martedì 15 ottobre 2019

Tutta la storia dell’omicidio di Jamal Kashoggi. E di come il mondo si è girato dall’altra parte - Evan Ratliff




Un anno fa il giornalista Jamal Kashoggi entrava nel consolato saudita di Istanbul, dal quale non sarebbe mai più uscito. Nei mesi successivi le circostanze relative alla sua scomparsa e al suo assassinio sarebbero emerse in modo frammentario: una faccenda di spie ad alta tecnologia, un complotto diabolico, una macabra uccisione, un assurdo depistaggio arrivato fino alle più alte sfere del governo saudita, favorito dall’indifferenza e dall’accanimento della Casa Bianca. Alla fine, tutti questi frammenti sono arrivati a formare un quadro raccapricciante.
Lo scorso giugno la relatrice speciale delle Nazioni Unite per le esecuzioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie ha pubblicato un rapporto di cento pagine approfondendo l’affare Kashoggi. La sua uscita non è però servita quasi a nulla nel suscitare azioni concrete.
Ecco la storia, per ciò che possiamo saperne, con le illustrazioni di Chris Koehler e presentata in forma di reportage narrativo dallo scrittore Evan Ratliff. Questo resoconto si basa sulle nostre inchieste, sul rapporto delle Nazioni Unite, su centinaia di resoconti e interviste in video – dal The New York Times, The Washington Post, The Wall Street Journal, e dal The Daily Sabah, una fonte turca – e da testimonianze pubbliche.

La stiamo riproponendo perché la storia di Jamal Kashoggi dovrebbe essere ascoltata per intero. E perché anche se pensate di sapere ciò che è accaduto, potreste non sapere come o perché.
In seguito, è stato facile dimenticare che fosse innamorato.
Questo era il Jamal Khashoggi arrivato in volo la mattina presto del 2 ottobre a Istambul. Era a pochi giorni dai suoi sessant’anni, divorziato, in esilio volontario dalla nativa Arabia Saudita, vivendo da solo in Virginia. La sua alta figura rivelava una certa pancetta, e la capigliatura si era diradata ai lati. La brizzolatura quasi completa della barba copriva un viso da gufo, con un paio d’occhi che potevano tradire nello stesso momento facile allegria e profonda tristezza.
Dai suoi colleghi era stimato come persona brillante, da giornalista del The Washington Post acclamato a livello globale qual’era. Aveva però trascorso la maggior parte dei suoi giorni a lottare con il peso di ciò che si era lasciato alle spalle, scrivendo nella speranza di rompere l’indifferenza del mondo nei confronti della strisciante repressione nel suo paese d’origine. Era sgomento nel vedere il suo artefice, il principe ereditario Mohammed bin Salman – in Occidente noto come MBS – celebrato da Washington e dalla Silicon Valley come un riformatore dinamico, mentre in patria i suoi amici e colleghi languivano in prigione per aver detto la verità. La sua missione, era arrivato a pensare, era parlare per loro.
Quella mattina d’autunno a Istanbul, Khashoggi era però sceso dall’aereo con uno scopo completamente diverso. Cinque mesi prima, all’inaugurazione di una conferenza sulla politica mediorientale, era stato avvicinato da una ricercatrice di trentacinque anni, di nome Hatice Cengiz. Conosceva il suo lavoro e voleva intervistarlo per un articolo che stava scrivendo. Andò a cercarlo durante la pausa caffè. Parlarono per quasi mezz’ora. Gli aveva fatto domande sulle prospettive di riforma in Arabia Saudita; lui l’aveva riempita di domande sulla politica turca. Alla fine, il loro scambio aveva iniziato a sembrare qualcosa di più profondo. Prima del successivo viaggio a Istanbul, le aveva mandato un’e-mail per chiederle se avrebbe voluto rivederlo.
Il resto accadde rapidamente, alla velocità di due persone che già si conoscevano. A settembre lui aveva incontrato i genitori di lei. I progetti di matrimonio erano già in corso. La coppia aveva comprato un appartamento a Istanbul, un’ancora a oriente per ciò che sarebbe diventata una doppia vita, tra lì e gli Stati Uniti.
Il 28 settembre erano andati all’ufficio per i matrimoni civili di Istanbul per affrontare il lato burocratico delle nozze. Avevano un solo piccolo problema: poiché Khashoggi era cittadino saudita, avrebbero avuto bisogno di un certificato del suo governo che affermasse che non era sposato. Per averlo bisognava chiedere al consolato saudita.
D’impulso, la coppia ci era andata lo stesso giorno. Prima di entrare Khashoggi aveva lasciato i suoi due telefoni a Cengiz, sapendo che sarebbero stati ritirati dai funzionari del consolato e temendo che avrebbero colto l’occasione per poterli violare. Era diffidente. Una volta entrato lo staff lo aveva però salutato in modo affettuoso. Non potevano procurare immediatamente il documento richiesto, ma se fosse tornato il 2 ottobre glielo avrebbero fatto trovare pronto, dicevano. Nel pomeriggio andò in aeroporto e prese il volo delle 14:40 per Londra, per essere a una conferenza.
La notte prima del suo ritorno Cengiz non riusciva a dormire, la testa ingarbugliata e nervosa. Alla fine si abbandonò al sonno, e fu svegliata da una telefonata del suo fidanzato: il volo era arrivato in anticipo. Khashoggi prese un taxi per l’appartamento che avevano acquistato, ancora disabitato, in un comprensorio del quartiere di Topeka a Istanbul. Una telecamera di sicurezza piazzata nell’ingresso li aveva sorpresi mentre entravano tenendosi per mano, poco prima delle 5 del mattino.
Kashoggi chiamò il consolato. Un funzionario gli disse di arrivare all’una del pomeriggio per ritirare il documento.
Uscirono verso l’una meno un quarto. Le telecamere di sorveglianza hanno ripreso la tranquilla passeggiata mano nella mano della coppia. Khashoggi indossava una camicia a colletto aperto e un blazer, Cengiz il velo e un lungo abito nero.
Al blocco di sicurezza collocato sul lato sud del consolato, Khashoggi le consegnò ancora una volta i suoi telefoni. Un agente di sicurezza eseguì una rapida scansione su Khashoggi usando un rivelatore portatile di metalli. Quindi il giornalista passò tra le barriere di metallo e si avviò rapidamente verso l’ingresso principale. Un portiere con un blazer azzurro chiaro lo salutò con un lieve inchino, ed eccolo scomparso.
Per mesi i sauditi avevano cercato di attirarlo nel loro regnoNon si sarebbero mai aspettati che potesse semplicemente varcarne l’ingresso principale. Ma è quello che successe il 28 settembre quando si presentò senza preavviso al consolato.
I funzionari sapevano bene che tra i principali ricercati del governo c’era lui, ma non esisteva nessun protocollo per chiunque di quella lista che fosse spontaneamente comparso in mezzo a loro. Quindi lo lasciarono andare, affidandosi alla “carota” che sapevano l’avrebbe fatto tornare. Quando quel pomeriggio il volo verso Londra di Khashoggi ebbe raggiunta l’altitudine di crociera, la macchinazione per porre fine alla sua vita era già in moto.
Appena uscito Khashoggi, l’addetto alla sicurezza del consolato fece un paio di telefonate ai servizi di sicurezza sauditi. Nel consolato l’intelligence turca aveva a sua volta un sistema di sorveglianza audio attivo e funzionante, un classico dei giochi di “spie contro spie” abitualmente in corso tra due rivali diplomatici. Le registrazioni non erano però ascoltate in tempo reale (per coincidenza, il giorno prima della prima visita di Khashoggi i sauditi avevano inviato una squadra di rilevamento per passare in esame l’edificio alla ricerca di microspie. Se fossero stati più competenti, il mondo non avrebbe mai potuto scoprire cosa fosse successo al suo interno). Parte di quei nastri furono successivamente fatti ascoltare a un investigatore delle Nazioni Unite, e le trascrizioni fatte trapelare ai giornalisti turchi.
In una delle telefonate Maher Abdulaziz Mutreb, ufficiale dell’intelligence saudita visto spesso insieme a Mohammed bin Salman durante i suoi viaggi internazionali, chiese se Khashoggi sarebbe tornato. Il funzionario confermò che gli era stato detto di tornare il 2 ottobre per ritirare i suoi documenti.

Gli ingranaggi dei servizi segreti si misero rapidamente in moto. Il consolato trasmise velocemente a Riyad video e immagini della visita di Khashoggi. Quella sera, lintelligence turca aveva registrato la voce del console generale a Istanbul, Mohammed Alotaibi, mentre parlava con un altro ufficiale saudita di una telefonata ricevuta dal capo della sicurezza della nazione. Aveva bisogno di personale per svolgere “una missione speciale della massima segretezza” che sarebbe durata circa cinque giorni. Il regno avrebbe fornito voli e alloggio, aveva detto l’ufficiale saudita.
Durante la notte Alotaibi organizzò tutta la logistica, specificando ai funzionari che la missione in questione era “molto importante e in rapida evoluzione”. Qualcuno del consolato sarebbe dovuto tornare a casa per un “addestramento urgente”, aveva detto a un altro funzionario. “Mi hanno chiamato da Riyad”, aveva detto. “Mi hanno detto di aver richiesto un funzionario che avesse lavorato sul protocollo. Il problema è assolutamente segreto. Nessuno dovrebbe saperlo in nessun modo. Nessuno dei tuoi amici sarà informato.”
Il giorno dopo due ufficiali dei servizi lasciarono Istambul per Riyad.
I due tornarono poi con un volo di linea il primo ottobre, il giorno prima del previsto arrivo di Khashoggi. Con loro c’erano altri tre ufficiali dei servizi sauditi, due dei quali avevano lavorato negli uffici del principe ereditario.
La mattina del 2 ottobre, appena un’ora prima che lo stesso Khashoggi passasse dall’aeroporto, altri nove sauditi dotati di immunità diplomatica si erano precipitati fuori da un volo privato proveniente da Riyad. Tra questi c’era Mutreb, con l’incarico di comandante di terra della missione. Con lui quattro ufficiali di sicurezza e dei servizi sauditi, due dei quali membri della squadra di sicurezza di Mohammed bin Salman, e un generale di brigata di nome Mustafa Mohammed Almadani, che assomigliava in modo passabile a Khashoggi. Il personaggio più strano del gruppo era Salah Mohammed Tubaigy, un medico legale del Ministero degli Interni. Era noto per eseguire autopsie in modo rapido.
La squadra contava ora quindici membri. Si registrarono in un paio di hotel vicino al consolato – il Wyndham e il Mövenpick – aspettando la mossa successiva.
Mentre il console generale stava dando notizia al personale non saudita di rimanere a casa per la giornata, Khashoggi stava probabilmente facendo colazione con Cengiz. Ad altri del consolato fu detto di uscire entro mezzogiorno per una delicata riunione diplomatica che avrebbe avuto luogo quel pomeriggio nell’edificio.
Le quindici persone si divisero in due gruppi. Cinque lasciarono i loro alberghi e andarono in macchina alla residenza del console generale, a pochi chilometri di distanza. Gli altri dieci camminarono fino al vicino consolato.
Le telecamere hanno inquadrato Mutreb mentre usciva dal suo hotel in abito scuro, per poi passare gli stessi controlli di sicurezza che Kashoggi avrebbe attraversato tre ore più tardi. Mutreb fu seguito in breve tempo da Tubaugy, il medico, e da Almadani, il sosia di Khashoggi. Appena passato mezzogiorno un’automobile uscì in retromarcia da un vialetto coperto a lato del consolato. Al suo posto arrivò un furgone nero squadrato.
Dopo aver visto il suo fidanzato entrare nel consolato, Cengiz andò in un supermercato vicino e comprò un giornale per passare il tempo, insieme a un po’ d’acqua e del cioccolato per quando lui fosse tornato. Con il passare del tempo non trovò alcun motivo di preoccuparsi: nella precedente visita, i funzionari avevano impiegato tre quarti d’ora solo per informare Khashoggi che sarebbe dovuto tornare un altro giorno.
Alle quattro di pomeriggio il fastidio dell’attesa iniziò lentamente a diventare preoccupazione. Chiamò la sorella, chiedendole di controllare l’orario di chiusura del consolato (forse dimenticando che avrebbe potuto farlo lei stessa). Qualche momento più tardi la sorella rispose con un messaggio: il consolato aveva chiuso quaranta minuti prima.
Uno spesso velo di paura avvolse Cengiz. Si avvicinò alla porta d’ingresso e informò l’agente turco che il suo fidanzato, cittadino saudita, era entrato ore prima e mai riemerso. L’agente rispose di presumere che tutti fossero andati via. Chiamò il numero principale del consolato e raccontò la stessa storia al funzionario che aveva risposto. L’agente riappese e tornò dove lei stava aspettando.
L’edificio era vuoto, disse. Jamal Khashoggi non era più all’interno.
Nel giro di poche ore, la scomparsa di Khashoggi conquistò i titoli della stampa internazionale. Nella sua risposta iniziale, il governo saudita dichiarò di essere confuso e preoccupato quanto il resto del mondo. “Il signor Khashoggi è entrato nel consolato per richiedere documenti relativi al suo stato civile, ed è uscito poco dopo”, avevano dichiarato i sauditi all’Associated Press. “Il governo dell’Arabia Saudita segue con attenzione tutte le notizie relative alla sicurezza di qualunque dei suoi cittadini”.
La notte successiva, il 3 ottobre, nella capitale saudita di Riyad, un gruppo di giornalisti di Bloomberg si sedette di fronte a Mohammed bin Salman, appollaiato sui divani di un’opulenta sala del Palazzo Reale. Lo spunto per l’intervista, concessa prima che la scomparsa di Khashoggi facesse notizia, era stata una disinvolta dichiarazione del presidente Donald Trump durante un evento politico nel Mississippi, dove aveva affermato che lo stato saudita non sarebbe “durato due settimane” senza il supporto degli Stati Uniti
Il principe ereditario dichiarò di non sentirsi colpito. “L’Arabia Saudita era lì prima degli Stati Uniti d’America”, osservò, mentre una mappa del mondo bordata d’oro incombeva su di lui. “Dobbiamo accettare che qualunque amico potrà dire cose sia buone sia cattive.”
Il discorso passò poi alle prospettive di un’imminente offerta pubblica per la compagnia petrolifera saudita, Aramco, e del contributo di quarantacinque miliardi di dollari del governo saudita al “Vision Fund“, un pool di investimenti di venture capital creato dalla società giapponese Softbank per cento miliardi di dollari. Il Vision Fund aveva riversato centinaia di milioni di dollari per far crescere startup come Uber, Slack, WeWork e DoorDash, spargendo denaro saudita come fosse polvere fatata all’interno dei centri tecnologici americani. Senza la grandezza dell’Arabia Saudita, aveva sottolineato il principe ereditario, non sarebbe esistito un Vision Fund. Aveva poi offerto uno scoop ai giornalisti: i sauditi hanno programmato il collocamento di altri quarantacinque miliardi di dollari nel prossimo round del fondo.
Circa a metà dell’intervista, uno dei giornalisti sollevò il mistero di dove si trovasse Khashoggi.
“Abbiamo sentito quello che è successo”, ha risposto Mohammed bin Salman. “È un cittadino saudita, siamo molto ansiosi di sapere cosa gli è successo“. Ha confermato che Khashoggi era stato al consolato, indicando però che dopo un po’ era andato via. Il governo turco, ha aggiunto, è stato invitato a perquisire il consolato: territorio sovrano saudita, aveva fatto notare. “Non abbiamo nulla da nascondere“, aveva detto Mohammed bin Salman.

Mentre parlava, alcune crepe stavano già strisciando sulla superficie della versione ufficiale saudita. I funzionari turchi avevano infatti dichiarato pubblicamente che Khashoggi non aveva mai lasciato il consolato. Il 7 ottobre, mentre il consolato saudita iniziava a essere evasivo sulle ricerche promesse da Bin Salman, i turchi affermavano invece in modo netto che Khashoggi era stato ucciso lì – aggiungendo di avere anche le prove. Il 10 ottobre i funzionari dei servizi turchi avevano diffuso immagini tratte dalle telecamere di sicurezza, che mostravano l’arrivo della squadra di esecuzione.
La spiegazione da parte saudita si è evoluta da dubbia a farsesca. Hanno definito le accuse “false notizie” e “bugie”, affermando che i loro uomini avevano semplicemente viaggiato in Turchia per una vacanza di gruppo.
Il 15 ottobre il presidente Trump si era per la prima volta speso sulla scomparsa di Khashoggi. In piedi sotto un ombrello, fuori dalla Casa Bianca, Trump aveva detto che il re saudita Salman, padre di Mohammed bin Salman, gli aveva personalmente espresso un “assoluto diniego” a proposito di un qualsiasi coinvolgimento del suo governo.
“Non voglio mettermi nei suoi panni, ma mi è sembrato come se fossero stati dei criminali comuni”, ha detto Trump. “Chi può dirlo? Stiamo provando ad arrivare in fondo al più presto.”
Quando è iniziata la storia dell’omicidio di Jamal Khashoggi? Nel giugno 2017, quando il re saudita Salman bin Abdulaziz Al Saud aveva convocato suo nipote Mohammed bin Nayef, dicendogli che avrebbe fatto cadere le sue pretese reali in favore del cugino? Nel giorno in cui, lo stesso mese, Khashoggi – ormai cosciente del cupo futuro per la libertà di stampa sotto Mohammed bin Salman – era fuggito spaventato dal paese, lasciando dietro di sé una moglie dalla quale avrebbe dovuto divorziare e dei figli che avrebbe visto sempre più di rado?
Forse è stato quel sabato di novembre del 2017, quando agli ospiti del Ritz-Carlton di Riyad fu chiesto di fare in fretta i bagagli e andare via.
Quel giorno i normali ospiti furono sostituiti da centinaia di principi anziani e funzionari governativi, arrestati per volere del principe ereditario con l’accusa di corruzione. All’interno di questa prigione di velluto, Saud al-Qahtani, grande collaboratore di Mohammed bin Salman, più noto per aver gestito l’ufficio dei social media del governo saudita, contribuì a organizzare gli interrogatori e le torture. Al-Qahtani si era vantato con un uomo d’affari canadese che i detenuti erano stati schiaffeggiati e appesi a testa in giù. Secondo quanto riferito, un generale era morto con il collo rotto, ma le informazioni accertabili erano scarse. Il governo saudita ha negato le accuse di abusi corporali. Ha soltanto comunicato che i prigionieri avevano accettato di riconsegnare ricchezze presumibilmente mal meritate.
Le vicende del Ritz suscitarono diffuse condanne in ambito internazionale. Tranne dalla Casa Bianca, dove Jared Kushner, genero e consigliere del presidente Trump, aveva stretto legami con l’allora trentunenne principe ereditario. Si diceva che fossero in regolare contatto su WhatsApp. “Hanno individuato un partner davvero allineato a Washington, Jared Kushner, e lo hanno saputo coltivare con successo”, ha dichiarato Elizabeth Dickinson, senior analyst per la penisola arabica presso Crisis Group. “Non c’è altro modo di vederla. È stato visto come un modo per inserirsi ed è stato preso al volo.” Secondo quanto riferito, Mohammed bin Salman ha in seguito riferito al principe ereditario degli Emirati Arabi di tenere Kushner “in tasca“. Lo stesso Kushner era andato a trovare Bin Salman giorni prima che iniziasse quel terremoto.
“Ho una grande fiducia nel Re Salman e nel principe ereditario dell’Arabia Saudita, sanno esattamente cosa stanno facendo”, aveva scritto Trump in un tweet durante la repressione. “Alcuni di quelli che stanno trattando duramente hanno ‘munto’ il loro paese per anni!”
Se la faccenda del Ritz potè dare una lezione di relazioni internazionali a Mohammed bin Salman, è stato per assicurargli che le accuse di rapimento e tortura avrebbero pesato ben poco per sminuire la sua statura di giovane riformatore negli Stati Uniti. In alcuni ambienti, la retorica “anticorruzione” serviva solo a rafforzare quella posizione.
Lo stesso mese delle detenzioni al Ritz, l’editorialista del The New York Times Thomas Friedman raccontò di essere volato a Riyad per un epico faccia a faccia con Bin Salman. Lodandolo come un agente del cambiamento ossessionato dal lavoro, Friedman indicò la repressione come correttivo necessario, a parte le maniere. “Solo uno sciocco”, ha scritto, non farebbe il tifo per l’ipotetico programma di riforme di bin Salman. Friedman aveva chiuso l’articolo con una domanda per Bin Salman presa in prestito da una poesia di Hamilton: perché ha lavorato così duramente “come se il tempo stesse finendo?” “Temo che il giorno della mia morte sarò morto senza realizzare ciò che ho in mente”, aveva risposto il principe ereditario.
Khashoggi aveva una visione diversa di quelle realizzazioni. Anche lui avrebbe voluto vedere la fine della corruzione dilagante nel regno, aveva scritto in novembre in un articolo sul The Washington PostMa gli entusiasti di bin Salman stavano ignorando la sua diffusa repressione. “Al momento direi che Mohammed bin Salman si sta comportando come Putin”.
Quattro mesi dopo Khashoggi apparve nel programma UpFront di Al Jazeera, con il giornalista Mehdi Hasan. Nel gruppo di ospiti c’era anche un sostenitore del regime, che sosteneva che bin Salman era un riformatore che lavorava per modernizzare e liberare il regno, un leader che avrebbe dovuto essere “giudicato nel contesto della storia del suo paese”.
Per Khashoggi, il problema non erano tanto le riforme – aveva da tempo sostenuto gli sforzi per emancipare le donne, ad esempio – ma la repressione intellettuale che sembrava animare gli sforzi del principe ereditario. “Mentre parliamo ci sono intellettuali e giornalisti sauditi incarcerati”, ha detto in modo sofferto. “Lo vedo ancora come un riformatore. Ma sta raccogliendo tutto il potere nelle sue mani. Sarebbe molto meglio per lui concedere uno spazio di respiro alla critica, agli scrittori sauditi, ai media sauditi, per discutere della più importante e necessaria trasformazione in corso nel paese.”
Era la possibilità di un dialogo aperto che aveva spinto Khashoggi nel giornalismo. Nipote di un medico che aveva in cura il re Abdulaziz Al Saud, il fondatore dell’Arabia Saudita, Khashoggi è cresciuto accanto alla famiglia reale. Era stato sedotto da politiche religiose radicali, unendosi ai Fratelli Musulmani a vent’anni, prima di diventare giornalista. Si era poi fatto un nome raccontando le gesta di un giovane Osama bin Laden prima di Al Qaeda in Afghanistan, crescendo fino a diventare editorialista e editore di quotidiani, lavorando persino all’interno della corte. La gente lo riconosceva per la strada, fermandolo per ringraziarlo del suo lavoro.

Col passare del tempo sarebbe diventato un ostinato sostenitore delle riforme, sia nel governo sia nella società saudita. Nel 2010 Khashoggi era stato però licenziato dal suo incarico di caporedattore del quotidiano Al Watan per aver pubblicato articoli che sfidavano le rigide leggi islamiche del paese. Era il secondo licenziamento che subiva dalla stessa testata; dopo il primo, si era recato all’estero per lavorare come portavoce del principe Turki al-Faisal, ambasciatore saudita nel Regno Unito e poi negli Stati Uniti. La seconda volta era durato tre anni, ma nel 2016 le sue opinioni lo fecero completamente bandire dai giornali e dalla televisione sauditi. Alla fine di quell’anno, dopo aver scritto un articolo su un giornale di Londra in cui criticava il neoeletto presidente Trump, ricevette una telefonata da al-Qahtani, che gli informava che “non gli era permesso di twittare, scrivere, parlare. ”
Meno di un anno dopo era fuggito dal suo paese, sbarcando in Virginia. Lì si unì al The Washington Post come opinionista, tentando di risvegliare il mondo nei confronti della repressione nel suo paese nel modo in cui aveva articolato gli stessi temi durante UpFront nel marzo del 2018. Quella notte, Hasan chiese a Khashoggi perché avesse scelto di esiliarsi. “Semplicemente perché non voglio essere arrestato”, ha detto.
Ai primi di aprile, un altro gruppo di clienti abituali degli hotel di lusso era stato improvvisamente informato della cancellazione delle loro prenotazioni. Stavolta si trattava del Four Seasons Silicon Valley di Palo Alto, e gli ospiti avrebbero fatto largo al principe ereditario e alla sua delegazione di decine e decine di persone.
Mohammed bin Salman era alla fine di un viaggio attraverso gli Stati Uniti, un coreografico sforzo di pubbliche relazioni per abbellire la sua immagine e consolidare i legami con leader politici e commerciali – di entrambe le società in cui il principe aveva investito e di quelle che stava corteggiando. Cambiando il tradizionale thobe saudita in un completo con una camicia dal colletto aperto, si era incontrato con un sorridente Richard Branson in un capannone della Virgin Galactic nel sud della California. Ebbe l’occasione di provare il goffo prototipo degli occhiali di Magic Leap, l’azienda nel campo della realtà aumentata con sede in Florida, che aveva raccolto oltre due miliardi di dollari senza aver mai fatto uscire un prodotto. Nella valley avrebbe poi incontrato i fondatori di Google, Larry Page e Sergey Brin, e il suo attuale CEO, Sundar Pichai. Si era fatto quattro risate con Tim Cook e camminato per le luminose sale curvilinee del nuovo gigantesco quartier generale della Apple. Aveva fatto salotto con capitalisti di ventura delle blue chip come Marc Andreessen, Vinod Khosla e Peter Thiel.
Bin Salman non era nuovo a visite di questo tipo. Nel 2016 si era fermato in Facebook per fare un giro con Mark Zuckerberg. Allora come adesso, la storia che lo ha preceduto è stata quella di un giovane acceleratore al passo con il mondo dell’alta tecnologia, determinato a trasformare una secolare monarchia. Ma quella volta arrivò come futuro re e intimo del genero del presidenteNella valley aveva portato anche qualcosa di ancora più attraente: pacchi di soldi.
Con Mohammed bin Salman, il regno aveva iniziato a travasare denaro nel mondo della tecnologia per diversificare la sua economia, liberandosi dalla dipendenza della produzione petrolifera, azione fulcro di “Vision 2030”, il piano di modernizzazione economica di bin Salman. Quegli investimenti sono stati anche un veicolo per rafforzare la posizione dell’Arabia Saudita nella comunità internazionale. “Quando metti soldi da qualche parte, hai influenza e sei sempre più connesso al sistema finanziario internazionale”, ha dichiarato Yasmine Farouk, esperta in Arabia Saudita presso il Carnegie Endowment for International Peace. “Il sistema ha bisogno di te.”
Il fulcro dell’investimento di Mohammed bin Salman era un gigantesco contributo di quarantacinque miliardi di dollari da parte del Public Investment Fund (PIF) al Vision Fund di Softbank. Quando il fondo è stato lanciato nel 2017 è immediatamente diventato il più grande soggetto della valley. Si è subito rivelato il principale azionista di Uber e ha iniettato oltre 125 milioni di dollari in Slack, la startup di messaggistica aziendale. Da sola, WeWork ha raccolto 6,4 miliardi di dollari. Ma era solo l’inizio.
Ben prima dell’apparizione di Khashoggi ad Al-Jazeera, alla vigilia del viaggio di bin Salman nella Silicon Valley, il PIF aveva annunciato un ulteriore investimento diretto di quattrocento milioni di dollari in Magic Leap. Il PIF aveva inoltre concordato il versamento di altri quattrocento milioni di dollari in Endeavor, holding dell’agenzia di talenti aziendali WME a Los Angeles. In ballo c’era anche un secondo Vision Fund, che si sarebbe concentrato sul finanziamento della tecnologia per l’intelligenza artificiale.
Se i dirigenti della Silicon Valley fossero stati propensi ad affrontare Mohammed bin Salman per i suoi esiti nel campo dei diritti umani – e a quel punto c’erano poche prove che lo fossero – il finanziamento senza fondo che lui aveva promesso sembrava sufficiente a metterli nell’umore di lasciar perdere.
Tra tutta la buona volontà e le opportunità condivise c’era però qualcosa – qualcuno – in agguato dietro i sorrisi e le strette di mano: Maher Mutreb. È stato spesso colto sullo sfondo di fotografie con un’espressione accigliata, mentre il principe ereditario salutava personaggi del mondo della società e degli affari. Addestrato negli Stati Uniti, il Mutreb colonnello dell’intelligence aveva lavorato per al-Qahtani, il capo dell’ufficio social media sauditi, la stessa persona che aveva partecipato alle torture del Ritz-Carlton di Ryad. Mutreb aveva conosciuto Khashoggi nella metà degli anni 2000, quando entrambi avevano passato del tempo a Londra.
Il capo di Mutreb, al-Qahtani, aveva continuato a contattare per mesi Khashoggi, consigliandogli in modo cordiale che era tempo di tornare dal suo esilio volontario. Al-Qahtani rassicurava il giornalista che sarebbe stato al sicuro, offrendogli persino un lavoro a corte, se fosse tornato. Khashoggi aveva educatamente rifiutato. Aveva l’aria, disse agli amici, di uno stratagemma per sbatterlo in prigione.
Dietro le quinte della corte di Mohammed bin Salman, il dibattito sul destino di Khashoggi era comunque stato decisamente meno favorevole. Dopotutto Khashoggi non era soltanto un altro dissidente straniero contro la leadership del regno – bensì un ex addetto ai lavori le cui critiche erano viste piuttosto come un tradimento.
“Potremmo attirarlo fuori dall’Arabia Saudita e metterci d’accordo”, aveva detto nell’agosto del 2017 il principe ereditario ai suoi, come avrebbe in seguito rivelato il The Wall Street Journal. Secondo le intercettazioni ottenute da fonti di intelligence dal The New York Times, un mese dopo i suoi argomenti erano diventati più agghiaccianti. Si lamentava con al-Qahtani degli articoli critici e della incisiva presenza su Twitter di Khashoggi.
Al-Qahtani l’aveva avvertito che perseguire all’estero un giornalista avrebbe portato a reazioni negative. Secondo quanto riferito, bin Salman aveva risposto che l’interesse nazionale dell’Arabia Saudita sminuiva il rischio di un po’ di cattiva pubblicità.
Se Khashoggi non poteva essere attirato da nessuna parte, avrebbe concluso Mohammed bin Salman, bisognava farcelo arrivare con la forza. E se non avesse funzionato?
Allora si sarebbe potuto inseguire Khashoggi, come detto secondo quanto è stato riferito, “con un proiettile”.
Per l’attuale governo saudita, chiaramente Jamal Khashoggi non era un semplice giornalista che viveva all’estero criticando il regime.
Era un traditore della famiglia reale, alla quale un tempo era stato vicino.
A queste offese nell’estate del 2018 si sarebbe aggiunta una terza rivelazione. Sembra che quest’ultima sia il prodotto di spionaggio ad alta tecnologia messo in atto da forze collegate all’intelligence saudita, secondo un laboratorio di ricerca sulle tecnologie di sorveglianza con sede in Canada. Khashoggi stava iniziando a fare più che criticare, come dimostravano le indagini. Stava aiutando a organizzare le forze per contrastare le repressioni di Mohammed bin Salman.
Nel maggio del 2018, a meno di un mese dalla visita di cortesia di bin Salman negli Stati Uniti, un dissidente saudita di 27 anni di nome Omar Abdulaziz ricevette in Canada un messaggio da un gruppo di funzionari sauditi che cercavano di contattarlo da mesi. Stavano arrivando a Montreal, dove abitava, con una proposta potenzialmente redditizia.
Che Abdulaziz fosse sui radar del governo non era una sorpresa. Aveva lasciato il paese nel 2009, a 18 anni, per studiare inglese alla McGill University con una borsa di studio del governo. Ancora studente, aveva lanciato uno spettacolo satirico su YouTube chiamato Yakathah, una sorta di Daily Show (un programma televisivo satirico) per prendere in giro il suo governo. La popolarità delle sue critiche, in particolare in patria, l’aveva portato a un attivismo più responsabile con un account Twitter arrivato fino a oltre centomila follower.
Non passò molto tempo prima che Abdulaziz attirasse l’attenzione del governo saudita, che gli revocò la borsa di studio. Nel 2013 ad Abdulaziz è stato concesso l’asilo politico in Canada. Ha continuato il suo attivismo e nel 2017, qualche anno dopo, un comune amico gli comunicò che Jamal Khashoggi era interessato a parlargli. Altri attivisti erano diffidenti nei confronti di Khashoggi, vista la sua passata affiliazione con la famiglia reale, ma Abdulaziz accettò di parlargli. Nonostante non si siano mai incontrati di persona, diventarono rapidamente intimi.
Nel corso del 2018 comunicavano quasi ogni giorno. Formulavano piani su WhatsApp per lavorare insieme e lamentavano notizie di giornalisti e attivisti arrestati. Khashoggi sembrava angosciato dal fatto che potevano essere arrestati e puniti anche coloro che concordavano pienamente con Mohammed bin Salman, per qualsiasi piccolo disaccordo che avevano osato esprimere.
La tirannia non ha logica, Mohammed bin Salman ama la forza e l’oppressione e ha bisogno di metterle in mostra”, aveva scritto ad Abdulaziz. “È come un animale ‘pac man’, più vittime mangia, più ne vuole.”
Quel maggio, quando il governo propose l’incontro a Montreal – forse per proporre una ricompensa se Abdulaziz avesse avuto intenzione di tornare – Khashoggi avvertì il suo amico di incontrare gli agenti solo in luoghi pubblici e di non farsi attirare in Arabia Saudita. “Se vuoi prendere i loro soldi, è una tua decisione”, ha detto ad Abdulaziz. “Ma non per tornare; non fidarti di loro.”
Il 15 maggio Abdulaziz era in attesa dei rappresentanti del governo seduto in un bar. Nella tasca della giacca c’era il suo iPhone con l’app del registratore in funzione. Due uomini si sedettero di fronte a lui senza spiegare i loro precisi ruoli nel governo saudita. Che stessero rappresentando una sorta di proposta ufficiale sembrava evidente. Uno di loro assicurò Abdulaziz che il loro messaggio proveniva da Mohammed bin Salman in persona. “Nessuno può affrontare meglio questo argomento del principe stesso”, dissero.
Gli agenti furono inizialmente amichevoli e rispettosi, come al-Qahtani lo era stato con Khashoggi. Dissero ad Abdulaziz che anche il suo amico Jamal, a sua volta “un mal di testa” per il governo, stava prendendo in considerazione l’idea di tornare a casa. Era forse tempo che Abdulaziz facesse lo stesso? Avrebbe potuto ricevere significative ricompense, se avesse scelto di tornare volontariamente. Promisero un incontro con Mohammed bin Salman il giorno dopo l’arrivo, nel quale il Principe ereditario avrebbe realizzato qualsiasi richiesta. L’alternativa, erano spiacenti di dover riferire, era quella di essere prelevato in un aeroporto da qualche parte e recluso. Questo frangente “non sarebbe stato molto utile per lo stato”.
Anche se Abdulaziz non aveva intenzione di accettare la loro offerta, continuò a incontrarli diverse volte nel corso di quattro giorni. Sperava di convincerli a trasferire prima i soldi – forse le centinaia di migliaia di dollari che gli dovevano per la sua borsa di studio cancellata, disse. La risposta fu negativa: per prendere i soldi sarebbe dovuto tornare. Ad un certo punto, nel tentativo di farlo vacillare, gli agenti gli fecero incontrare suo fratello, arrivato in aereo dall’Arabia Saudita. Abdulaziz si preoccupò, ma rimase fermo. Ben presto gli agenti, con suo fratello, scomparvero all’improvviso da Montreal così come erano venuti.

Chris Koehler/Business Insider
Nell’estate del 2018 Abdulaziz e Khashoggi intensificarono i loro progetti di collaborazione. L’ufficio social media di Al Qahtani era da anni impegnato in una implacabile campagna di propaganda e trolling sul web. Alimentato da bot, aveva preso di mira gli attivisti all’interno del paese e i dissidenti all’esterno, guadagnando infine ad al-Qahtani il soprannome di “Il Signore delle Mosche”. Abdulaziz e Khashoggi programmarono di lanciare un movimento giovanile online per contrastare, con cinquemila dollari di finanziamento iniziale messi da Khashoggi. Iniziarono a chiamarli le “Cyber bees”.
Solo in seguito un basso profilo come quello degli agenti entrati in contatto con Abdulaziz a Montreal sarebbe parso minaccioso. Uno di loro aveva proposto che, anche se non fosse tornato a casa, sarebbe almeno dovuto andare all’ambasciata saudita per fare un nuovo passaporto.
È forse meno noto che i governi possono acquistare, sul mercato commerciale, dei software per hackerare i telefoni, per poter registrare qualsiasi cosa per loro tramite. Ed è ancora più difficile riconoscere uno di questi software quando è attivo. Ma è esattamente quello che ha fatto nell’estate del 2018 uno scienziato informatico di nome Bill Marczak.
Un pomeriggio di luglio, Marczak, ricercatore alla University of California di Berkeley, era in casa, seduto sul divano, con il suo computer portatile. Aveva uno strano hobby: rintracciare spyware per telefoni cellulari installati dai regimi repressivi di tutto il mondo.
L’interesse di Marczak per l’hacking e la sorveglianza da parte dei governi era nato nel 2012, dagli eventi della Primavera Araba. Allora dottorando in informatica, aveva co-fondato un’organizzazione per fornire assistenza online agli attivisti del Bahrein, dove aveva trascorso parte della sua giovinezza, e per fare ricerche sulla repressione nella regione.
Ben presto gli attivisti del Bahrein lo misero al corrente di un altro problema: stavano ricevendo una raffica di e-mail dall’aria sospetta.
Analizzando i messaggi, Marczak scoprì che erano stati creati per impiantare spyware sui dispositivi degli attivisti, consentendo a qualcuno – probabilmente al governo – di tenerli d’occhio senza che se accorgessero. Lavorando con un’organizzazione canadese chiamata Citizen Lab, Marczak rese pubblico quel tentativo di hacking.
Marczak ricevette ben presto simili richieste da altri attivisti e dissidenti di tutti gli angoli del mondo. Aveva sviluppato una complessa metodologia per scoprire se dei telefoni cellulari fossero stati violati. Nel caso, Marczak e il suo team avrebbero avvertito i dissidenti, analizzato il software e pubblicato le loro scoperte.
Il più sofisticato di tutti gli spyware che scoprirono era chiamato Pegasus, prodotto da NSO Group, un’azienda israeliana coperta da segreto. Pegasus permetteva ai suoi utenti di creare e inviare un singolo link che, se cliccato, avrebbe concesso visibilità totale sul telefono di un obiettivo. Chiamate, e-mail, messaggi: tutto. Il software poteva leggere i messaggi crittografati prima che fossero inviati e accendere la videocamera e il microfono del telefono per registrare di nascosto qualsiasi cosa nelle vicinanze.
Pegasus, in altre parole, non era altro che lo strumento di sorveglianza più sofisticato in assoluto. Nelle mani dei clienti della NSO, che Citizen Lab scoprì essere governi come quello del Messico e degli Emirati Arabi Uniti, aveva un valore inestimabile.
Seduto quel pomeriggio sul suo divano, Marczak analizzava i dati che indicavano dove Pegasus era stato in funzione. Ogni volta che un dissidente gli inoltrava un link sospetto, Citizen Lab utilizzava i dati contenuti in quel link per scansionare internet alla ricerca dei server controllati da Pegasus, quindi raccoglieva i punti di connessione di Pegasus in una base dati. Adesso si sarebbe potuto fare il contrario: a partire dai server di Pegasus cercare i dispositivi che cercavano di connettersi. Marczak, in altre parole, stava cercando di capire se fossero in grado di scoprire in modo proattivo i dispositivi violati, durante il loro funzionamento.
Fu allora che notò qualcosa di strano. Solitamente, si sarebbe aspettato di trovare dei telefoni che stabilissero collegamenti all’interno dell’Arabia Saudita, da dove il governo stava probabilmente controllando i suoi cittadini. Invece, i dati mostravano un singolo telefono in Canada che si collegava ripetutamente con dei server che secondo Citizen Lab sembravano essere sotto il controllo di un operatore collegato al governo saudita.
Pegasus, si rese conto, aveva attaccato qualcuno a Montreal, apparentemente per conto dei sauditi. Tutto ciò che si dicevano e facevano poteva essere assorbito in tempo reale dai server, con l’aiuto di NSO.
“Ehi, penso di aver trovato qualcosa di interessante”, scrisse Marczak al direttore del Citizen Lab. Le connessioni del telefono a Montreal rispondevano a uno schema. Di giorno, si collegavano a Pegasus tramite un fornitore di servizi internet residenziale. La notte, le connessioni provenivano da una rete universitaria.
Con l’aiuto di alcuni suoi vecchi amici attivisti in Bahrein, Marczak mise insieme sei nomi di dissidenti sauditi in Canada che sembravano corrispondere allo schema. Per restringere ulteriormente l’elenco, avrebbe dovuto parlare di persona con i soggetti.
Quell’agosto, Marczak volò a Montreal per incontrare dissidenti e attivisti, comprensibilmente sospettosi circa le sue intenzioni. Quando trovò Abdulaziz, il ventisettenne saudita insistè per incontrarsi in un luogo pubblico. Marczak si sedette di fronte a lui un pomeriggio in una caffetteria, e cercò di spiegargli lo schema dei collegamenti che lo avevano condotto fino a lui. Certo, avrebbe potuto essere lui a essere sotto controllo, rispose Abdulaziz, accettando che Marczak esaminasse il suo telefono.
Marczak aprì l’app di messaggistica e cercò un link da sunday-deals.com, un sito web comunemente utilizzato da Pegasus. Ed eccolo, in un messaggio di giugno che faceva finta di arrivare dal corriere DHL, offrendo ad Abdulaziz un link per monitorare una spedizione in sospeso.
Abdulaziz l’aveva forse cliccato? Certo, rispose. Quella mattina aveva ordinato un quantitativo di un prodotto proteico su Amazon, e immaginava che il messaggio fosse collegato.
“Vuoi dire che non è autentico?” chiese Abdulaziz.
“Non è autentico”, rispose Marczak.
Marczak mise il telefono in modalità aereo e lo collegò a internet tramite il suo laptop. Sperava di usare il proprio programma per catturare lo spyware in funzione. Ma era già troppo tardi: chiunque avesse installato Pegasus lo aveva disabilitato e rimosso, senza lasciare traccia, a parte il messaggio di testo fantasma. Forse era successo proprio a causa di quell’incontro, immaginò Marczak.
In quel momento Abdulaziz sembrava sorpreso ma non scioccato che negli ultimi due mesi ogni comunicazione sul suo telefono fosse sotto controllo. Se Marczak avesse avuto ragione, avrebbe voluto dire che i sauditi sapevano dei suoi scambi con Khashoggi sul governo di Mohammed bin Salman, dei loro progetti e di Cyber Bees.
Da lì a qualche settimana dopo che in agosto Marczak lo aveva avvertito dell’hackingi due fratelli più giovani di Abdulaziz in Arabia Saudita furono arrestati, insieme a otto dei suoi amici. Abdulaziz lo considerava come il tentativo del governo di costringerlo a tornare a casa e forse mantenere la promessa fatta dall’agente. Se non fossero riusciti a catturarlo, avrebbero trovato qualcos’altro.
Abdulaziz continuò a mostrare spirito di resistenza. “Il mio attivismo non si fermerà”, aveva detto a un giornalista. “Non accetto il ricatto.”

Quando Abdulaziz informò Khashoggi dell’hack, subito dopo essere stato informato da Marczak, il giornalista rise nervosamente, chiedendosi a voce alta se anche lui potesse essere sotto sorveglianza. Il 1° ottobre 2018 Bill Marczak e i suoi colleghi del Citizen Lab pubblicarono un rapporto sul controllo del telefono di Abdulaziz. Non c’è prova che Jamal Khashoggi l’avesse letto prima di entrare nel consolato saudita di Istanbul, alle 13:00 del giorno seguente.
In seguito, dai brandelli delle intercettazioni ambientali fatte trapelare dall’intelligence turca ai giornalisti locali, e ascoltate anche dagli investigatori delle Nazioni Unite, i grotteschi frammenti di ciò che sarebbe successo dopo avrebbero scioccato il mondo. Anche se le varie trascrizioni dei dialoghi sono a volte contraddittorie, c’è materiale sufficiente per mettere insieme un quadro coerente e originale di un omicidio e di un insabbiamento.
Mentre alle 13:00 Khashoggi e Cengiz arrivavano nei pressi delle barriere all’esterno del consolato, Mutreb e Tubaigy, il dottore, erano all’interno, dando gli ultimi ritocchi.
Prima gli diremo che lo stiamo portando a Riyad”, si può sentir dire Mutreb nelle registrazioni. “Se non fosse d’accordo, lo uccideremo qui e ci libereremo del corpo... [Sarebbe possibile] mettere il torso in una borsa?”
“No. Troppo pesante”, risponde Tubaigy. Poi fissa con calma i passi per gestire il cadavere. “Non ho mai lavorato su un corpo caldo prima, ma sarà facile. Di solito quando seziono cadaveri mi metto le cuffie e ascolto la musica. Nel frattempo prendo il caffè e fumo.
“È facile staccare le giunture”, continuava, “ma per tagliarlo a pezzi ci vorrà del tempo. Non è un problema. Il corpo è pesante. Di solito, per tagliarlo a pezzi, l’animale si appende ad un gancio, dopo averlo sgozzato. Non l’ho mai fatto per terra. Quando avrò finito di tagliare, dovrai avvolgere i pezzi in sacchetti di plastica, li metterai in valigie e li porterai fuori.”
Se Tubaigy avesse mostrato dubbi, questi non sarebbero stati umani ma burocratici. “Il mio diretto superiore non è a conoscenza di ciò che sto facendo”, si lamentava con Mutreb. “Non c’è nessuno a proteggermi.” Non c’era motivo di preoccuparsene adesso, però. Era quasi ora di iniziare.
“È arrivata la vittima sacrificale?” chiese Mutreb.
Qualche istante più tardi, alle 13:14, Khashoggi rispose a un cenno della guardia in blazer azzurro pallido, ed entrò attraverso la doppia porta di bronzo del consolato.
All’interno, fu fatto entrare nell’ufficio del consigliere generale al secondo piano. Ad aspettarlo era ciò che sicuramente gli sembrò una sconcertante accolita di persone. Il mistero si spiegò non appena Khashoggi vide che al-Qahtani, l’uomo che aveva cercato di convincerlo a tornare – l’uomo che aveva supervisionato le brutali operazioni al Ritz – era in collegamento Skype.
I resoconti di chi ha ascoltato i nastri differiscono leggermente, ma secondo i giornalisti turchi Mutreb e Qahtani misero in atto una confusa strategia in stile “poliziotto buono – poliziotto cattivo”. Qahtani insultò Khashoggi, rimproverandolo per il suo tradimento. In un primo momento Mutreb fu più accomodante. I suoi peccati contro il governo sarebbero stati perdonati se fosse tornato a casa, disse al giornalista.
Khashoggi disse che sperava di tornare, un giorno.
“Dovremo riportarti indietro”, rispose Mutreb. Disse a Khashoggi che c’era un avviso dell’Interpol – una specie di mandato di cattura internazionale – contro di lui.
Non c’è niente contro di me”, aveva detto Khashoggi. Percependo il pericolo, provò a bluffare per poter uscire. Affermò che delle persone lo stavano aspettando fuori: un’automobile con autista, disse, e la sua fidanzata. “Non vado a Riyad.”
Non importava, gli avevano detto. Facciamo presto, disse un funzionario. Chiesero a Khashoggi quali telefoni avesse usato. Doveva mandare un messaggio a suo figlio in Arabia Saudita, spiegando che era a Istanbul. “Non preoccuparti se per un po’ non riesci a mettermi in contatto con me “, gli dissero di scrivere.
“Cosa dovrei dire, a presto?”, Chiese Khashoggi. “Non posso scrivere ‘rapimento’.”
In risposta, un funzionario gli disse di togliersi la giacca.
“Come può succedere tutto ciò in un’ambasciata?”, disse Khashoggi.
“Aiutaci affinché possiamo aiutarti”, disse Mutreb, “perché, alla fine, è in Arabia Saudita che ti riporteremo. Se non ci aiuti, sai come andrà a finire. Lascia che questo problema trovi un lieto fine”.
“C’è un tampone lì, dovete darmi dei farmaci?”, Chiese Khashoggi. Sembrava ancora calmo.
Ti addormenteremo“, fu la risposta.
Quindi Mutreb diede l’ordine.
Cinque agenti si buttarono su Khashoggi. Lui lottava, e nel caos si sentiva un agente dire “continua a spingere. Spingi qui, non togliere la mano”.
“Lasciami respirare,” diceva Khashoggi. “Ho l’asma. Smettila, mi sta soffocando.”
Le intercettazioni ambientali turche hanno poi catturato ciò che ad alcuni è sembrato come un sacchetto di plastica che veniva messo sulla testa di Khashoggi. Poi solo suoni ovattati di lotta. Quindi niente più.
Mutreb fece una telefonata. “Riferisci al tuo capo”, disse nell’apparecchio. “L’operazione è compiuta.”
Il resto del piano della squadra di esecuzione continuò con grottesca efficienza. Un agente tolse vestiti a Khashoggi e li consegnò ad al-Madani, il sosia. Un altro tirò fuori dei teli di plastica.
Tubaigy, il medico, prese la sega da osso che aveva portato da Riyad.
Due ore dopo, il furgone squadrato uscì dal vialetto coperto del consolato. Trasportava Mutreb, Tubaigy e, con ogni probabilità, il corpo smembrato di Khashoggi. Guidarono per il breve tragitto fino alla casa del console generale. Sul viale di accesso tre uomini scaricarono tre sacchi della spazzatura e una valigia con le ruote.
Al consolato, al-Madani stava uscendo da una porta sul retro, evitando Hatice Cengiz al cancello sul davanti. Era vestito con gli abiti di Khashoggi, a parte un paio di scarpe da ginnastica al posto delle stringate nere del giornalista. Saltò su un taxi accompagnato da un altro agente che indossava dei jeans, una felpa con cappuccio e una borsa di plastica bianca, e chiese di essere portato alla Moschea Blu nel centro storico di Istanbul.
Da qualche parte all’interno della moschea al-Madani si cambiò di nuovo, stavolta con i suoi vestiti. Gli agenti mollarono la borsa bianca e salirono su un altro taxi per una stazione della metropolitana. Se più tardi qualcuno avesse controllato le riprese delle telecamere di sicurezza di Istanbul, avrebbero desunto che Khashoggi era uscito dal consolato per andare a visitare la città.
Poco prima delle 17:00 Mutreb, Tubaigy e un altro agente lasciarono la residenza del console generale. Non c’era traccia dei sacchi o della valigia con le quali erano entrati.
In quel momento due jet privati stavano arrivando da Riyad. Mutreb e altri cinque presero il primo, un aereo della Sky Prime Aviation con matricola HZ-SK1, partito da Istanbul alle 18:30. L’aereo volò durante la notte verso il Cairo, ripartendo la sera successiva per l’Arabia Saudita. Gli altri sette decollarono su uno Sky Prime HZ-SK2 poco prima delle 22:00. Gli ultimi due membri della squadra di esecuzione partirono alle 1:30 del mattino seguente su un volo di linea per Riyad.
Erano passate dodici ore da quando avevano ucciso Khashoggi.

Nel corso della serata del 2 ottobre l’intelligence turca stava già riascoltando le sette ore di registrazioni audio provenienti dall’interno del consolato. Poiché le registrazioni non erano state controllate in tempo reale, all’inizio gli agenti dei servizi fecero fatica a capire il vero destino di Khashoggi. Forse, avevano concluso, era stato drogato e trasportato fuori dall’ambasciata in una cassa, ancora vivo.
Nel frattempo, il depistaggio saudita era già iniziatoLa mattina del 3 ottobre, il personale del consolato ebbe disposizioni di evitare il secondo piano, che fu pulito intorno alle 11:00. In serata le telecamere registrarono un fuoco acceso in un barile, fuori dalla casa del console generale.
Il 5 ottobre, un funzionario consolare era andato a far lavare il furgone visto entrare e uscire dal consolato. Il giorno seguente, i funzionari sauditi fecero entrare nel consolato i giornalisti di Reuters con una telecamera. Volevano dimostrare di non aver nulla da nascondere, erano sconcertati come chiunque altro sulla scomparsa di Khashoggi.
“Il cittadino Jamal non è nel consolato o nel Regno dell’Arabia Saudita”, aveva detto il console saudita davanti alle telecamere. Almeno questo era vero. La bugia arrivò dopo. “Il consolato e l’ambasciata stanno facendo del loro meglio per cercarlo. Siamo preoccupati per il caso”, disse con occhi che guizzavano da una parte all’altra. Sì, il consolato aveva telecamere di sicurezza installate in tutti i suoi ingressi, ha ammesso in risposta alla domanda di un giornalista. In qualche modo, quel giorno non avevano semplicemente funzionato.
L’ambasciatore saudita negli Stati Uniti aggiunse una dichiarazione: qualsiasi notizia “che le autorità del Regno abbiano arrestato [Khashoggi] o lo abbiano ucciso sono assolutamente false e prive di fondamento”.
Ma gli autori del complotto potevano già accorgersi che i loro inganni stavano per venire alla luce.
Il 10 ottobre, una nuova squadra era in volo da Riyad. Comprendeva membri dei dipartimenti dei test genetici e delle prove criminali sauditi e sembrava avere l’incarico di eseguire un livello più approfondito di pulizia. La squadra entrata in azione il giorno seguente era composta da undici membri, tra cui un chimico e un esperto di tossicologia. Lavorarono all’interno del consolato per tre giorni, praticamente a ciclo continuo.
Anche se i sauditi avevano continuato a sostenere che Khashoggi fosse semplicemente “disperso”, da un esame più attento delle registrazioni le autorità turche conclusero che era stato ucciso, il corpo probabilmente trasportato a casa del console generale. La stampa turca, alimentata da prove fornite della National Intelligence Organization, iniziò a pubblicare foto, video e dossier sui quindici membri della squadra di esecuzione: l’arrivo all’aeroporto, la registrazione nei rispettivi hotel, le entrate e le uscite dal consolato.
Il canale televisivo satellitare saudita di informazione, Al Arabiya, riferiva invece che i quindici sospetti sauditi erano solo dei turisti. Affermavano che Khashoggi non era stato ucciso e bollavano le affermazioni contrarie come “false notizie”.
Alle autorità turche fu finalmente concesso l’accesso al consolato il giorno 15. Gli investigatori trovarono ben poco di interessante. Le stanze erano state così accuratamente pulite, dissero ai giornalisti locali, che non riuscirono a rilevare nemmeno i livelli di DNA tipici di un ufficio.
Nella residenza del console i funzionari sauditi avevano impedito ogni loro mossa, dichiarando improvvisamente inaccessibili alcune aree. Come per il consolato, dissero che nella giornata del 2 ottobre le telecamere a circuito chiuso non erano misteriosamente riuscite a registrare nulla. Notando che nella proprietà c’era un pozzo, gli investigatori turchi chiesero il permesso di ispezionarlo. La richiesta fu respinta.

Agnes Callamard, un’esperta di diritti umani nata in Francia che gestiva il Global Freedom of Expression Project della Columbia University, stava seguendo sempre più preoccupata da New York la vicenda Khashoggi. Aveva passato anni a documentare omicidi di stato nella sua veste di relatrice speciale delle Nazioni Unite sulle esecuzioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie – una specie di investigatore girovago e indipendente che si occupava delle morti illegali. Sapeva bene come si poteva presentare un depistaggio.
Il 15 ottobre, lei e un collega firmarono un editoriale per il The Washington Post, chiedendo un’indagine indipendente sponsorizzata dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. “La scomparsa di Khashoggi deve portare alle responsabilità e avere conseguenze”, avevano scritto.
Non è successo niente. “A livello internazionale c’era l’umore di lasciar correre”, mi avrebbe in seguito detto la Callamard, “e di andare avanti come se niente fosse”.
Il governo saudita stava già manovrando per costruire un’altra sponda narrativa. In una telefonata del 9 ottobre con Jared Kushner e John Bolton, l’ex consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, Mohammed bin Salman aveva spiegato che Khashoggi era un “pericoloso islamista” e un noto membro dei Fratelli Musulmani. Il governo saudita sosteneva ancora pubblicamente la possibilità che Khashoggi fosse vivo. In privato, il principe ereditario stava già giustificando la sua uccisione.
Mohammed bin Salman aveva investito nelle relazioni con l’amministrazione Trump dal momento in cui Trump è entrato in carica. Dopo essersi sentito messo da parte da un’amministrazione Obama decisa a stringere l’accordo nucleare con l’Iran, il re e il principe ereditario avevano trovato una causa comune con un presidente statunitense desideroso di disconoscere il traguardo raggiunto dal suo predecessore. Trovarono anche facile confidenza con un leader disposto a mantenere il potere all’interno della propria famiglia, come Trump aveva fatto con Ivanka e Jared. Petrolio, commercio di armi, reciproca antipatia per l’Iran e antiterrorismo formano da tempo i quattro pilastri delle relazioni USA-Arabia Saudita. A questi se ne potrebbe aggiungere un quinto, più personale. Avere il genero di un presidente “in tasca”, secondo quanto riferito da Mohammed bin Salman, stava per dare i suoi frutti.
Non è quindi un caso che sia stato Trump a lanciare per la prima volta pubblicamente la “teoria degli assassini canaglia” – cioè che la squadra di quindici uomini era stata inviata per riportare indietro Khashoggi e, contro gli ordini, aveva finito per ucciderlo. Dopodiché, questa divenne la versione su cui il governo saudita fece perno il 19 ottobre, dopo che l’ammissione forzata dell’omicidio aveva annullato la prima serie di smentite. Il procuratore capo saudita apparve sulla televisione di stato per riferire che in realtà il giornalista era stato ucciso. Nel consolato era scoppiata una rissa, affermava falsamente, e purtroppo Khashoggi aveva perso la vita.
Il giorno successivo, un portavoce saudita riferiva a Reuters che il governo aveva arrestato diciotto sospetti in relazione all’omicidio, inclusi i quindici indicati dalle autorità turche come parte della squadra di esecuzione (che lo avessero fatto o meno mentre erano “in vacanza”, come avevano affermato in precedenza i sauditi, non era dato sapere). Comunque, il governo saudita continuava a sostenere che l’omicidio era stato, come lo aveva definito un funzionario, “un enorme errore.”

Ci volle meno di una settimana perché la storia cambiasse ancora: il 25 ottobre il governo saudita ammise che l’omicidio era stato premeditato, ma continuava a sostenere che non aveva idea di dove fosse finito il corpo di Khashoggi. Avevano anche affermato che alcuni membri dell’apparato di sicurezza dello stato, tra cui al-Qahtani, avevano perso il lavoro. Ma i 18 sospetti inizialmente arrestati sono presto diminuiti a 11 che sono stati accusati penalmente in relazione all’omicidio. Quel numero includeva Mutreb e Tubaigy, insieme a nove agenti di sicurezza. Al Qahtani non fu incluso tra gli accusati – né, naturalmente, lo stesso Mohammed bin Salman.
Esperti osservatori della realtà saudita trovarono impossibile che un’operazione così elaborata potesse aver luogo sotto il naso del principe ereditario, considerato il suo controllo sull’apparato di sicurezza dello stato. Il 16 novembre sia il The Washington Post sia il The New York Times riferivano tramite fonti anonime che la CIA era arrivata alle stesse conclusioniMohammed bin Salman non era soltanto a conoscenza dell’omicidio ma, se ne poteva dedurre, l’aveva ordinato. Tra le altre prove trapelate al The Wall Street Journal da un rapporto ufficiale c’era il fatto che Mohammed bin Salman e al-Qahtani si erano scambiati undici messaggi di testo durante la fase dell’uccisione.
Via via che cresceva l’indignazione pubblica intorno al possibile ruolo del governo saudita nell’omicidio, persino l’amministrazione Trump parve costretta a indicare almeno una qualche preoccupazione a proposito della propria relazione con quel governo. L’amministrazione Trump annunciò sanzioni personali per diciassette sauditi, tra cui Saud al-Qahtani, che nell’annuncio del Dipartimento del Tesoro era indicato come facente “parte della pianificazione e del compimento dell’operazione che ha portato all’uccisione del Signor Khashoggi”.
Il The New York Times aveva riferito che in privato anche Trump aveva alzato gli occhi al cielo quando i suoi collaboratori gli avevano chiesto se Mohammed bin Salman avesse potuto o meno ignorare l’esecuzione. Pubblicamente, tuttavia, Trump rimaneva accanto all’amico di suo genero.
Il 20 novembre, il presidente USA aveva rilasciato una bizzarra dichiarazione riaffermando la sua fiducia nel regime saudita e in Mohammed bin Salman. “Il mondo è un posto molto pericoloso!” cominciava la dichiarazione. Dopo diversi paragrafi strombazzanti i pericoli dell’Iran e celebrativi di un vago impegno saudita per investire quattrocento miliardi di dollari negli Stati Uniti, la dichiarazione affrontava l’omicidio di Khashoggi, definendolo “un terribile [crimine], di quelli che il nostro paese non perdona”. Era stata inoltre riesumata l’affermazione priva di prove da parte di bin Salman rivolta a Kushner e Bolton, secondo cui i sauditi consideravano Khashoggi “un nemico dello stato” e un membro dei Fratelli Musulmani.
“Può benissimo essere che il principe ereditario fosse a conoscenza di questo tragico evento – forse lo era, forse no!”, aveva continuato Trump. “Detto questo, potremmo non conoscere mai tutti i fatti relativi all’omicidio del signor Jamal Khashoggi.”
A gennaio, Agnes Callamard, il relatore speciale delle Nazioni Unite, si rese conto che Trump avrebbe probabilmente avuto ragione sugli aspetti inconoscibili della vicenda. Il mondo non si sarebbe mobilitato per un’indagine indipendente. Il Consiglio di Sicurezza non aveva fatto niente di ciò che aveva proposto.
Decise quindi di iniziarla da sola. “Sentendomi delusa, avevo pensato: ‘non può finire così’”.
Gran parte del suo lavoro aveva riguardato uccisioni su larga scala perpetrate da gruppi armati. La morte di Khashoggi rientrava però nel suo mandato di “esaminare situazioni di esecuzioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie in ogni circostanza”, secondo la risoluzione che lo aveva istituito. Per sua natura, il suo ruolo non richiedeva l’approvazione delle Nazioni Unite per una particolare indagine. “Mi sentivo un po’ sconfortata”, disse. “Ero sola, mentre dovevo considerare l’uccisione più chiacchierata del momento, una notizia importante, una grossa patata bollente per le relazioni internazionali.” Organizzò una squadra di avvocati e di traduttori, e il suo primo viaggio in Turchia.
Dopo settimane di trattative, l’intelligence turca permise alla Callamard di ascoltare – ma non di copiare o ufficializzare – parti dei nastri di sorveglianza, insieme a un traduttore. Attraversò poi l’Europa e il Nord America, intervistando amici e colleghi di Hatice Cengiz e Khashoggi, tra cui Omar Abdulaziz. A dicembre, Abdulaziz aveva intentato una causa contro NSO Group, il produttore di Pegasus, sostenendo che le informazioni ottenute durante la violazione del suo telefono avevano costituito un “fattore cruciale” nella decisione di uccidere Khashoggi.
La causa è rimasta pendente. In una dichiarazione rilasciata a Business Insider martedì 1 ottobre, NSO Group ha rifiutato di commentare specificamente la questione Abdulaziz, ma ha osservato che un controllo su “ogni governo con cui NSO intrattiene rapporti commerciali” ha mostrato che Jamal Khashoggi “non è stato sotto controllo da parte di nessun prodotto o tecnologia NSO”. Per quanto riguarda Abdulaziz, il gruppo NSO aveva precedentemente dichiarato al The New York Times che il suo software era “concesso in licenza per il solo uso di dare ai governi e alle forze dell’ordine la possibilità di combattere legalmente il terrorismo e il crimine”, e che i suoi contratti erano “forniti solo dopo un controllo e completo consenso da parte del governo israeliano”.
I sauditi si rifiutarono di accreditare l’indagine della Callamard, ignorando le sue richieste. Il The Washington Post ha riferito che il governo aveva offerto ai figli di Khashoggi case e somme mensili come compensazione per l’omicidio (il figlio di Khashoggi ha negato che sia stato raggiunto un qualsiasi accordo). Il regno ha aperto le sue porte a diversi importanti influencer di Instagram, ai quali ha offerto tour a pagamento per vedere il lato positivo del paese. “Non è propaganda”, aveva dichiarato a Bloomberg il principe responsabile dello sforzo. “È semplicemente un’attività di coinvolgimento.”
Molti dirigenti del mondo della tecnologia e venture capitalist che avevano acclamato nella Silicon Valley il Mohammed bin Salman riformatore non erano disposti a coinvolgersi apertamente. Se un capitalista di ventura della Sand Hill Road – la strada della Silicon Valley dove risiedono la maggior parte delle compagnie di investimento – fosse stato accusato di aver commissionato un brutale omicidio, ci si sarebbe come minimo potuto aspettare che i partner e gli investitori si sarebbero allontanati – o che addirittura si pulissero completamente le mani da quel denaro sporco di sangue. Una volta messo sotto accusa un manovratore come bin Salman, seduto in un palazzo di Riyadh con in mano i cordoni di somme miliardarie ancora maggiori, la strategia sembrò essere il silenzio assoluto.
Alcuni di loro, come Richard Branson e il CEO di Uber Dara Khosrowshahi, decisero di disertare una conferenza economica prevista per fine ottobre, ospitata da Mohammed bin Salman a Riyad, soprannominata “la Davos nel deserto”. Altri scelsero di allontanarsi silenziosamente dai progetti sauditi, come hanno fatto i dirigenti di Apple e lo studio di design IDEO, uscendo dal comitato consultivo di Neom, un progetto di “mega-città” in Arabia Saudita.
Nessuno dei magnati tecnologici in erba che aveva sostenuto la propria curva di crescita con i miliardi sauditi sembrava però disposto a toccare la questione di Khashoggi, anche dopo che i fatti erano stati resi noti (Business Insider ha contattato una dozzina di startup tecnologiche che avevano direttamente o indirettamente ricevuto significativi investimenti dall’Arabia Sauditai pochi che hanno risposto non hanno commentato il caso).
L’unica società a ripudiare pubblicamente il denaro saudita è stata Endeavor, il colosso di scouting aziendale basato a Hollywood, che a marzo 2019 ha annunciato di restituire quattrocento milioni di dollari concessi dal fondo di investimento pubblico saudita.
Lo scorso agosto, SoftBank ha annunciato che avrebbe presto iniziato a investire il suo Vision Fund Two in un nuovo gruppo di società. Nonostante l’affermazione fatta in ottobre da Mohammed bin Salman secondo cui i sauditi stavano immettendo nel fondo altri quarantacinque miliardi, i sauditi non sono presenti tra gli investitori. Non è chiaro se ciò sia dovuto a una nuova resistenza ai soldi sauditi o a una recente riluttanza da parte di Mohammed bin Salman a spenderli. Poiché la valutazione di Uber si è appiattita dopo la sua offerta pubblica iniziale e una WeWork sotto pressione ha dovuto rinviare la sua IPO, lo stesso Vision Fund iniziava a sembrare una scommessa poco sicura come investimento.
A giugno la Callamard e il suo team hanno pubblicato il loro straziante rapporto di 100 pagine, catalogando i raccapriccianti dettagli del complotto e della sua esecuzione. Si sosteneva che i processi segreti agli undici sicari accusati in Arabia Saudita non avrebbero fatto giustizia (Saud al-Qahtani, il principale pianificatore dell’omicidio, era nel frattempo scomparso dalla vita pubblica in Arabia Saudita, con voci non ancora confermate di un suo avvelenamento. A settembre Twitter ha improvvisamente deciso di sospendere il suo account, a lungo rimasto inattivo).
La Callamard raccomandava agli Stati Uniti di aprire un’indagine dell’FBI sull’omicidio e di sanzionare Mohammed bin Salman – “secondo le credibili prove delle responsabilità del Principe ereditario nell’omicidio” – finché i sauditi non forniscano prove per stabilire se fosse o meno coinvolto nel complotto.
Giorni dopo l’uscita del rapporto, tuttavia, Trump ha dichiarato in un’intervista su “Meet the Press” di non essere neanche riuscito a sollevare l’argomento dell’omicidio, durante una telefonata con Mohammed bin Salman. Era stato “un grande confronto”, ha detto. “ma in quella discussione non è proprio stato toccato l’argomento”
Anche se alcuni membri del congresso, sia repubblicani che democratici, continuavano a chiedere esiti in merito all’omicidio di Khashoggi, la famiglia Trump era rimasta ferma nella sua lealtà. Il presidente Trump ha ignorato una direttiva bipartisan del Congresso per pubblicare un rapporto sul coinvolgimento del principe ereditario e ha posto il veto al tentativo di fermare il sostegno degli Stati Uniti alla brutale guerra dell’Arabia Saudita nello Yemen. In effetti, gli affari tra i due paesi continuavano a essere vivaci: meno di tre settimane dopo l’assassinio di Khashoggi, l’amministrazione aveva già concesso l’autorizzazione a due società private statunitensi per la condivisione di informazioni nucleari sensibili con il governo saudita.
Per Mohammed bin Salman il messaggio non avrebbe potuto essere più chiaro. “Fintanto che il presidente Trump è al potere e finché Mohammed bin Salman offre denaro comprando armi, investendo in società statunitensi e nell’economia americana, saprà di avere una sorta di copertura, una sorta di protezione”, mi ha detto la Farouk di Carnegie’s.
Dopo che due impianti petroliferi sauditi sono stati danneggiati dai recenti attacchi di droni che funzionari della Casa Bianca sostengono siano originari dell’Iran, un giornalista ha chiesto a Trump se avesse promesso ai sauditi “che gli Stati Uniti li avrebbero protetti”.
“No, non l’ho fatto. Non l’ho promesso ai sauditi”, ha risposto Trump. “Ma li aiuteremmo sicuramente”, ha detto. “Sono stati un grande alleato. Negli ultimi anni hanno speso quattrocento miliardi di dollari nel nostro paese. Quattrocento miliardi di dollari.” L‘Arabia Saudita, ha osservato in conclusione, “paga in contanti”.
Quasi due anni dopo la repressione da parte di Mohammed bin Salman della corruzione nel suo paese e due settimane prima dell’anniversario dell’omicidio di Jamal Khashoggi, un suo documento riferisce che Jared Kushner tornerà in Arabia Saudita per la “Davos nel deserto” di quest’anno. Il forum si svolgerà al Ritz Carlton di Riyad.

Il 20 ottobre del 2018 Hatice Cengiz si è svegliata al ronzio del suo telefono. Era un messaggio del migliore amico di Khashoggi. “Dio riposi la sua anima”, c’era scritto. In televisione il procuratore capo dei sauditi aveva appena ammesso che il suo promesso sposo era morto.
Il 2 ottobre, quando Khashoggi non era riuscito a riemergere dal consolato, lei aveva passato la serata telefonando freneticamente, cercando una risposta su dove fosse andato. Le menzogne ufficiali sul suo destino sono state la causa di un crudele ottimismo che avrebbe potuto farlo considerare ancora vivo. Forse era stato rapito, portato fuori dal paese e riportato in Arabia Saudita. Scomparso, ma ancora vivo. Il fatto che lo avessero semplicemente ucciso sembrava non avere senso.
Aveva trascorso le sue giornate parlando con i parenti e gli amici di lui, cercando di proteggersi dalle infinite ondate di curiosità e di preoccupazione da ogni angolo del mondo. Ha fatto alcuni commenti, ma non ha tenuto conferenze stampa. Quando Jamal fosse uscito da qualunque posto si trovasse, pensava, avrebbe parlato da solo.
Per Cengiz la sua morte non ha causato soltanto dolore, ma anche portato domande. Alcune semplici, alimentate dalla rabbia: dov’era il suo corpo? Di chi era la colpa? Chi avrebbe potuto chiedere giustizia per lui? Altre domande, disse in seguito, non avevano risposta, girando e rigirando nella sua testa. “Era arrabbiato con me?”, si chiese. “Che cosa ha dovuto passare? Che cosa ha provato quando si è reso conto che lo avrebbero ucciso?”
Lasciata a soffrire sotto la luce dei riflettori globali, aveva dovuto mettere da parte i suoi studi, mentre diplomatici e governi nascondevano, tessevano e razionalizzavano la morte dell’uomo che amava. Descrisse davanti alle telecamere della televisione l’agonia di quel giorno; scrisse un libro in turco che includeva pagine del suo diario scritte nei giorni successivi all’omicidio, intime professioni dell’amore che il suo paese aveva strumentalizzato. Tutto si tingeva della speranza di spingere il mondo verso la comprensione di ciò che era andato perduto quella mattina di ottobre – forse, persino la giustizia.
“Credo che questi momenti siano molto preziosi per Jamal”, mi disse tramite un traduttore, quando ci incontrammo il 27 settembre in una suite d’albergo vicino alla Grand Central di New York. “Devo, quindi, fare tutto il possibile per lui.”
Era venuta a New York per tenere un discorso in concomitanza con la riunione annuale dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Tra le cose che stava caldeggiando c’erano le raccomandazioni del rapporto della Callamard: un’indagine completa di un’entità come l’FBI e la responsabilità di chiunque in Arabia Saudita fosse responsabile di quello che lei chiamava “un omicidio politico”.
Quella con me è stata l’ultima di una serie di interviste, una di seguito all’altra, che Cengiz aveva dato quel giorno. In qualche modo, ogni scambio l’ha costretta a raccontare o riflettere sui momenti peggiori della sua vita e sul dolore che ne è seguito. Eppure, non sembrava stanca, ma irremovibile, diretta.
“Sì, mi sono persa qualcosa in termini di carriera, ma per il momento non mi interessa”, ha detto. “Ciò che conta è Jamal, devo difendere i suoi diritti.”
La questione della responsabilità di Mohammed bin Salman era riemersa quella mattina, quando il Public Broadcasting Service aveva pubblicato il trailer di un prossimo documentario di Frontline sull’Arabia Saudita. In esso, il giornalista Martin Smith dichiarava di aver rintracciato Mohammed bin Salman a un evento sportivo, chiedendogli del suo ruolo nell’omicidio di Khashoggi. “Mi prendo tutta la responsabilità,” riferisce Smith che il principe ereditario abbia detto, “perché è successo sotto il mio controllo.” Alla domanda su come l’omicidio sarebbe potuto succedere senza i suoi ordini, aveva detto “Siamo venti milioni di persone. Abbiamo tre milioni di dipendenti pubblici”. Pochi giorni dopo il principe ereditario ha rafforzato la sua smentita, in un’intervista a 60 Minutes. Definendo l’omicidio un “episodio atroce”, Mohammed bin Salman ha risposto “assolutamente no” a una domanda precisa sul fatto che lo avesse ordinato o meno, ribadendo poi che non avrebbe potuto tenere sotto controllo neanche le azioni dei suoi più stretti consiglieri, tra i milioni di cittadini dell’Arabia Saudita.
Secondo la Cengiz, per Mohammed bin Salman aver concesso una dichiarazione del genere dimostrava che percepiva la pressione della copertura mediatica sull’omicidio. I suoi argomenti, come lei ha suggerito, avevano anche lo scopo di inviare un messaggio: “è lui il responsabile dell’amministrazione saudita e del governo saudita. Affermando ciò, sta anche consolidando la sua posizione”. Stava inoltre, pensava, implicitamente ammettendo che, in quanto sovrano onnisciente, sapeva esattamente cosa fosse successo nel complotto per l’esecuzione. “Ora è a lui che mi rivolgo”, ha detto. “Se è vero che hai confessato, condividi anche i dettagli di questo incidente.”
Prima che ci alzassimo per andarcene, chiesi a Cengiz come potesse trattenersi dall’essere sopraffatta dal cinismo.
“Questa storia ha cambiato totalmente la mia vita, dividendola in due”, ha detto. “Ho trentacinque anni e ho improvvisamente iniziato la seconda metà della mia vita con nuovi programmi. Non c’è niente altro che conti per me.” Aveva lasciato dietro di sé le preoccupazioni terrene, disse. Non aveva più paura della morte.
“Amare ed essere amati è la cosa più importante”, ha detto. “Credo che dobbiamo vivere per le cose che valgono davvero la pena.”

CREDITI
Storia
Evan Ratliff è l’autore di The Mastermind: Drugs, Empire, Murder, Betrayal. I suoi scritti compaiono su Wired, The New Yorker, e altri periodici. È co-fondatore di The Atavist Magazine.
Disegni
Chris Koehler è un artista e illustratore pluripremiato che vive a Sacramento.
Grafica
Skye Gould è il caposervizio grafico di Business Insider.
Samantha Lee è la progettista grafica senior di Business Insider.
Ricerche
Daniel Boguslaw è giornalista e ricercatore, vive a New York City.
Eli Lee è un ricercatore che vive a Washington, D.C.
Grace de Graaf è assistente di redazione di Insider.
Nicole Einbinder è una giornalista di Insider.
Jacob Shamsian è redattore di cronaca di Insider.


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