche dalla comunità internazionale , persino quando esprime solidarietà. Sempre più spesso ho notato momenti in cui la mia identità molto araba, molto palestinese, molto musulmana è stata cancellata, non solo dai soldati e dai media, ma dai politici e dai membri della società civile, anche di quelli che cercano di sostenerci. La disumanizzazione incessante dei palestinesi nella politica israeliana non è più scioccante; è diventata emblematica dell'esperienza palestinese. Le ultime elezioni sono state piene di politici come Benny Gantz e il Primo Ministro Benjamin Netanyahu che lottano per superarsi a vicenda nei loro approcci al "problema" palestinese, una lotta ironica dato che gli approcci dei due uomini sono identici; quando Netanyahu promise di annettere la Valle del Giordano , il Partito Blu e Bianco di Gantz lo ha accusato di aver rubato il loro piano .Ma che si tratti di Netanyahu ,che chiede esplicitamente l'annessione e l' espropriazione di terre palestinesi, o di Gantz che si vanta di quanti palestinesi ha ucciso nell'ultima guerra a Gaza, la percezione dei palestinesi che i politici israeliani vendono ai loro elettori non cambia. Siamo selvaggi incivili,secondo gli standard eurocentrici , e per questo fanno bene a  continuare le violazioni contro di noi. Più devastante è la complicità della comunità internazionale in questa disumanizzazione. In un modo meno percettibile, ma comunque distruttivo.  Nessuna ricerca di giustizia, uguaglianza e pace sarà completa senza affrontare questo problema.
.Si pensi all'attenzione sorprendentemente sproporzionata che alcuni palestinesi ricevono su altri come la  giovane attivista Ahed Tamimi o anche me stessa. Provoca questa attenzione il fatto che evochiamo una sorta di dissonanza nell'immagine interiorizzata di come appare un palestinese.
Le immagini dei media e gli articoli sui  palestinesi amplificano la narrazione di loro come selvaggi, assetati di sangue , mascherati con  kaffiyeh,  ribelli che urlano per le strade in un linguaggio incomprensibile. Questi sono i ritratti dei palestinesi e del loro stile di vita,  antagonisti  "non dignitosi" contrapposti  al "nuovo mondo democratico" che Israele incarna .
Nel tentativo di contrastare quell'immagine i membri dei movimenti internazionali di solidarietà spesso ci dicono che dobbiamo essere più "affabili", che noi palestinesi dobbiamo "umanizzare" la nostra situazione. Indipendentemente dalle buone intenzioni, mi chiedo sempre che cosa convinca sia gli individui che le organizzazioni che sia giusto chiedere a un popolo in difficoltà di dimostrare la propria umanità.
Nella sua evocazione di come dovrebbe essere rappresentata “l'umanità”, la comunità internazionale sta effettivamente danneggiando la ricerca palestinese di un riconoscimento della sua dignità e dei suoi diritti. Questa solidarietà selettiva e la mobilitazione intorno ai palestinesi dalla pelle chiara e dai volti non coperti, evidenziano la natura razzista e xenofoba dei cosiddetti paesi "sviluppati" del mondo mentre cercano di sostenerci.
È qualcosa che ho vissuto in prima persona. Le mie esperienze personali come palestinese con una carnagione ambigua, con un vestito e uno stile di vita che contrasta con gli orientalisti, gli stereotipi eurocentrici, mi hanno fatto ottenere il sostegno e persino mi hanno aiutato ad evitare alcune situazioni pericolose durante gli scontri con le forze israeliane . 
Sono stata ignorata dai soldati israeliani ai posti di blocco e considerata meno minacciosa a causa dei miei capelli chiari e della mia pelle marrone chiaro, oltre al fatto che mostro un po' di pelle oltre il viso e le mani. Ho anche un accento americano fluente per mascherare la minaccia rappresentata dalla mia lingua madre araba. Sono stata accolta ai checkpoint da soldati israeliani, a volte con un sorriso che riconosce la mia esistenza, o addirittura salutata da uno "Shalom!" in quanto scambiata per uno di loro. Quando attraverso il ponte di Allenby sono sempre accolta calorosamente, fino a quando non mostro il mio documento di identità. Durante le manifestazioni ho visto l'esercito israeliano fare il profilo razziale degli attivisti internazionali, separandoli dai locali per arrestarli. Gli arresti servono non solo a scoraggiare gli attivisti dall'adesione, ma ad evitare di ferirli mentre cercano di colpire i palestinesi, dato che il ferimento di un'attivista nei media internazionale   prevale sempre su quello subito da un palestinese. Nei media “moriamo” piuttosto che essere uccisi, essere nominati dopo essere stati uccisi è diventato un lusso concesso solo a coloro la cui immagine “umanizza” la Palestina. Associare le richieste di giustizia alla capacità di "umanizzare" la nostra lotta, vuol dire   accettare la visione binaria di "noi" rispetto a "loro". Questo è un rifiuto alla vera uguaglianza. Ecco perché trovo questo discorso "umanizzante" così frustrante. Mentre Israele prende effettivamente più terre e giustifica insediamenti illegali e politiche discriminatorie, la comunità internazionale, esplicitamente o indirettamente, attraverso il proprio razzismo, sta rafforzando le tattiche e le istituzioni israeliane. Eppure riconosco il mio privilegio. Sono più umanizzata della maggior parte dei miei fratelli. Sono una palestinese di Ramallah, una città palestinese della Cisgiordania promossa come centro culturale, con bar locali e spazi aperti, a volte definiti scena del partito palestinese. Sono una palestinese con la possibilità di viaggiare come americana, anche se sono limitata nella libertà di movimento per il mio documento di identità palestinese. Sono una palestinese che parla un inglese fluente. Non sono etichettata automaticamente come una terrorista o una selvaggia. Sono comunque trattata come uno spettacolo. L'ironia è che ciò sembra evocare maggior solidarietà negli internazionali. Lo riconosco. Riconosco che sto navigando in questo spazio come una palestinese che passa per un'internazionale e, se sono protetta dalla violenza, cancello anche una parte della mia identità. Questo ha inavvertitamente creato rotture, sia nel modo in cui mi identifico con la mia gente, sia nel modo in cui la mia gente si identifica con me. Quel che è peggio rinforza le percezioni razziste in generale e nei confronti dei palestinesi in particolare. L'identità palestinese è un insieme di esperienze, immagini, credenze e stili di vita eterogenei e non si può chiedere a gruppi oppressi di mettere a proprio agio gli internazionali. La domanda che dovremmo porre non è quanto siamo simili l'uno all'altro, ma piuttosto, cosa possiamo fare per affrontare l'ingiustizia, anche se ciò significa confrontarci con le nostre percezioni razziste interne.

Se le ong potessero riformare il Trattato di Dublino lo riformerebbero così

Intervista di Angelo Ferrari a Paola Crestani, presidente di LINK 2007, network che raggruppo tredici tra le più importanti organizzazioni non governative impegnate nella cooperazione allo sviluppo. “Continuare a parlare di emergenza è un errore o è una bugia.


Migranti: emergenza o fenomeno gestibile? Quali politiche l’Unione Europea può mettere in campo per governare questo fenomeno che sta catalizzando la politica di tutti gli Stati europei? La revisione del trattato di Dublino è oggi più che mai necessaria per affrontare le migrazioni in maniera organica e solidale tra Stati. La cooperazione allo sviluppo internazionale come può contribuire ad affrontare il problema e quali politiche attive per l’Africa si possono adottare per affermare il diritto a non emigrare. Un “Piano Marshall” per l’Africa può diventare concretezza o rimanere una mera enunciazione?
Di questo, e di molto altro, abbiamo parlato con Paola Crestani, presidente di LINK 2007, che a marzo 2019, ha ereditato la responsabilità e l’impegno di Paolo Dieci nel coordinamento della rete di Ong LINK 2007, dopo l’incidente aereo in Etiopia in cui ha perso la vita. Link 2007 è nata dodici anni fa e raggruppa parte (13) delle più importanti e propositive Ong italiane di cooperazione internazionale e aiuto umanitario. Uno dei temi approfonditi dalla rete è il nesso tra migrazioni e sviluppo.

Migranti e accoglienza: emergenza o sopravvalutazione del fenomeno?
Le Ong della rete LINK 2007 l’hanno più volte ribadito: continuare a parlare di emergenza, come se fossimo fermi agli anni 2014-2017, è un errore o è una strumentale bugia finalizzata ad alimentare tensioni a fini politici. Come è possibile parlare di emergenza se, per fare un esempio del Nord, nella provincia di Venezia i migranti ospitati sono 820, su 860.000 abitanti, l’uno per mille? Dov’è l’emergenza se il numero complessivo dei migranti sbarcati in Italia dal primo gennaio al 19 settembre 2019 è di 6.570? Sono dati non delle Ong ma del ministero dell’Interno. Essi attestano una diminuzione del -93,62% rispetto ai 102.954 sbarchi del 2017 e del -68,50% rispetto ai 20.859 del 2018.
Le percezioni diffuse nella popolazione sono purtroppo diverse, spesso alimentate ad arte, con parole come “invasione” che creano preoccupazioni e paure, ma la realtà è questa: non esiste più alcuna emergenza. La presenza straniera complessiva è pari all’8,7% della popolazione ed è inferiore a quella tedesca (11,7%), austriaca (15,7%), del Regno Unito (9,5%) e di poco superiore a quella francese (7%). Siamo un paese normale dal punto di vista dell’immigrazione. Ma sembra che non si voglia prenderne atto.
Quali politiche occorre mettere in campo perché le popolazioni non subiscano un fenomeno che suscita preoccupazione e, spesso, paura?
L’Italia è uno dei paesi Ocse con la più alta distanza tra percezione e realtà. Per la maggioranza degli italiani, dal 2000 a oggi gli omicidi sono aumentati, quando in realtà hanno visto un calo vertiginoso e sono diminuiti del 47%. Gli immigrati extraeuropei rappresentano nel nostro paese il 7% della popolazione totale, ma per l’opinione pubblica sono il 25%, ovvero uno su quattro, stando ai ripetuti sondaggi d’opinione. Il 47% degli italiani crede che ci siano più irregolari che immigrati regolari, mentre i primi rappresentano non più del 10%. Ovviamente c’è un difetto di comunicazione, a cui anche i media dovrebbero rimediare, e talvolta una vera mancanza di conoscenza nelle stesse autorità politiche.
Però, anche se i dati delle percezioni sono sbagliati, le paure generate sono vere. Si deve quindi mettere in atto, con l’impegno di tutti, quanto necessario per riuscire a dissolverle e dare ai cittadini il segnale che davvero le cose stanno cambiando e che si intende governare l’immigrazione in modo ordinato, regolare e sicuro. Sono, queste, le tre parole chiave del Patto globale sulle migrazioni, a cui il governo italiano dovrebbe ormai aderire, insieme agli altri 164 paesi che già l’hanno sottoscritto. Diverso è il discorso che riguarda contesti già di per sé socialmente difficili e con scarsa possibilità di integrazione degli immigrati. In tali contesti, i cui problemi sono spesso delegati al volontariato, non si vivono percezioni ma difficoltà e contrapposizioni reali. Essi dovrebbero essere maggiormente e particolarmente sostenuti dalle pubbliche amministrazioni. Quando la forbice dell’inclusione si allarga troppo, emarginando, discriminando, negando diritti basilari ad ampie fasce di popolazione, le società entrano in crisi. La necessità di politiche e azioni finalizzate all’inclusione vale per gli immigrati ma, più in generale, per tutti i cittadini in posizione di fragilità e marginalizzazione”.

L’approccio al fenomeno deve superare i confini degli Stati ed essere affrontato a livello europeo?
Dobbiamo avere chiaro il punto da cui partire: la migrazione e la mobilità internazionale sono realtà che esistono da sempre e che non possono essere fermate. Possono però e devono essere governate, regolate, uscendo dalla visione emergenziale che non permette passi avanti. Se viene impedita la possibilità di entrate in un paese in modo regolare – ed in Italia è così da anni – si favoriscono gli ingressi irregolari e i trafficanti criminali che li favoriscono e che trovano sempre vie nuove per superare controlli e divieti. E ciò che vogliamo? No, senza alcun dubbio: potrebbe quindi essere questo un comune punto di partenza.
Stabilire regole precise di ingresso nel rispetto dei diritti umani e della dignità della persona è la via maestra per combattere l’irregolarità e per permettere un’adeguata accoglienza e integrazione. A partire da chi ha bisogno di aiuto e protezione ma soprattutto per definire precisi e appropriati criteri di legalità per chi intenda venire in Italia per lavoro o per studio, anche sperimentando strumenti innovativi per la migrazione circolare e quella ciclica legata alla stagionalità”.
L’apertura alla possibilità di ingressi regolari può anche legittimare opzioni politiche di fermezza contro un’immigrazione incontrollata. Si tratta della migliore arma contro l’illegalità e i traffici clandestini della criminalità organizzata. Ma lei ha ragione ad evidenziare che questa realtà va affrontata a livello europeo, data la sua ampiezza e complessità che rende velleitario ogni tentativo di gestione solo nazionale. La libera circolazione all’interno dell’Ue è uno dei pilastri dell’architettura politica e del processo di integrazione e va salvaguardata, senza barriere tra Stato e Stato. Ma questo richiede strumenti che impediscano ingressi incontrollati. E’ quindi indispensabile affrontare la realtà dell’immigrazione a livello europeo, con regole comuni, solidarietà nell’accoglienza e accordi complessivi con i paesi di maggiore emigrazione”.

La riforma del trattato di Dublino, in tal senso, è un passo decisivo perché le politiche della Ue siano efficaci?
Ad avviso di Link 2007 tre priorità vanno tenute presenti. Recuperare anni di ritardi, sottovalutazioni e cattiva gestione della presenza di immigrati e rifugiati, che l’Ue e gli Stati membri hanno a lungo sottovalutato. Adottare politiche comuni a livello europeo, almeno tra gli Stati che ci stanno, nella condivisione dell’accoglienza e nel superamento di normative e vincoli ormai sorpassati dalla realtà. Modificare il regolamento di Dublino.
Tale regolamento si riferisce ai rifugiati e prevede che il primo paese di arrivo debba provvedere alla valutazione delle richieste di asilo e all’accoglienza. È una regola che aveva senso per i rifugiati dall’Est europeo negli anni ‘90 per evitare duplicazioni di domande; ma nella realtà attuale deve essere modificata, perché il peso ricade da tempo solo sui paesi in prima linea, come l’Italia”.
Il Parlamento Europeo, dopo un anno e mezzo di approfondito lavoro, ha approvato nel novembre 2017 con la maggioranza dei due terzi una proposta di revisione che risponde molto alle esigenze italiane. Essa prevede che tutti gli Stati membri debbano accettare di condividere equamente la responsabilità dei richiedenti asilo. Viene eliminata la disposizione del primo paese di arrivo e i rifugiati devono accettare di restare nello Stato che sarà individuato, che diventa quindi competente ad esaminare la domanda, assicurando la permanenza del richiedente sul proprio territorio; in caso di inadempienza sono previste penalizzazioni con limitazioni nell’accesso ai fondi europei. Questa proposta aspetta solo che il Consiglio europeo la ponga all’ordine del giorno senza tentennamenti”.

La cooperazione internazionale come dovrebbe affrontare questo tema? E quali sinergie tra agenzie nazionali a livello europeo possono essere efficaci per armonizzare l’intervento?
In un documento del 17 gennaio 2017, le Ong di LINK 2007 suggerivano di ripensare e ampliare la cooperazione internazionale per lo sviluppo, enfatizzando priorità quali la creazione di posti di lavoro stabili e dignitosi, il miglioramento delle condizioni di vita, il soddisfacimento delle aspettative formative dei giovani, lo sviluppo e il rafforzamento di istituzioni democratiche virtuose e capaci di lottare contro la corruzione e di favorire le fasce più vulnerabili, in una visione e programmazione di lungo periodo. Chiarendo però che i programmi di cooperazione allo sviluppo potranno affiancare gli accordi e i partenariati migratori, al fine di favorire ogni possibile sinergia, ma non dovranno mai essere confusi con essi: le due finalità possono infatti essere complementari ma non sostitutive l’una dell’altra…
L’Italia, l’Ue e gli Stati membri dovrebbero poi, nonostante le difficoltà, tendere mediamente al raddoppio delle risorse destinate allo sviluppo e agire in modo coordinato con i paesi partner per rendere efficaci e duraturi gli interventi di cooperazione e i piani di investimento, come quello messo in atto dalla Commissione europea, da elaborarsi con i paesi partner in un percorso di accompagnamento tecnico, di sostegno alle istituzioni per creare contesti favorevoli all’investimento, lottare contro la corruzione, attuare politiche fiscali e industriali adeguate, prestare grande attenzione ai contesti sociali e alla salvaguardia dell’ambiente, al fine della sostenibilità ed efficacia degli interventi. Le parole e gli inviti a controllare i flussi migratori non possono bastare: creare sviluppo costa, così come assicurare maggiore equità, benessere e istruzione, garantire sicurezza, prevenire. Gli attuali livelli degli stanziamenti per la cooperazione allo sviluppo sono ben lontani dall’essere adeguati di fronte a così ampi obiettivi, anche perché questi impegni finanziari, se usati bene, rappresentano un investimento per il futuro: dei paesi partner e nostro”.

Vi è un diritto, spesso non considerato, che è quello di “non essere obbligato a emigrare”. Tradotto potrebbe essere elaborato un piano Marshall per l’Africa. Quali potrebbero essere i capisaldi di un piano così fatto?
In una lettera inviata al Presidente del Consiglio Giuseppe Conte nel 2018, LINK 2007 evidenziava proprio questo punto. Ad ognuno dovrebbe essere garantita la libertà di non dovere emigrare, trovando le condizioni per potere prendere in mano la propria vita, valorizzando il vivere nella propria terra per edificare il proprio futuro … Si tratta di una sfida complessa che, per essere vinta, richiede forti partenariati internazionali per lo sviluppo. La cooperazione, nelle sue molteplici articolazioni nazionali e internazionali, può avere un ruolo primario a sostegno di questo processo. Ma va intesa correttamente, coordinando le varie iniziative e i vari soggetti e strumenti in una comune strategia di intervento e nella coerenza delle politiche. Aiutarli ad essere liberi a casa loro, da slogan deve diventare strumento di cambiamento, con una svolta nell’approccio politico e nei partenariati internazionali. Tenendo in particolare considerazione l’Africa, che in trent’anni raddoppierà la popolazione arrivando a 2,4 miliardi di persone e si troverà con un’ampia maggioranza giovane, in gran parte istruita, pronta al lavoro, di fronte al continente europeo in calo demografico e invecchiato”.
Non serve puntare su un “piano Marshall”, anche perché a nostro avviso rimarrà una mera enunciazione. La via intrapresa dall’Italia e dall’Ue degli accordi di partenariato per lo sviluppo dovrà essere rafforzata e perfezionata in una prospettiva di lungo termine e di cammino comune, non a senso unico ma a reale vantaggio reciproco, un co-sviluppo, con positive ricadute sulla popolazione e lo sviluppo delle comunità.
In tema di migrazione, gli accordi di partenariato non devono mai contemplare forme di pressione o intimazione, esercizio di poca utilità e comunque di breve periodo, che annullerebbero sul nascere la pari dignità che dei partenariati è elemento fondamentale. Solo rapporti di rispetto e reciprocità collaborativa permettono di stabilire cooperazioni proficue e durature, a mutuo interesse. Permettono anche di pattuire con i paesi partner quote di ingressi che al contempo rispettino le loro programmazioni e siano compatibili con le nostre possibilità ed esigenze; e anche di concordare condizioni e vincoli ragionevoli di selezione”.
Co-sviluppo può derivare anche dalla valorizzazione delle diaspore, delle comunità organizzate di immigrati inseriti e riconosciuti nelle nostre realtà regionali e territoriali dove sono integrati, mantenendo legami stretti con le comunità di origine. Queste realtà diasporiche mostrano spesso una spiccata iniziativa imprenditoriale investendo nelle due realtà, sia qui in Italia che nei propri territori di origine. Il loro transnazionalismo e translocalismo li fa sentire pienamente qui e lì, rappresentando così un potenziale fattore di collaborazioni e co-sviluppo a livello territoriale. Questa presenza transnazionale potrebbe infatti favorire e facilitare accordi quadro di partenariato tra le due amministrazioni territoriali, da cui potrebbero derivare specifici accordi di cooperazione coinvolgenti le realtà economiche, culturali, imprenditoriali, sociali dei due territori, a reciproco vantaggio e interesse e a maggiore integrazione delle comunità immigrate.

Un piano che, tuttavia, potrebbe scontrarsi con l’organizzazione di diversi Stati africani che, in molti casi, sono cleptocrazie, dittature, dove i diritti elementari della persona sono totalmente disattesi e dove la corruzione è endemica. L’Europa cosa può fare, in questo contesto affinché le sue politiche raggiungano davvero le popolazioni?
È un tema difficile da affrontare in poche righe. L’Europa può fare poco, purtroppo, dato che i condizionamenti, come le sanzioni, raramente hanno indebolito i dittatori ma hanno peggiorato le condizioni, già precarie, della maggioranza della popolazione ed in particolare dei più vulnerabili. E poi, siamo così limpidi nei paesi europei e non siamo forse co-responsabili della dilagante corruzione in molti paesi partner nel mondo? Gli stessi Stati africani e l’Unione africana hanno ben presente la situazione e stanno cercando, nella costruzione e nel rafforzamento dell’Unità africana, di provvedervi. Questa è la migliore e giusta strada: che dovrà essere severa all’interno e verso l’esterno, anche verso i paesi promotori di partenariati.



mercoledì 30 ottobre 2019

Armi alla Turchia: l’Italia continua a fare affari con la vendita di armamenti – Giorgio Beretta




Lo scorso 16 ottobre, il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio ha firmato l’atto interno alla Farnesina per bloccare le «vendite future di armi alla Turchia» e per «avviare un’istruttoria sui contratti in essere».
La misura decisa dal governo italiano, però, non corrisponde alla nota ufficiale emessa nei giorni precedenti: la presidenza del Consiglio aveva comunicato di voler promuovere una moratoria (cioè la sospensione) delle forniture di armi alla Turchia anche in sede europea.
Stop armi alla Turchia: la richiesta di Rete italiana per il Disarmo
Per questo, la Rete italiana per il Disarmo – che fin dall’inizio dell’offensiva turca contro le popolazioni curde nel nord-est della Siria aveva sollecitato il nostro governo a «sospendere con effetto immediato tutte le forniture di armamenti e sistemi militari al Governo di Ankara», ha chiesto che tutti i contratti e le forniture siano bloccati fino al completamento dell’istruttoria.
«Una decisione di blocco totale e immediato, senza quindi dover mettere in campo istruttorie e verifiche sul passato, si sarebbe già potuta e dovuta prendere nel rispetto del dettato Costituzionale (art. 11), della legge 185/1990 che regolamenta le esportazioni di armamenti e delle norme internazionali (Posizione Comune UE e Trattato sul commercio di armi) sottoscritte dall’Italia», esplicita la nota di Rete Disarmo.
Armi alla Turchia: la posizione dell’Italia in ambito Ue
https://www.osservatoriodiritti.it/2019/10/28/armi-turchia-vendita-italia/
Anche in sede europea, l’Italia – nonostante gli annunci – ha proposto misure alquanto deboli nei confronti della Turchia. La richiesta presentata dal nostro paese al consiglio degli Affari esteri dell’Ue non è stata, infatti, una «moratoria» delle forniture in corso, bensì, come ha dichiarato il ministro degli Esteri, Luigi di Maio, solamente di «bloccare nel futuro l’export per gli armamenti verso la Turchia».
Una posizione  molto più blanda rispetto a quella di diversi paesi dell’Unione  – come Svezia, Finlandia e Paesi Bassi – ma sostanzialmente simile a quelle annunciate da Germania e Francia.

Basta armi alla Turchia: l’Europa non vara l’embargo
Il consiglio degli Affari esteri dell’Ue del 14 ottobre scorso, pur rammentando «la decisione presa da alcuni Stati membri di bloccare immediatamente il rilascio delle licenze di esportazione di armi alla Turchia», ha deciso  di impegnare gli Stati membri solamente «in ferme posizioni nazionali in merito alla politica di esportazione di armi alla Turchia».
Una scelta che – come si evince dalle dichiarazioni dell’Alto rappresentante per gli Affari esteri, Federica Mogherini – è stata giustificata dalla necessità di consentire «l’assunzione di decisioni immediate che possono essere prese a livello nazionale e coordinate a livello  europeo».
https://www.osservatoriodiritti.it/2019/10/28/armi-turchia-vendita-italia/
È evidente la volontà del Consiglio non solo di evitare di decretare un embargo di armi verso un paese della Nato come la Turchia, ma anche di non compromettere, con una sospensione formale di tutte le licenze in essere, gli affari con Ankara e le forniture di sistemi militari in corso.
Chi vende armi alla Turchia: le esportazioni europee
I paesi dell’Unione europea sono, infatti, nel loro insieme, i maggiori fornitori di armamenti alla Turchia dopo gli Stati Uniti. Secondo i dati dello Stockholm International Peace Research Institute (Sipri), nell’ultimo decennio i paesi europei hanno esportato sistemi militari ad Ankara per quasi 2,3 miliardi di dollari, una cifra inferiore solo agli Stati Uniti (3,8 miliardi).
Nell’ultimo decennio l’Italia, con 736 milioni di dollari, risulta il terzo fornitore di armamenti per Ankara, preceduta da Stati Uniti e Corea del Sud, che però ha esportato armamenti soprattutto nel quinquennio 2009-2013.
Non va dimenticata inoltre la recente fornitura da parte della Russia di sistemi missilistici antiaerei S-400, un contratto del valore di oltre 2 miliardi di dollari che ha sollevato le proteste degli Stati Uniti.
Armi italiane alla Turchia: ecco chi fornisce Ankara
La maggiore commessa di sistemi militari italiani alla Turchia ha riguardato la licenza nel 2007 rilasciata dalla Agusta-Westland per la produzione ad Ankara di 51 elicotteri da combattimento AW129, tipo Mangusta, denominati T129 Atak: una commessa da quasi 1,2 miliardi di euro, con l’opzione per la produzione di altri 32 elicotteri.
A seguito delle operazioni militare della Turchia nel 2007 per colpire le popolazioni curde in Iraq, la Rete italiana per il Disarmo con un comunicato chiese al governo italiano di «valutare le opportune azioni per porre termine ad ogni tipo di forniture militari alla Turchia».
Nel comunicato, Rete Disarmo riportava un’ampia serie di sistemi militari esportati o da prodursi in Turchia in quegli anni, tra cui la fornitura da parte di Alenia Aeronautica di dieci aerei militari ATR 72 ASW del valore complessivo di 219 milioni di dollari (pari a circa 180 milioni di euro), l’esportazione di 16 cannoni navali compatti della Oto Melara per i pattugliatori turchi per un valore di oltre 52 milioni di euro e gli ordinativi per cinque elicotteri Agusta AB412 modificati militari del valore di 45,6 milioni euro.
Negli anni successivi, l’Italia ha autorizzato nel 2009 a Telespazio (primo contraente) e a Thales Alenia Space la produzione per il ministero della Difesa turco del satellite di osservazione terrestre Göktürk-1, una commessa del valore di circa 262 milioni di euro: il satellite è stato lanciato nel dicembre 2016 dallo spazioporto europeo di Korou nella Guyana francese.
Nel 2010 si sono aggiudicati contratti anche Simmel Difesa, per fornire al ministero della Difesa turco 10.500 bombe da mortaio cal. 60mm. illuminante per un valore di oltre 3, 3 milioni di euro. E Rheinmetall Italia, per fornire 16 mitragliere C/A da 25mm. tipo KBA da 3 milioni di euro.
Affari militari con Erdogan
Nell’ultimo quadriennio, cioè da quando Recep Tayyip Erdoğan è stato eletto presidente della Repubblica di Turchia (agosto 2014), l’Italia ha autorizzato esportazioni di armamenti ad Ankara per un valore complessivo di oltre 890 milioni di euro e ha effettuato consegne per quasi 464 milioni di euro.
In particolare, secondo i dati della Relazione governativa, nel 2018 sono state concesse 70 licenze di esportazione definitiva, per un valore di oltre 360 milioni di euro, che fanno della Turchia il primo acquirente di sistemi militari italiani tra i paesi dell’Ue e della Nato.
Tra i materiali di cui è stata autorizzata l’esportazione figurano armi o sistemi d’arma di calibro superiore ai 19.7mm, munizioni, bombe, siluri, razzi, missili, oltre a strumenti per la direzione del tiro, aeromobili e software.
Le aziende italiane in Turchia
La principale azienda militare italiana a controllo statale, Leonardo (ex Finmeccanica), è da anni presente in Turchia non solo con i suoi uffici di rappresentanza, ma anche con le sue filiali tra cui “Leonardo Turkey Havacılık, Savunma ve Güvenlik Sistemleri” (Leonardo Turchia Aviation, Defence and Security Systems Inc.) e la “Selex ES Elektronik Turkey”, una consociata interamente controllata di Selex ES nel campo dell’elettronica globale e delle tecnologie dell’informazione. Per Leonardo «la Turchia rappresenta – già dai tempi di Finmeccanica – non solo un semplice mercato potenziale, ma soprattutto un partner industriale».
Leonardo è inoltre in gara in Turchia col suo aereo multi-missione C-27J Spartan e con l’elicottero multiruolo medio-pesante AW101, un mezzo in grado di essere impiegato in una vasta gamma di operazioni, sia terrestri sia marittime.
Non va inoltre dimenticato che l’azienda Beretta dal 2002 ha acquisito la Stoeger di Istanbul, costruendo una nuova fabbrica, e dal 2005 produce su licenza del ministero della Difesa turco non solo per il mercato interno ma, come si legge sul sito, esportando le proprie armi, di tipo comune, per forze di sicurezza e la difesa in 40 Paesi.
Vendita di armi alla Turchia: l’Italia continua il business
L’Italia sta continuando a fornire armi e munizioni di tipo militare alla Turchia. Nei primi sei mesi del 2019, secondo i dati forniti dal commercio estero dell’Istat, l’Italia ha esportato una cifra record di oltre 46 milioni di euro di armi e munizioni di tipo militare ad Ankara. Per la gran parte (oltre 39 milioni di euro) si tratta di armi e munizionamento militare prodotti nella provincia di Roma, ma figurano anche quasi 5 milioni di euro dalla provincia di Brescia, soprattutto per componenti di armi come canne e caricatori (3,7 milioni di euro) che possono essere sia di tipo comune sia militare.



Nel luglio scorso, la #Turchia è il secondo paese al mondo a cui l'Italia ha esportato #armi e munizioni: per la Turchia sono quasi tutte di tipo militare. Nuove armi sono pronte per essere spedite. Min. @LuigiDiMaio il suo atto sospende queste forniture o no?#StopArmiTurchia


Nel primo semestre del 2019, l'Italia ha esportato in #Turchia un record di quasi € 46,7 milioni di #armi e munizioni. A differenza di quelle per gli USA, sono sopratutto di tipo militare. Il Parlamento chieda conto di queste forniture e di prossime forniture.#StopArmiTurchia
  
Nel mese di luglio (ultimo disponibile), sono state esportate in Turchia armi e munizionamento, anche queste di tipo prevalentemente militare, per un valore di quasi 17,8 milioni di euro.
Non solo. Come ha rivelato una recente inchiesta di Repubblica, proprio in questi giorni l’azienda Rheinmetall di Roma sta per spedire ad Ankara un mitragliere da 25 mm. tipo KBA completo di accessori che è parte di un lotto di 12 mitragliere autorizzato nel 2016, di cui finora ne sono stati inviati solo otto. Altri tre sarebbero pronti ad essere imbarcati.
Secondo le agenzie, l’atto interno alla Farnesina firmato dal ministro Di Maio – che non è stato reso pubblico – non prevede di sospendere queste forniture. Le nuove armi made in Italy potranno perciò essere utilizzate dai militari di Erdoğan contro le popolazioni curde. Spedizioni che vanno subito fermate. Siamo ancora in tempo.
PS. Ieri, domenica 27 novembre, è morto p. Eugenio Melandri. Un protagonista dell’impegno per la pace, il disarmo, il controllo degli armamenti (ne ho parlato nel mio primo articolo per questo blog). Ma soprattutto un amico, un compagno di strada. Grazie p. Eugenio!