Un anno fa il giornalista Jamal Kashoggi entrava nel consolato saudita di
Istanbul, dal quale non sarebbe mai più uscito. Nei mesi successivi le
circostanze relative alla sua scomparsa e al suo assassinio sarebbero emerse in
modo frammentario: una faccenda di spie ad alta tecnologia, un complotto
diabolico, una macabra uccisione, un assurdo depistaggio arrivato fino alle più
alte sfere del governo saudita, favorito dall’indifferenza e dall’accanimento
della Casa Bianca. Alla fine, tutti questi frammenti sono arrivati a formare un
quadro raccapricciante.
Lo scorso giugno la relatrice speciale delle Nazioni Unite per
le esecuzioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie ha pubblicato un rapporto
di cento pagine approfondendo l’affare Kashoggi. La sua uscita non è però
servita quasi a nulla nel suscitare azioni concrete.
Ecco la storia, per ciò che possiamo saperne, con le illustrazioni di Chris
Koehler e presentata in forma di reportage narrativo dallo scrittore
Evan Ratliff. Questo resoconto si basa sulle nostre inchieste, sul rapporto
delle Nazioni Unite, su centinaia di resoconti e interviste in video – dal The
New York Times, The Washington Post, The Wall Street Journal, e dal The Daily
Sabah, una fonte turca – e da testimonianze pubbliche.
La stiamo riproponendo perché la storia di Jamal Kashoggi dovrebbe essere
ascoltata per intero. E perché anche se pensate di sapere ciò che è
accaduto, potreste non sapere come o perché.
In seguito, è stato facile dimenticare che fosse innamorato.
Questo era il Jamal Khashoggi arrivato in volo la mattina presto del 2
ottobre a Istambul. Era a pochi giorni dai suoi sessant’anni,
divorziato, in esilio volontario dalla nativa Arabia Saudita, vivendo
da solo in Virginia. La sua alta figura rivelava una certa pancetta, e la
capigliatura si era diradata ai lati. La brizzolatura quasi completa della
barba copriva un viso da gufo, con un paio d’occhi che potevano tradire nello
stesso momento facile allegria e profonda tristezza.
Dai suoi colleghi era stimato come persona brillante, da
giornalista del The Washington Post acclamato a livello
globale qual’era. Aveva però trascorso la maggior parte dei suoi giorni a
lottare con il peso di ciò che si era lasciato alle spalle, scrivendo nella
speranza di rompere l’indifferenza del mondo nei confronti della strisciante
repressione nel suo paese d’origine. Era sgomento nel vedere il suo
artefice, il principe ereditario Mohammed bin Salman – in
Occidente noto come MBS – celebrato da Washington e dalla Silicon
Valley come un riformatore dinamico, mentre in patria i suoi amici
e colleghi languivano in prigione per aver detto la verità. La
sua missione, era arrivato a pensare, era parlare
per loro.
Quella mattina d’autunno a Istanbul, Khashoggi era però
sceso dall’aereo con uno scopo completamente diverso. Cinque mesi prima,
all’inaugurazione di una conferenza sulla
politica mediorientale, era stato avvicinato da una ricercatrice di
trentacinque anni, di nome Hatice Cengiz. Conosceva il suo lavoro e
voleva intervistarlo per un articolo che stava scrivendo. Andò a cercarlo
durante la pausa caffè. Parlarono per quasi mezz’ora. Gli aveva fatto domande
sulle prospettive di riforma in Arabia Saudita; lui l’aveva riempita di domande
sulla politica turca. Alla fine, il loro scambio aveva iniziato a sembrare
qualcosa di più profondo. Prima del successivo viaggio a Istanbul, le aveva
mandato un’e-mail per chiederle se avrebbe voluto rivederlo.
Il resto accadde rapidamente, alla velocità di due persone che già si
conoscevano. A settembre lui aveva incontrato i genitori di lei. I
progetti di matrimonio erano già in corso. La coppia aveva comprato
un appartamento a Istanbul, un’ancora a oriente per ciò che sarebbe
diventata una doppia vita, tra lì e gli Stati Uniti.
Il 28 settembre erano andati all’ufficio per i matrimoni civili di
Istanbul per affrontare il lato burocratico delle nozze. Avevano un
solo piccolo problema: poiché Khashoggi era cittadino saudita,
avrebbero avuto bisogno di un certificato del suo governo che
affermasse che non era sposato. Per averlo bisognava chiedere al consolato
saudita.
D’impulso, la coppia ci era andata lo stesso giorno. Prima di
entrare Khashoggi aveva lasciato i suoi due telefoni a Cengiz, sapendo che
sarebbero stati ritirati dai funzionari del consolato e temendo che avrebbero
colto l’occasione per poterli violare. Era diffidente. Una
volta entrato lo staff lo aveva però salutato in modo affettuoso. Non potevano
procurare immediatamente il documento richiesto, ma se fosse tornato il
2 ottobre glielo avrebbero fatto trovare pronto, dicevano. Nel
pomeriggio andò in aeroporto e prese il volo delle 14:40 per Londra, per essere
a una conferenza.
La notte prima del suo ritorno Cengiz non riusciva a dormire, la testa ingarbugliata e nervosa.
Alla fine si abbandonò al sonno, e fu svegliata da una telefonata del suo
fidanzato: il volo era arrivato in anticipo. Khashoggi prese un taxi per
l’appartamento che avevano acquistato, ancora disabitato, in un comprensorio
del quartiere di Topeka a Istanbul. Una telecamera
di sicurezza piazzata nell’ingresso li aveva sorpresi mentre
entravano tenendosi per mano, poco prima delle 5 del mattino.
Kashoggi chiamò il consolato. Un funzionario gli disse di arrivare all’una
del pomeriggio per ritirare il documento.
Uscirono verso l’una meno un quarto. Le telecamere di sorveglianza hanno
ripreso la tranquilla passeggiata mano nella mano della coppia.
Khashoggi indossava una camicia a colletto aperto e un blazer,
Cengiz il velo e un lungo abito nero.
Al blocco di sicurezza collocato sul lato sud del consolato, Khashoggi le
consegnò ancora una volta i suoi telefoni. Un agente di sicurezza eseguì una
rapida scansione su Khashoggi usando un rivelatore portatile
di metalli. Quindi il giornalista passò tra le barriere di metallo e si avviò
rapidamente verso l’ingresso principale. Un portiere con un blazer azzurro
chiaro lo salutò con un lieve inchino, ed eccolo scomparso.
Per mesi i sauditi avevano cercato di attirarlo nel loro regno. Non si
sarebbero mai aspettati che potesse semplicemente varcarne l’ingresso
principale. Ma è quello che successe il 28 settembre quando si
presentò senza preavviso al consolato.
I funzionari sapevano bene che tra i principali ricercati del governo c’era
lui, ma non esisteva nessun protocollo per chiunque di quella lista che
fosse spontaneamente comparso in mezzo a loro. Quindi lo lasciarono
andare, affidandosi alla “carota” che sapevano l’avrebbe fatto
tornare. Quando quel pomeriggio il volo verso Londra di Khashoggi ebbe
raggiunta l’altitudine di crociera, la macchinazione per porre fine alla sua
vita era già in moto.
Appena uscito Khashoggi, l’addetto alla sicurezza del consolato fece un
paio di telefonate ai servizi di sicurezza sauditi. Nel consolato l’intelligence turca
aveva a sua volta un sistema di sorveglianza audio attivo e funzionante,
un classico dei giochi di “spie contro spie” abitualmente in corso tra due
rivali diplomatici. Le registrazioni non erano però ascoltate in tempo reale
(per coincidenza, il giorno prima della prima visita di Khashoggi i
sauditi avevano inviato una squadra di rilevamento per passare in esame
l’edificio alla ricerca di microspie. Se fossero stati più competenti, il mondo
non avrebbe mai potuto scoprire cosa fosse successo al suo interno). Parte
di quei nastri furono successivamente fatti ascoltare a un
investigatore delle Nazioni Unite, e le trascrizioni fatte trapelare ai
giornalisti turchi.
In una delle telefonate Maher Abdulaziz Mutreb, ufficiale dell’intelligence saudita
visto spesso insieme a Mohammed bin Salman durante i suoi viaggi
internazionali, chiese se Khashoggi sarebbe tornato. Il funzionario confermò
che gli era stato detto di tornare il 2 ottobre per ritirare i
suoi documenti.
Gli ingranaggi dei servizi segreti si misero rapidamente in moto. Il
consolato trasmise velocemente a Riyad video e immagini della visita di
Khashoggi. Quella sera, l‘intelligence turca aveva
registrato la voce del console generale a Istanbul, Mohammed Alotaibi,
mentre parlava con un altro ufficiale saudita di una telefonata ricevuta dal
capo della sicurezza della nazione. Aveva bisogno di personale per
svolgere “una missione speciale della massima segretezza” che sarebbe
durata circa cinque giorni. Il regno avrebbe fornito voli e alloggio, aveva
detto l’ufficiale saudita.
Durante la notte Alotaibi organizzò tutta la logistica,
specificando ai funzionari che la missione in questione era “molto importante e
in rapida evoluzione”. Qualcuno del consolato sarebbe dovuto tornare a
casa per un “addestramento urgente”, aveva detto a un altro
funzionario. “Mi hanno chiamato da Riyad”, aveva detto. “Mi hanno detto di aver
richiesto un funzionario che avesse lavorato sul protocollo. Il problema è
assolutamente segreto. Nessuno dovrebbe saperlo in nessun modo. Nessuno dei
tuoi amici sarà informato.”
Il giorno dopo due ufficiali dei servizi lasciarono Istambul per
Riyad.
I due tornarono poi con un volo di linea il primo ottobre, il
giorno prima del previsto arrivo di Khashoggi. Con loro c’erano altri
tre ufficiali dei servizi sauditi, due dei quali avevano lavorato negli
uffici del principe ereditario.
La mattina del 2 ottobre, appena un’ora prima che lo stesso Khashoggi
passasse dall’aeroporto, altri nove sauditi dotati di immunità diplomatica
si erano precipitati fuori da un volo privato proveniente da Riyad.
Tra questi c’era Mutreb, con l’incarico di comandante di terra
della missione. Con lui quattro ufficiali di sicurezza e dei servizi
sauditi, due dei quali membri della squadra di sicurezza di Mohammed
bin Salman, e un generale di brigata di nome Mustafa Mohammed
Almadani, che assomigliava in modo passabile a Khashoggi. Il
personaggio più strano del gruppo era Salah Mohammed Tubaigy, un medico
legale del Ministero degli Interni. Era noto per eseguire autopsie
in modo rapido.
La squadra contava ora quindici membri. Si registrarono in un paio
di hotel vicino al consolato – il Wyndham e il Mövenpick – aspettando
la mossa successiva.
Mentre il console generale stava dando notizia al personale non
saudita di rimanere a casa per la giornata, Khashoggi stava probabilmente
facendo colazione con Cengiz. Ad altri del consolato fu detto di uscire
entro mezzogiorno per una delicata riunione diplomatica che avrebbe
avuto luogo quel pomeriggio nell’edificio.
Le quindici persone si divisero in due gruppi. Cinque lasciarono i loro
alberghi e andarono in macchina alla residenza del console generale, a pochi
chilometri di distanza. Gli altri dieci camminarono fino al vicino consolato.
Le telecamere hanno inquadrato Mutreb mentre usciva dal suo hotel in abito
scuro, per poi passare gli stessi controlli di sicurezza che Kashoggi avrebbe
attraversato tre ore più tardi. Mutreb fu seguito in breve tempo da Tubaugy, il
medico, e da Almadani, il sosia di Khashoggi. Appena passato mezzogiorno
un’automobile uscì in retromarcia da un vialetto coperto a lato del consolato.
Al suo posto arrivò un furgone nero squadrato.
Dopo aver visto il suo fidanzato entrare nel consolato, Cengiz andò in un
supermercato vicino e comprò un giornale per passare il tempo, insieme a un po’
d’acqua e del cioccolato per quando lui fosse tornato. Con il passare del tempo
non trovò alcun motivo di preoccuparsi: nella precedente visita, i
funzionari avevano impiegato tre quarti d’ora solo per informare Khashoggi che
sarebbe dovuto tornare un altro giorno.
Alle quattro di pomeriggio il fastidio dell’attesa iniziò lentamente a
diventare preoccupazione. Chiamò la sorella,
chiedendole di controllare l’orario di chiusura del consolato (forse
dimenticando che avrebbe potuto farlo lei stessa). Qualche momento più tardi la
sorella rispose con un messaggio: il consolato aveva chiuso quaranta
minuti prima.
Uno spesso velo di paura avvolse Cengiz. Si avvicinò alla porta
d’ingresso e informò l’agente turco che il suo fidanzato, cittadino
saudita, era entrato ore prima e mai riemerso. L’agente rispose di
presumere che tutti fossero andati via. Chiamò il numero principale del
consolato e raccontò la stessa storia al funzionario che aveva risposto.
L’agente riappese e tornò dove lei stava aspettando.
L’edificio era vuoto, disse. Jamal Khashoggi non era più all’interno.
Nel giro di poche ore, la scomparsa di Khashoggi conquistò i titoli della
stampa internazionale. Nella sua risposta iniziale, il governo
saudita dichiarò di essere confuso e preoccupato quanto il resto del mondo. “Il
signor Khashoggi è entrato nel consolato per richiedere documenti relativi al
suo stato civile, ed è uscito poco dopo”, avevano dichiarato i sauditi all’Associated
Press. “Il governo dell’Arabia Saudita segue con attenzione tutte le notizie
relative alla sicurezza di qualunque dei suoi cittadini”.
La notte successiva, il 3 ottobre, nella capitale saudita di Riyad,
un gruppo di giornalisti di Bloomberg si sedette di fronte a Mohammed
bin Salman, appollaiato sui divani di un’opulenta sala del Palazzo
Reale. Lo spunto per l’intervista, concessa prima che la scomparsa di Khashoggi
facesse notizia, era stata una disinvolta dichiarazione del presidente Donald
Trump durante un evento politico nel Mississippi, dove aveva affermato che lo
stato saudita non sarebbe “durato due settimane” senza il supporto degli Stati
Uniti
Il principe ereditario dichiarò di non sentirsi colpito. “L’Arabia Saudita
era lì prima degli Stati Uniti d’America”, osservò, mentre una mappa del mondo
bordata d’oro incombeva su di lui. “Dobbiamo accettare che qualunque amico
potrà dire cose sia buone sia cattive.”
Il discorso passò poi alle prospettive di un’imminente offerta pubblica per
la compagnia petrolifera saudita, Aramco, e del contributo di
quarantacinque miliardi di dollari del governo saudita al “Vision Fund“,
un pool di investimenti di venture capital creato dalla
società giapponese Softbank per cento miliardi di dollari. Il Vision Fund
aveva riversato centinaia di milioni di dollari
per far crescere startup come Uber, Slack, WeWork e DoorDash, spargendo
denaro saudita come fosse polvere fatata all’interno dei centri tecnologici
americani. Senza la grandezza dell’Arabia Saudita, aveva sottolineato
il principe ereditario, non sarebbe esistito un Vision Fund. Aveva poi offerto
uno scoop ai giornalisti: i sauditi hanno programmato il collocamento
di altri quarantacinque miliardi di dollari nel prossimo round del fondo.
Circa a metà dell’intervista, uno dei giornalisti sollevò il
mistero di dove si trovasse Khashoggi.
“Abbiamo sentito quello che è successo”, ha risposto Mohammed bin Salman. “È
un cittadino saudita, siamo molto ansiosi di sapere cosa gli è successo“.
Ha confermato che Khashoggi era stato al consolato, indicando però che dopo un
po’ era andato via. Il governo turco, ha aggiunto, è stato invitato a
perquisire il consolato: territorio sovrano saudita, aveva fatto notare. “Non
abbiamo nulla da nascondere“, aveva detto Mohammed bin Salman.
Mentre parlava, alcune crepe stavano già strisciando sulla superficie
della versione ufficiale saudita. I funzionari turchi avevano
infatti dichiarato pubblicamente che Khashoggi non aveva mai lasciato il
consolato. Il 7 ottobre, mentre il consolato saudita iniziava a
essere evasivo sulle ricerche promesse da Bin Salman, i turchi
affermavano invece in modo netto che Khashoggi era stato ucciso lì –
aggiungendo di avere anche le prove. Il 10 ottobre i
funzionari dei servizi turchi avevano diffuso immagini tratte dalle
telecamere di sicurezza, che mostravano l’arrivo della squadra di
esecuzione.
La spiegazione da parte saudita si è evoluta da dubbia a farsesca. Hanno definito le
accuse “false notizie” e “bugie”, affermando che i loro uomini avevano
semplicemente viaggiato in Turchia per una vacanza di gruppo.
Il 15 ottobre il presidente Trump si era per la prima
volta speso sulla scomparsa di Khashoggi. In piedi sotto un ombrello, fuori
dalla Casa Bianca, Trump aveva detto che il re saudita Salman, padre di
Mohammed bin Salman, gli aveva personalmente espresso un “assoluto diniego” a
proposito di un qualsiasi coinvolgimento del suo governo.
“Non voglio mettermi nei suoi panni, ma mi è sembrato come se
fossero stati dei criminali comuni”, ha detto Trump. “Chi può dirlo? Stiamo
provando ad arrivare in fondo al più presto.”
Quando è iniziata la storia dell’omicidio di Jamal Khashoggi? Nel giugno 2017,
quando il re saudita Salman bin Abdulaziz Al Saud aveva convocato suo nipote
Mohammed bin Nayef, dicendogli che avrebbe fatto cadere le sue pretese reali in
favore del cugino? Nel giorno in cui, lo stesso mese, Khashoggi – ormai
cosciente del cupo futuro per la libertà di stampa sotto Mohammed bin Salman –
era fuggito spaventato dal paese, lasciando
dietro di sé una moglie dalla quale avrebbe dovuto divorziare e dei figli che
avrebbe visto sempre più di rado?
Forse è stato quel sabato di novembre del 2017, quando agli ospiti
del Ritz-Carlton di Riyad fu chiesto di fare in fretta i bagagli e andare via.
Quel giorno i normali ospiti furono sostituiti da centinaia di
principi anziani e funzionari governativi, arrestati per volere del principe ereditario con
l’accusa di corruzione. All’interno di questa prigione di velluto, Saud
al-Qahtani, grande collaboratore di Mohammed bin Salman, più noto per aver
gestito l’ufficio dei social media del governo saudita,
contribuì a organizzare gli interrogatori e le torture. Al-Qahtani
si era vantato con un uomo d’affari canadese che
i detenuti erano stati schiaffeggiati e appesi a testa in giù. Secondo quanto
riferito, un generale era morto con il collo rotto, ma le informazioni
accertabili erano scarse. Il governo saudita ha negato le accuse di abusi
corporali. Ha soltanto comunicato che i prigionieri avevano accettato
di riconsegnare ricchezze presumibilmente mal meritate.
Le vicende del Ritz suscitarono diffuse condanne in ambito internazionale.
Tranne dalla Casa Bianca, dove Jared Kushner, genero e consigliere del
presidente Trump, aveva stretto legami con l’allora trentunenne principe
ereditario. Si diceva che fossero in regolare contatto su WhatsApp. “Hanno
individuato un partner davvero allineato a Washington, Jared Kushner, e lo
hanno saputo coltivare con successo”, ha dichiarato Elizabeth Dickinson, senior
analyst per la penisola arabica presso Crisis Group. “Non c’è altro
modo di vederla. È stato visto come un modo per inserirsi ed è stato preso al
volo.” Secondo quanto riferito, Mohammed bin Salman ha in seguito riferito al principe ereditario degli
Emirati Arabi di tenere Kushner “in tasca“. Lo stesso Kushner era andato a trovare Bin Salman giorni prima
che iniziasse quel terremoto.
“Ho una grande fiducia nel Re Salman e nel principe ereditario dell’Arabia
Saudita, sanno esattamente cosa stanno facendo”, aveva scritto Trump in
un tweet durante
la repressione. “Alcuni di quelli che stanno trattando duramente hanno ‘munto’
il loro paese per anni!”
Se la faccenda del Ritz potè dare una lezione di relazioni internazionali a
Mohammed bin Salman, è stato per assicurargli che le accuse di rapimento e
tortura avrebbero pesato ben poco per sminuire la sua statura di giovane
riformatore negli Stati Uniti. In alcuni ambienti, la retorica “anticorruzione”
serviva solo a rafforzare quella posizione.
Lo stesso mese delle detenzioni al Ritz, l’editorialista del The
New York Times Thomas Friedman raccontò di essere volato a Riyad per un
epico faccia a faccia con Bin Salman. Lodandolo come un agente del cambiamento
ossessionato dal lavoro, Friedman indicò la repressione come correttivo
necessario, a parte le maniere. “Solo uno sciocco”, ha scritto, non farebbe
il tifo per l’ipotetico programma di riforme di bin Salman. Friedman aveva
chiuso l’articolo con una domanda per Bin Salman presa in prestito da una
poesia di Hamilton: perché ha lavorato così duramente “come se il tempo stesse
finendo?” “Temo che il giorno della mia morte sarò morto senza realizzare ciò che
ho in mente”, aveva risposto il principe ereditario.
Khashoggi aveva una visione diversa di quelle realizzazioni. Anche lui avrebbe
voluto vedere la fine della corruzione dilagante nel regno, aveva scritto in
novembre in un articolo sul The Washington Post. Ma gli
entusiasti di bin Salman stavano ignorando la sua diffusa repressione. “Al
momento direi che Mohammed bin Salman si sta comportando come Putin”.
Quattro mesi dopo Khashoggi apparve nel programma UpFront di
Al Jazeera, con il giornalista Mehdi Hasan. Nel gruppo di ospiti c’era anche un
sostenitore del regime, che sosteneva che bin Salman era un riformatore che
lavorava per modernizzare e liberare il regno, un leader che avrebbe dovuto
essere “giudicato nel contesto della storia del suo paese”.
Per Khashoggi, il problema non erano tanto le riforme – aveva da tempo
sostenuto gli sforzi per emancipare le donne, ad esempio – ma la repressione
intellettuale che sembrava animare gli sforzi del principe ereditario. “Mentre
parliamo ci sono intellettuali e giornalisti sauditi incarcerati”, ha detto in
modo sofferto. “Lo vedo ancora come un riformatore. Ma sta raccogliendo
tutto il potere nelle sue mani. Sarebbe molto meglio per lui concedere
uno spazio di respiro alla critica, agli scrittori sauditi, ai media sauditi,
per discutere della più importante e necessaria trasformazione in corso nel
paese.”
Era la possibilità di un dialogo aperto che aveva spinto Khashoggi nel
giornalismo. Nipote di un medico che aveva in cura il re Abdulaziz Al Saud, il
fondatore dell’Arabia Saudita, Khashoggi è cresciuto accanto alla
famiglia reale. Era stato sedotto da politiche religiose
radicali, unendosi ai Fratelli Musulmani a vent’anni, prima di
diventare giornalista. Si era poi fatto un nome raccontando le gesta di
un giovane Osama bin Laden prima di Al Qaeda in Afghanistan, crescendo fino
a diventare editorialista e editore di quotidiani, lavorando persino
all’interno della corte. La gente lo riconosceva per la strada, fermandolo per
ringraziarlo del suo lavoro.
Col passare del tempo sarebbe diventato un ostinato sostenitore
delle riforme, sia nel governo sia nella società saudita. Nel 2010
Khashoggi era stato però licenziato dal suo incarico di
caporedattore del quotidiano Al Watan per aver pubblicato articoli che
sfidavano le rigide leggi islamiche del paese. Era il secondo licenziamento
che subiva dalla stessa testata; dopo il primo, si era recato all’estero per
lavorare come portavoce del principe Turki al-Faisal, ambasciatore saudita nel
Regno Unito e poi negli Stati Uniti. La seconda volta era durato tre anni, ma
nel 2016 le sue opinioni lo fecero completamente bandire dai giornali e dalla
televisione sauditi. Alla fine di quell’anno, dopo aver scritto un articolo su
un giornale di Londra in cui criticava il neoeletto presidente Trump, ricevette
una telefonata da al-Qahtani, che gli informava che “non gli era permesso di
twittare, scrivere, parlare. ”
Meno di un anno dopo era fuggito dal suo paese, sbarcando in Virginia. Lì si unì al The
Washington Post come opinionista, tentando di risvegliare il mondo nei
confronti della repressione nel suo paese nel modo in cui aveva articolato gli
stessi temi durante UpFront nel marzo del 2018. Quella notte,
Hasan chiese a Khashoggi perché avesse scelto di esiliarsi. “Semplicemente
perché non voglio essere arrestato”, ha detto.
Ai primi di aprile, un altro gruppo di clienti abituali degli hotel di
lusso era stato improvvisamente informato della cancellazione delle loro
prenotazioni. Stavolta si trattava del Four Seasons Silicon Valley di Palo
Alto, e gli ospiti avrebbero fatto largo al principe ereditario e alla sua
delegazione di decine e decine di persone.
Mohammed bin Salman era alla fine di un viaggio attraverso gli Stati Uniti, un coreografico
sforzo di pubbliche relazioni per abbellire la sua immagine e consolidare i
legami con leader politici e commerciali – di entrambe le società in cui il
principe aveva investito e di quelle che stava corteggiando. Cambiando il
tradizionale thobe saudita in un completo con una camicia dal
colletto aperto, si era incontrato con un sorridente Richard
Branson in un capannone della Virgin Galactic nel sud della
California. Ebbe l’occasione di provare il goffo prototipo degli occhiali di Magic Leap, l’azienda nel
campo della realtà aumentata con sede in Florida, che aveva raccolto oltre due
miliardi di dollari senza aver mai fatto uscire un prodotto. Nella valley avrebbe
poi incontrato i fondatori di Google, Larry
Page e Sergey Brin, e il suo attuale CEO, Sundar Pichai. Si era fatto quattro risate con Tim Cook e
camminato per le luminose sale curvilinee del nuovo gigantesco quartier
generale della Apple. Aveva fatto salotto con capitalisti di ventura
delle blue chip come Marc Andreessen, Vinod Khosla e
Peter Thiel.
Bin Salman non era nuovo a visite di questo tipo. Nel 2016 si
era fermato in Facebook per fare un giro con
Mark Zuckerberg. Allora come adesso, la storia che lo ha preceduto è
stata quella di un giovane acceleratore al passo con
il mondo dell’alta tecnologia, determinato a trasformare una secolare
monarchia. Ma quella volta arrivò come futuro re e intimo del genero
del presidente. Nella valley aveva portato anche
qualcosa di ancora più attraente: pacchi di soldi.
Con Mohammed bin Salman, il regno aveva iniziato a travasare denaro nel
mondo della tecnologia per diversificare la sua economia,
liberandosi dalla dipendenza della produzione petrolifera, azione fulcro di
“Vision 2030”, il piano di modernizzazione economica di bin Salman. Quegli
investimenti sono stati anche un veicolo per rafforzare la posizione
dell’Arabia Saudita nella comunità internazionale. “Quando metti soldi da
qualche parte, hai influenza e sei sempre più connesso al sistema finanziario
internazionale”, ha dichiarato Yasmine Farouk, esperta in Arabia Saudita presso
il Carnegie Endowment for International Peace. “Il sistema ha bisogno di te.”
Il fulcro dell’investimento di Mohammed bin Salman era un gigantesco
contributo di quarantacinque miliardi di dollari da parte del Public Investment
Fund (PIF) al Vision Fund di Softbank. Quando il fondo è stato lanciato nel
2017 è immediatamente diventato il più grande soggetto della valley. Si
è subito rivelato il principale azionista di Uber e ha iniettato
oltre 125 milioni di dollari in Slack, la startup di messaggistica aziendale. Da
sola, WeWork ha raccolto 6,4 miliardi di dollari. Ma era solo
l’inizio.
Ben prima dell’apparizione di Khashoggi ad Al-Jazeera, alla vigilia del
viaggio di bin Salman nella Silicon Valley, il PIF aveva annunciato un ulteriore
investimento diretto di quattrocento milioni di dollari in Magic Leap. Il PIF
aveva inoltre concordato il versamento di altri quattrocento milioni di dollari
in Endeavor, holding dell’agenzia di talenti aziendali WME a
Los Angeles. In ballo c’era anche un secondo Vision Fund, che si sarebbe
concentrato sul finanziamento della tecnologia per l’intelligenza artificiale.
Se i dirigenti della Silicon Valley fossero stati propensi ad affrontare
Mohammed bin Salman per i suoi esiti nel campo dei diritti umani – e a quel
punto c’erano poche prove che lo fossero – il finanziamento senza fondo che lui
aveva promesso sembrava sufficiente a metterli nell’umore di lasciar perdere.
Tra tutta la buona volontà e le opportunità condivise c’era però qualcosa –
qualcuno – in agguato dietro i sorrisi e le strette di mano: Maher
Mutreb. È stato spesso colto sullo sfondo di fotografie con un’espressione accigliata,
mentre il principe ereditario salutava personaggi del mondo della società e
degli affari. Addestrato negli Stati Uniti, il Mutreb colonnello
dell’intelligence aveva lavorato per al-Qahtani, il capo dell’ufficio social
media sauditi, la stessa persona che aveva partecipato alle torture
del Ritz-Carlton di Ryad. Mutreb aveva conosciuto Khashoggi nella
metà degli anni 2000, quando entrambi avevano passato del tempo a Londra.
Il capo di Mutreb, al-Qahtani, aveva continuato a contattare per mesi Khashoggi, consigliandogli in
modo cordiale che era tempo di tornare dal suo esilio volontario. Al-Qahtani
rassicurava il giornalista che sarebbe stato al sicuro, offrendogli
persino un lavoro a corte, se fosse tornato. Khashoggi aveva
educatamente rifiutato. Aveva l’aria, disse agli amici, di uno stratagemma per
sbatterlo in prigione.
Dietro le quinte della corte di Mohammed bin Salman, il dibattito sul
destino di Khashoggi era comunque stato decisamente meno favorevole. Dopotutto
Khashoggi non era soltanto un altro dissidente straniero contro la leadership
del regno – bensì un ex addetto ai lavori le cui critiche erano viste
piuttosto come un tradimento.
“Potremmo attirarlo fuori dall’Arabia Saudita e metterci d’accordo”, aveva
detto nell’agosto del 2017 il principe ereditario ai suoi,
come avrebbe in seguito rivelato il The Wall Street
Journal. Secondo le intercettazioni ottenute da fonti di intelligence dal The
New York Times, un mese dopo i suoi argomenti erano diventati più
agghiaccianti. Si lamentava con al-Qahtani degli articoli critici e
della incisiva presenza su Twitter di Khashoggi.
Al-Qahtani l’aveva avvertito che perseguire all’estero un giornalista
avrebbe portato a reazioni negative. Secondo quanto riferito, bin Salman aveva
risposto che l’interesse nazionale dell’Arabia Saudita sminuiva il rischio di
un po’ di cattiva pubblicità.
Se Khashoggi non poteva essere attirato da nessuna parte, avrebbe concluso
Mohammed bin Salman, bisognava farcelo arrivare con la forza. E se non avesse
funzionato?
Allora si sarebbe potuto inseguire Khashoggi, come detto secondo quanto è
stato riferito, “con un proiettile”.
Per l’attuale governo saudita, chiaramente Jamal Khashoggi non era un
semplice giornalista che viveva all’estero criticando il regime.
Era un traditore della famiglia reale, alla quale un tempo era stato vicino.
A queste offese nell’estate del 2018 si sarebbe aggiunta una terza
rivelazione. Sembra che quest’ultima sia il prodotto di spionaggio ad
alta tecnologia messo in atto da forze collegate all’intelligence saudita,
secondo un laboratorio di ricerca sulle tecnologie di sorveglianza con sede in
Canada. Khashoggi stava iniziando a fare più che criticare, come
dimostravano le indagini. Stava aiutando a organizzare le forze per
contrastare le repressioni di Mohammed bin Salman.
Nel maggio del 2018, a meno di un mese dalla visita di cortesia di bin
Salman negli Stati Uniti, un dissidente saudita di 27 anni di nome Omar
Abdulaziz ricevette in Canada un messaggio da un gruppo di funzionari sauditi
che cercavano di contattarlo da mesi. Stavano arrivando a Montreal, dove
abitava, con una proposta potenzialmente redditizia.
Che Abdulaziz fosse sui radar del governo non era una sorpresa. Aveva
lasciato il paese nel 2009, a 18 anni, per studiare inglese alla McGill
University con una borsa di studio del governo. Ancora studente, aveva lanciato
uno spettacolo satirico su YouTube chiamato Yakathah, una sorta
di Daily Show (un programma televisivo
satirico) per prendere in giro il suo governo. La popolarità delle sue
critiche, in particolare in patria, l’aveva portato a un attivismo più
responsabile con un account Twitter arrivato fino a oltre centomila follower.
Non passò molto tempo prima che Abdulaziz attirasse
l’attenzione del governo saudita, che gli revocò la borsa di studio. Nel
2013 ad Abdulaziz è stato concesso l’asilo politico in Canada. Ha
continuato il suo attivismo e nel 2017, qualche anno dopo, un comune amico gli
comunicò che Jamal Khashoggi era interessato a parlargli. Altri
attivisti erano diffidenti nei confronti di Khashoggi, vista la sua passata
affiliazione con la famiglia reale, ma Abdulaziz accettò di parlargli.
Nonostante non si siano mai incontrati di persona, diventarono
rapidamente intimi.
Nel corso del 2018 comunicavano quasi ogni giorno. Formulavano piani su
WhatsApp per lavorare insieme e lamentavano notizie di giornalisti e attivisti
arrestati. Khashoggi sembrava angosciato dal fatto che potevano essere
arrestati e puniti anche coloro che concordavano pienamente con Mohammed bin
Salman, per qualsiasi piccolo disaccordo che avevano osato esprimere.
“La tirannia non ha logica, Mohammed bin Salman ama la forza e
l’oppressione e ha bisogno di metterle in mostra”, aveva scritto ad Abdulaziz.
“È come un animale ‘pac man’, più vittime mangia, più ne vuole.”
Quel maggio, quando il governo propose l’incontro a Montreal – forse per
proporre una ricompensa se Abdulaziz avesse avuto intenzione di tornare – Khashoggi
avvertì il suo amico di incontrare gli agenti solo in luoghi pubblici e di non
farsi attirare in Arabia Saudita. “Se vuoi prendere i loro soldi, è
una tua decisione”, ha detto ad Abdulaziz. “Ma non per tornare; non fidarti di
loro.”
Il 15 maggio Abdulaziz era in attesa dei rappresentanti del governo
seduto in un bar. Nella tasca della giacca c’era il suo iPhone con l’app del
registratore in funzione. Due uomini si sedettero di fronte a lui senza
spiegare i loro precisi ruoli nel governo saudita. Che stessero rappresentando
una sorta di proposta ufficiale sembrava evidente. Uno di loro assicurò
Abdulaziz che il loro messaggio proveniva da Mohammed bin Salman in persona.
“Nessuno può affrontare meglio questo argomento del principe stesso”, dissero.
Gli agenti furono inizialmente amichevoli e rispettosi, come al-Qahtani lo
era stato con Khashoggi. Dissero ad Abdulaziz che anche il suo amico Jamal, a
sua volta “un mal di testa” per il governo, stava prendendo in considerazione
l’idea di tornare a casa. Era forse tempo che Abdulaziz facesse lo stesso?
Avrebbe potuto ricevere significative ricompense, se avesse scelto di tornare
volontariamente. Promisero un incontro con Mohammed bin Salman il giorno dopo
l’arrivo, nel quale il Principe ereditario avrebbe realizzato qualsiasi
richiesta. L’alternativa, erano spiacenti di dover riferire, era quella di
essere prelevato in un aeroporto da qualche parte e recluso. Questo frangente
“non sarebbe stato molto utile per lo stato”.
Anche se Abdulaziz non aveva intenzione di accettare la loro offerta,
continuò a incontrarli diverse volte nel corso di quattro giorni. Sperava
di convincerli a trasferire prima i soldi – forse le centinaia di migliaia di
dollari che gli dovevano per la sua borsa di studio cancellata, disse. La risposta fu negativa: per
prendere i soldi sarebbe dovuto tornare. Ad un certo punto, nel
tentativo di farlo vacillare, gli agenti gli fecero incontrare suo
fratello, arrivato in aereo dall’Arabia Saudita. Abdulaziz si
preoccupò, ma rimase fermo. Ben presto gli agenti, con suo fratello,
scomparvero all’improvviso da Montreal così come erano venuti.
Chris Koehler/Business Insider
Nell’estate del 2018 Abdulaziz e Khashoggi intensificarono i loro progetti
di collaborazione. L’ufficio social media di Al Qahtani era da anni
impegnato in una implacabile campagna di propaganda e trolling sul
web. Alimentato da bot, aveva preso di mira gli attivisti all’interno
del paese e i dissidenti all’esterno, guadagnando infine ad al-Qahtani il
soprannome di “Il Signore delle Mosche”. Abdulaziz e Khashoggi programmarono di
lanciare un movimento giovanile online per contrastare, con cinquemila dollari
di finanziamento iniziale messi da Khashoggi. Iniziarono a chiamarli le “Cyber
bees”.
Solo in seguito un basso profilo come quello degli agenti entrati in
contatto con Abdulaziz a Montreal sarebbe parso minaccioso. Uno di loro aveva
proposto che, anche se non fosse tornato a casa, sarebbe almeno dovuto andare
all’ambasciata saudita per fare un nuovo passaporto.
È forse meno noto che i governi possono acquistare, sul mercato
commerciale, dei software per hackerare i telefoni, per poter
registrare qualsiasi cosa per loro tramite. Ed è ancora più difficile
riconoscere uno di questi software quando è attivo. Ma è esattamente quello che
ha fatto nell’estate del 2018 uno scienziato informatico di nome Bill Marczak.
Un pomeriggio di luglio, Marczak, ricercatore alla
University of California di Berkeley, era in casa, seduto sul divano, con il
suo computer portatile. Aveva uno strano hobby:
rintracciare spyware per telefoni cellulari installati dai regimi
repressivi di tutto il mondo.
L’interesse di Marczak per l’hacking e la sorveglianza da parte dei governi
era nato nel 2012, dagli eventi della Primavera Araba. Allora dottorando in
informatica, aveva co-fondato un’organizzazione per fornire assistenza
online agli attivisti del Bahrein, dove aveva trascorso parte della sua
giovinezza, e per fare ricerche sulla repressione nella regione.
Ben presto gli attivisti del Bahrein lo misero al corrente di un altro
problema: stavano ricevendo una raffica di e-mail dall’aria sospetta.
Analizzando i messaggi, Marczak scoprì che erano stati creati per
impiantare spyware sui dispositivi degli attivisti, consentendo
a qualcuno – probabilmente al governo – di tenerli d’occhio senza che se
accorgessero. Lavorando con un’organizzazione canadese chiamata Citizen Lab,
Marczak rese pubblico quel tentativo di hacking.
Marczak ricevette ben presto simili richieste da altri attivisti e
dissidenti di tutti gli angoli del mondo. Aveva sviluppato una
complessa metodologia per scoprire se dei telefoni cellulari fossero stati
violati. Nel caso, Marczak e il suo team avrebbero avvertito i dissidenti,
analizzato il software e pubblicato le loro scoperte.
Il più sofisticato di tutti gli spyware che scoprirono era chiamato
Pegasus, prodotto da NSO Group, un’azienda israeliana coperta da
segreto. Pegasus permetteva ai suoi utenti di creare e inviare un
singolo link che, se cliccato, avrebbe concesso visibilità
totale sul telefono di un obiettivo. Chiamate, e-mail, messaggi:
tutto. Il software poteva leggere i messaggi crittografati prima che fossero
inviati e accendere la videocamera e il microfono del telefono per
registrare di nascosto qualsiasi cosa nelle vicinanze.
Pegasus, in altre parole, non era altro che lo strumento di sorveglianza
più sofisticato in assoluto. Nelle mani dei clienti della NSO, che
Citizen Lab scoprì essere governi come quello del Messico e degli
Emirati Arabi Uniti, aveva un valore inestimabile.
Seduto quel pomeriggio sul suo divano, Marczak analizzava i dati che
indicavano dove Pegasus era stato in funzione. Ogni volta che un dissidente gli
inoltrava un link sospetto, Citizen Lab utilizzava i dati
contenuti in quel link per scansionare internet alla ricerca
dei server controllati da Pegasus, quindi raccoglieva i punti
di connessione di Pegasus in una base dati. Adesso si sarebbe potuto fare il
contrario: a partire dai server di Pegasus cercare i dispositivi che cercavano
di connettersi. Marczak, in altre parole, stava cercando di capire se fossero
in grado di scoprire in modo proattivo i dispositivi violati, durante il loro
funzionamento.
Fu allora che notò qualcosa di strano. Solitamente, si
sarebbe aspettato di trovare dei telefoni che stabilissero collegamenti
all’interno dell’Arabia Saudita, da dove il governo stava probabilmente
controllando i suoi cittadini. Invece, i dati mostravano un singolo
telefono in Canada che si collegava ripetutamente con dei server che
secondo Citizen Lab sembravano essere sotto il controllo di un operatore
collegato al governo saudita.
Pegasus, si rese conto, aveva attaccato qualcuno a Montreal, apparentemente
per conto dei sauditi. Tutto ciò che si dicevano e facevano poteva
essere assorbito in tempo reale dai server, con l’aiuto di NSO.
“Ehi, penso di aver trovato qualcosa di interessante”, scrisse Marczak al
direttore del Citizen Lab. Le connessioni del telefono a Montreal rispondevano
a uno schema. Di giorno, si collegavano a Pegasus tramite un fornitore di
servizi internet residenziale. La notte, le connessioni provenivano da una rete
universitaria.
Con l’aiuto di alcuni suoi vecchi amici attivisti in Bahrein, Marczak mise
insieme sei nomi di dissidenti sauditi in Canada che sembravano corrispondere
allo schema. Per restringere ulteriormente l’elenco, avrebbe dovuto parlare di
persona con i soggetti.
Quell’agosto, Marczak volò a Montreal per incontrare dissidenti e
attivisti, comprensibilmente sospettosi circa le sue intenzioni. Quando trovò
Abdulaziz, il ventisettenne saudita insistè per incontrarsi in un luogo
pubblico. Marczak si sedette di fronte a lui un pomeriggio in una caffetteria,
e cercò di spiegargli lo schema dei collegamenti che lo avevano
condotto fino a lui. Certo, avrebbe potuto essere lui a essere sotto
controllo, rispose Abdulaziz, accettando che Marczak esaminasse il suo
telefono.
Marczak aprì l’app di messaggistica e cercò un link da sunday-deals.com, un
sito web comunemente utilizzato da Pegasus. Ed eccolo, in un messaggio di
giugno che faceva finta di arrivare dal corriere DHL, offrendo ad Abdulaziz un
link per monitorare una spedizione in sospeso.
Abdulaziz l’aveva forse cliccato? Certo, rispose. Quella mattina aveva
ordinato un quantitativo di un prodotto proteico su Amazon, e immaginava che il
messaggio fosse collegato.
“Vuoi dire che non è autentico?” chiese Abdulaziz.
“Non è autentico”, rispose Marczak.
Marczak mise il telefono in modalità aereo e lo collegò a internet tramite
il suo laptop. Sperava di usare il proprio programma per catturare
lo spyware in funzione. Ma era già troppo tardi: chiunque
avesse installato Pegasus lo aveva disabilitato e rimosso, senza lasciare
traccia, a parte il messaggio di testo fantasma. Forse era successo
proprio a causa di quell’incontro, immaginò Marczak.
In quel momento Abdulaziz sembrava sorpreso ma non scioccato che
negli ultimi due mesi ogni comunicazione sul suo telefono fosse sotto controllo.
Se Marczak avesse avuto ragione, avrebbe voluto dire che i sauditi
sapevano dei suoi scambi con Khashoggi sul governo di Mohammed bin
Salman, dei loro progetti e di Cyber Bees.
Da lì a qualche settimana dopo che in agosto Marczak lo aveva avvertito
dell’hacking, i due fratelli più giovani di Abdulaziz in Arabia
Saudita furono arrestati, insieme a otto dei suoi amici. Abdulaziz lo considerava come
il tentativo del governo di costringerlo a tornare a casa e forse mantenere la
promessa fatta dall’agente. Se non fossero riusciti a catturarlo, avrebbero
trovato qualcos’altro.
Abdulaziz continuò a mostrare spirito di resistenza. “Il mio attivismo non
si fermerà”, aveva detto a un giornalista. “Non accetto il ricatto.”
Quando Abdulaziz informò Khashoggi dell’hack, subito dopo essere
stato informato da Marczak, il giornalista rise nervosamente, chiedendosi a
voce alta se anche lui potesse essere sotto sorveglianza. Il 1° ottobre
2018 Bill Marczak e i suoi colleghi del Citizen Lab pubblicarono un rapporto
sul controllo del telefono di Abdulaziz. Non c’è prova che Jamal Khashoggi
l’avesse letto prima di entrare nel consolato saudita di Istanbul, alle
13:00 del giorno seguente.
In seguito, dai brandelli delle intercettazioni ambientali fatte trapelare
dall’intelligence turca ai giornalisti locali, e ascoltate anche dagli
investigatori delle Nazioni Unite, i grotteschi frammenti di ciò che sarebbe
successo dopo avrebbero scioccato il mondo. Anche se le varie trascrizioni dei
dialoghi sono a volte contraddittorie, c’è materiale sufficiente per mettere
insieme un quadro coerente e originale di un omicidio e di un insabbiamento.
Mentre alle 13:00 Khashoggi e Cengiz arrivavano nei pressi delle barriere
all’esterno del consolato, Mutreb e Tubaigy, il dottore, erano all’interno,
dando gli ultimi ritocchi.
“Prima gli diremo che lo stiamo portando a Riyad”, si può sentir dire
Mutreb nelle registrazioni. “Se non fosse d’accordo, lo uccideremo
qui e ci libereremo del corpo... [Sarebbe possibile] mettere il
torso in una borsa?”
“No. Troppo pesante”, risponde Tubaigy. Poi fissa con calma i passi per
gestire il cadavere. “Non ho mai lavorato su un corpo caldo prima, ma
sarà facile. Di solito quando seziono cadaveri mi metto le cuffie e
ascolto la musica. Nel frattempo prendo il caffè e fumo.”
“È facile staccare le giunture”, continuava, “ma per tagliarlo a
pezzi ci vorrà del tempo. Non è un problema. Il corpo è pesante. Di solito,
per tagliarlo a pezzi, l’animale si appende ad un gancio, dopo averlo sgozzato.
Non l’ho mai fatto per terra. Quando avrò finito di tagliare, dovrai avvolgere
i pezzi in sacchetti di plastica, li metterai in valigie e li porterai fuori.”
Se Tubaigy avesse mostrato dubbi, questi non sarebbero stati umani ma
burocratici. “Il mio diretto superiore non è a conoscenza di ciò che sto
facendo”, si lamentava con Mutreb. “Non c’è nessuno a proteggermi.” Non c’era
motivo di preoccuparsene adesso, però. Era quasi ora di iniziare.
“È arrivata la vittima sacrificale?” chiese Mutreb.
Qualche istante più tardi, alle 13:14, Khashoggi rispose a
un cenno della guardia in blazer azzurro pallido, ed entrò attraverso
la doppia porta di bronzo del consolato.
All’interno, fu fatto entrare nell’ufficio del consigliere generale al
secondo piano. Ad aspettarlo era ciò che sicuramente gli sembrò una
sconcertante accolita di persone. Il mistero si spiegò non
appena Khashoggi vide che al-Qahtani, l’uomo che aveva cercato di
convincerlo a tornare – l’uomo che aveva supervisionato le brutali operazioni
al Ritz – era in collegamento Skype.
I resoconti di chi ha ascoltato i nastri differiscono leggermente, ma secondo
i giornalisti turchi Mutreb e Qahtani misero in atto una confusa
strategia in stile “poliziotto buono – poliziotto cattivo”. Qahtani
insultò Khashoggi, rimproverandolo per il suo tradimento. In un primo momento
Mutreb fu più accomodante. I suoi peccati contro il governo sarebbero
stati perdonati se fosse tornato a casa, disse al giornalista.
Khashoggi disse che sperava di tornare, un giorno.
“Dovremo riportarti indietro”, rispose Mutreb. Disse a Khashoggi
che c’era un avviso dell’Interpol – una specie di mandato di cattura
internazionale – contro di lui.
“Non c’è niente contro di me”, aveva detto Khashoggi.
Percependo il pericolo, provò a bluffare per poter uscire. Affermò
che delle persone lo stavano aspettando fuori: un’automobile con autista,
disse, e la sua fidanzata. “Non vado a Riyad.”
Non importava, gli avevano detto. Facciamo presto, disse un funzionario.
Chiesero a Khashoggi quali telefoni avesse usato. Doveva mandare un messaggio a
suo figlio in Arabia Saudita, spiegando che era a Istanbul. “Non preoccuparti
se per un po’ non riesci a mettermi in contatto con me “, gli dissero di
scrivere.
“Cosa dovrei dire, a presto?”, Chiese Khashoggi. “Non posso scrivere
‘rapimento’.”
In risposta, un funzionario gli disse di togliersi la giacca.
“Come può succedere tutto ciò in un’ambasciata?”, disse Khashoggi.
“Aiutaci affinché possiamo aiutarti”, disse Mutreb, “perché, alla
fine, è in Arabia Saudita che ti riporteremo. Se non ci aiuti, sai come
andrà a finire. Lascia che questo problema trovi un lieto fine”.
“C’è un tampone lì, dovete darmi dei farmaci?”, Chiese Khashoggi. Sembrava
ancora calmo.
“Ti addormenteremo“, fu la risposta.
Quindi Mutreb diede l’ordine.
Cinque agenti si buttarono su Khashoggi. Lui lottava, e nel caos si sentiva
un agente dire “continua a spingere. Spingi qui, non togliere la mano”.
“Lasciami respirare,” diceva Khashoggi. “Ho l’asma. Smettila, mi sta
soffocando.”
Le intercettazioni ambientali turche hanno poi catturato ciò che ad alcuni
è sembrato come un sacchetto di plastica che veniva messo sulla testa
di Khashoggi. Poi solo suoni ovattati di lotta. Quindi niente più.
Mutreb fece una telefonata. “Riferisci al tuo capo”, disse
nell’apparecchio. “L’operazione è compiuta.”
Il resto del piano della squadra di esecuzione continuò con grottesca
efficienza. Un agente tolse vestiti a Khashoggi e li consegnò ad al-Madani, il
sosia. Un altro tirò fuori dei teli di plastica.
Tubaigy, il medico, prese la sega da osso che aveva portato da Riyad.
Due ore dopo, il furgone squadrato uscì dal vialetto coperto del
consolato. Trasportava Mutreb, Tubaigy e, con ogni probabilità, il corpo
smembrato di Khashoggi. Guidarono per il breve tragitto fino alla casa
del console generale. Sul viale di accesso tre uomini scaricarono tre sacchi della spazzatura e
una valigia con le ruote.
Al consolato, al-Madani stava uscendo da una porta sul retro,
evitando Hatice Cengiz al cancello sul davanti. Era vestito con gli abiti di
Khashoggi, a parte un paio di scarpe da ginnastica al posto delle
stringate nere del giornalista. Saltò su un taxi accompagnato
da un altro agente che indossava dei jeans, una felpa con cappuccio e una borsa
di plastica bianca, e chiese di essere portato alla Moschea Blu nel centro
storico di Istanbul.
Da qualche parte all’interno della moschea al-Madani si cambiò di nuovo,
stavolta con i suoi vestiti. Gli agenti mollarono la borsa bianca e salirono su
un altro taxi per una stazione della metropolitana. Se più tardi
qualcuno avesse controllato le riprese delle telecamere di sicurezza di
Istanbul, avrebbero desunto che Khashoggi era uscito dal consolato per andare a
visitare la città.
Poco prima delle 17:00 Mutreb, Tubaigy e un altro agente lasciarono la
residenza del console generale. Non c’era traccia dei sacchi o della valigia
con le quali erano entrati.
In quel momento due jet privati stavano arrivando da Riyad. Mutreb e altri
cinque presero il primo, un aereo della Sky Prime Aviation con matricola
HZ-SK1, partito da Istanbul alle 18:30. L’aereo volò durante la notte verso il
Cairo, ripartendo la sera successiva per l’Arabia Saudita. Gli altri sette
decollarono su uno Sky Prime HZ-SK2 poco prima delle 22:00. Gli ultimi due membri
della squadra di esecuzione partirono alle 1:30 del mattino seguente su un volo
di linea per Riyad.
Erano passate dodici ore da quando avevano ucciso Khashoggi.
Nel corso della serata del 2 ottobre l’intelligence turca stava già
riascoltando le sette ore di registrazioni audio provenienti dall’interno del
consolato. Poiché le registrazioni non erano state controllate in tempo
reale, all’inizio gli agenti dei servizi fecero fatica a capire il vero destino
di Khashoggi. Forse, avevano concluso, era stato drogato e trasportato
fuori dall’ambasciata in una cassa, ancora vivo.
Nel frattempo, il depistaggio saudita era già iniziato. La
mattina del 3 ottobre, il personale del consolato ebbe disposizioni di evitare
il secondo piano, che fu pulito intorno alle 11:00. In serata le telecamere
registrarono un fuoco acceso in un barile, fuori dalla casa del console
generale.
Il 5 ottobre, un funzionario consolare era andato a far
lavare il furgone visto entrare e uscire dal consolato. Il
giorno seguente, i funzionari sauditi fecero entrare nel consolato i giornalisti di Reuters con una
telecamera. Volevano dimostrare di non aver nulla da nascondere, erano
sconcertati come chiunque altro sulla scomparsa di Khashoggi.
“Il cittadino Jamal non è nel consolato o nel Regno dell’Arabia Saudita”,
aveva detto il console saudita davanti alle telecamere. Almeno questo era vero.
La bugia arrivò dopo. “Il consolato e l’ambasciata stanno facendo del loro
meglio per cercarlo. Siamo preoccupati per il caso”, disse con occhi che
guizzavano da una parte all’altra. Sì, il consolato aveva telecamere di
sicurezza installate in tutti i suoi ingressi, ha ammesso in risposta
alla domanda di un giornalista. In qualche modo, quel giorno non
avevano semplicemente funzionato.
L’ambasciatore saudita negli Stati Uniti aggiunse una dichiarazione:
qualsiasi notizia “che le autorità del Regno abbiano arrestato [Khashoggi] o lo
abbiano ucciso sono assolutamente false e prive di fondamento”.
Ma gli autori del complotto potevano già accorgersi che i loro inganni
stavano per venire alla luce.
Il 10 ottobre, una nuova squadra era in volo da Riyad. Comprendeva
membri dei dipartimenti dei test genetici e delle prove criminali sauditi
e sembrava avere l’incarico di eseguire un livello più approfondito di
pulizia. La squadra entrata in azione il giorno
seguente era composta da undici membri, tra cui un chimico e un esperto di
tossicologia. Lavorarono all’interno del consolato per tre giorni,
praticamente a ciclo continuo.
Anche se i sauditi avevano continuato a sostenere che Khashoggi fosse semplicemente
“disperso”, da un esame più attento delle registrazioni le autorità
turche conclusero che era stato ucciso, il corpo probabilmente
trasportato a casa del console generale. La stampa turca,
alimentata da prove fornite della National Intelligence Organization, iniziò
a pubblicare foto, video e dossier sui quindici membri della squadra
di esecuzione: l’arrivo all’aeroporto, la registrazione nei rispettivi hotel,
le entrate e le uscite dal consolato.
Il canale televisivo satellitare saudita di informazione, Al Arabiya, riferiva invece che i quindici sospetti
sauditi erano solo dei turisti. Affermavano che Khashoggi non era stato ucciso
e bollavano le affermazioni contrarie come “false notizie”.
Alle autorità turche fu finalmente concesso l’accesso al consolato il
giorno 15. Gli investigatori trovarono ben poco di interessante. Le stanze erano
state così accuratamente pulite, dissero ai giornalisti locali, che non
riuscirono a rilevare nemmeno i livelli di DNA tipici di un ufficio.
Nella residenza del console i funzionari sauditi avevano
impedito ogni loro mossa, dichiarando improvvisamente inaccessibili
alcune aree. Come per il consolato, dissero che nella
giornata del 2 ottobre le telecamere a circuito chiuso non erano
misteriosamente riuscite a registrare nulla. Notando che nella
proprietà c’era un pozzo, gli investigatori turchi chiesero il permesso
di ispezionarlo. La richiesta fu respinta.
Agnes Callamard, un’esperta di diritti umani nata in Francia che gestiva il Global Freedom
of Expression Project della Columbia University, stava seguendo sempre più
preoccupata da New York la vicenda Khashoggi. Aveva passato anni a documentare
omicidi di stato nella sua veste di relatrice speciale delle Nazioni
Unite sulle esecuzioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie – una
specie di investigatore girovago e indipendente che si occupava delle
morti illegali. Sapeva bene come si poteva presentare un depistaggio.
Il 15 ottobre, lei e un collega firmarono un editoriale per il The
Washington Post, chiedendo un’indagine indipendente sponsorizzata dal
Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. “La scomparsa di Khashoggi deve
portare alle responsabilità e avere conseguenze”, avevano scritto.
Non è successo niente. “A livello internazionale c’era l’umore di
lasciar correre”, mi avrebbe in seguito detto la Callamard, “e di andare avanti
come se niente fosse”.
Il governo saudita stava già manovrando per costruire un’altra sponda
narrativa. In una telefonata del 9 ottobre con Jared Kushner e John Bolton,
l’ex consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, Mohammed bin
Salman aveva spiegato che Khashoggi era un “pericoloso
islamista” e un noto membro dei Fratelli Musulmani. Il governo saudita
sosteneva ancora pubblicamente la possibilità che Khashoggi fosse vivo. In
privato, il principe ereditario stava già giustificando la sua uccisione.
Mohammed bin Salman aveva investito nelle relazioni con l’amministrazione
Trump dal momento in cui Trump è entrato in carica. Dopo essersi sentito messo
da parte da un’amministrazione Obama decisa a stringere l’accordo nucleare con
l’Iran, il re e il principe ereditario avevano trovato una causa comune con un
presidente statunitense desideroso di disconoscere il traguardo raggiunto dal
suo predecessore. Trovarono anche facile confidenza con un leader disposto a
mantenere il potere all’interno della propria famiglia, come Trump aveva fatto
con Ivanka e Jared. Petrolio, commercio di armi, reciproca antipatia
per l’Iran e antiterrorismo formano da tempo i quattro pilastri delle relazioni
USA-Arabia Saudita. A questi se ne potrebbe aggiungere un quinto, più
personale. Avere il genero di un presidente “in tasca”, secondo quanto
riferito da Mohammed bin Salman, stava per dare i suoi frutti.
Non è quindi un caso che sia stato Trump a lanciare per la prima volta pubblicamente
la “teoria degli assassini canaglia” – cioè che la squadra di quindici
uomini era stata inviata per riportare indietro Khashoggi e, contro gli ordini,
aveva finito per ucciderlo. Dopodiché, questa divenne la versione
su cui il governo saudita fece perno il 19 ottobre, dopo che l’ammissione
forzata dell’omicidio aveva annullato la prima serie di smentite. Il
procuratore capo saudita apparve sulla televisione di stato per riferire che in
realtà il giornalista era stato ucciso. Nel consolato era scoppiata una
rissa, affermava falsamente, e purtroppo Khashoggi aveva perso la vita.
Il giorno successivo, un portavoce saudita riferiva a Reuters che il governo
aveva arrestato diciotto sospetti in relazione all’omicidio, inclusi i
quindici indicati dalle autorità turche come parte della squadra di esecuzione
(che lo avessero fatto o meno mentre erano “in vacanza”, come avevano affermato
in precedenza i sauditi, non era dato sapere). Comunque, il governo saudita
continuava a sostenere che l’omicidio era stato, come lo aveva definito un funzionario, “un enorme
errore.”
Ci volle meno di una settimana perché la storia cambiasse ancora: il 25 ottobre
il governo saudita ammise che l’omicidio era stato premeditato, ma
continuava a sostenere che non aveva idea di dove fosse finito il corpo di
Khashoggi. Avevano anche affermato che alcuni membri dell’apparato di sicurezza
dello stato, tra cui al-Qahtani, avevano perso il lavoro. Ma i 18
sospetti inizialmente arrestati sono presto diminuiti a 11 che sono
stati accusati penalmente in relazione all’omicidio. Quel numero
includeva Mutreb e Tubaigy, insieme a nove agenti di sicurezza. Al
Qahtani non fu incluso tra gli accusati – né, naturalmente, lo stesso
Mohammed bin Salman.
Esperti osservatori della realtà saudita trovarono impossibile che
un’operazione così elaborata potesse aver luogo sotto il naso del principe
ereditario, considerato il suo controllo sull’apparato di sicurezza dello
stato. Il 16 novembre sia il The Washington
Post sia il The New York
Times riferivano tramite fonti anonime che la CIA
era arrivata alle stesse conclusioni: Mohammed bin Salman non era
soltanto a conoscenza dell’omicidio ma, se ne poteva dedurre, l’aveva
ordinato. Tra le altre prove trapelate al The Wall Street
Journal da un rapporto ufficiale c’era il fatto che Mohammed
bin Salman e al-Qahtani si erano scambiati undici messaggi di testo durante la
fase dell’uccisione.
Via via che cresceva l’indignazione pubblica intorno al
possibile ruolo del governo saudita nell’omicidio, persino
l’amministrazione Trump parve costretta a indicare almeno una qualche
preoccupazione a proposito della propria relazione con quel governo.
L’amministrazione Trump annunciò sanzioni personali per diciassette
sauditi, tra cui Saud al-Qahtani, che nell’annuncio del
Dipartimento del Tesoro era indicato come facente “parte della pianificazione e
del compimento dell’operazione che ha portato all’uccisione del Signor
Khashoggi”.
Il The New York Times aveva riferito che in privato anche Trump aveva
alzato gli occhi al cielo quando i suoi collaboratori gli avevano chiesto se
Mohammed bin Salman avesse potuto o meno ignorare l’esecuzione. Pubblicamente,
tuttavia, Trump rimaneva accanto all’amico di suo genero.
Il 20 novembre, il presidente USA aveva rilasciato una bizzarra
dichiarazione riaffermando la sua fiducia nel regime saudita e in Mohammed bin
Salman. “Il mondo è un posto molto pericoloso!” cominciava la dichiarazione.
Dopo diversi paragrafi strombazzanti i pericoli dell’Iran e celebrativi di un
vago impegno saudita per investire quattrocento miliardi di dollari negli Stati
Uniti, la dichiarazione affrontava l’omicidio di Khashoggi, definendolo
“un terribile [crimine], di quelli che il nostro paese non perdona”. Era stata
inoltre riesumata l’affermazione priva di prove da parte di bin Salman rivolta
a Kushner e Bolton, secondo cui i sauditi consideravano Khashoggi “un
nemico dello stato” e un membro dei Fratelli Musulmani.
“Può benissimo essere che il principe ereditario fosse a conoscenza di
questo tragico evento – forse lo era, forse no!”, aveva continuato Trump.
“Detto questo, potremmo non conoscere mai tutti i fatti relativi
all’omicidio del signor Jamal Khashoggi.”
A gennaio, Agnes Callamard, il relatore speciale delle Nazioni Unite, si
rese conto che Trump avrebbe probabilmente avuto ragione sugli aspetti
inconoscibili della vicenda. Il mondo non si sarebbe mobilitato per un’indagine
indipendente. Il Consiglio di Sicurezza non aveva fatto niente di ciò che
aveva proposto.
Decise quindi di iniziarla da sola. “Sentendomi delusa, avevo pensato:
‘non può finire così’”.
Gran parte del suo lavoro aveva riguardato uccisioni su larga scala
perpetrate da gruppi armati. La morte di Khashoggi rientrava però nel suo
mandato di “esaminare situazioni di esecuzioni extragiudiziali, sommarie o
arbitrarie in ogni circostanza”, secondo la risoluzione che lo aveva istituito.
Per sua natura, il suo ruolo non richiedeva l’approvazione delle
Nazioni Unite per una particolare indagine. “Mi sentivo un po’
sconfortata”, disse. “Ero sola, mentre dovevo considerare l’uccisione più
chiacchierata del momento, una notizia importante, una grossa patata bollente
per le relazioni internazionali.” Organizzò una squadra di avvocati e
di traduttori, e il suo primo viaggio in Turchia.
Dopo settimane di trattative, l’intelligence turca permise alla
Callamard di ascoltare – ma non di copiare o ufficializzare – parti dei nastri
di sorveglianza, insieme a un traduttore. Attraversò poi l’Europa e il Nord
America, intervistando amici e colleghi di Hatice Cengiz e Khashoggi, tra cui
Omar Abdulaziz. A dicembre, Abdulaziz aveva intentato una causa contro
NSO Group, il produttore di Pegasus, sostenendo che le informazioni
ottenute durante la violazione del suo telefono avevano costituito un “fattore
cruciale” nella decisione di uccidere Khashoggi.
La causa è rimasta pendente. In una dichiarazione rilasciata a Business
Insider martedì 1 ottobre, NSO Group ha rifiutato di commentare specificamente
la questione Abdulaziz, ma ha osservato che un controllo su “ogni governo con
cui NSO intrattiene rapporti commerciali” ha mostrato che Jamal
Khashoggi “non è stato sotto controllo da parte di nessun prodotto o
tecnologia NSO”. Per quanto riguarda Abdulaziz, il gruppo NSO aveva
precedentemente dichiarato al The New York Times che il suo
software era “concesso in licenza per il solo uso di dare ai governi e alle
forze dell’ordine la possibilità di combattere legalmente il terrorismo e il
crimine”, e che i suoi contratti erano “forniti solo dopo un controllo e
completo consenso da parte del governo israeliano”.
I sauditi si rifiutarono di accreditare l’indagine della Callamard, ignorando le sue
richieste. Il The Washington Post ha riferito che il governo aveva
offerto ai figli di Khashoggi case e somme mensili come compensazione per
l’omicidio (il figlio di Khashoggi ha negato che sia stato raggiunto
un qualsiasi accordo). Il regno ha aperto le sue porte a diversi
importanti influencer di Instagram, ai quali ha offerto tour a
pagamento per vedere il lato positivo del paese. “Non è propaganda”,
aveva dichiarato a Bloomberg il principe responsabile dello
sforzo. “È semplicemente un’attività di coinvolgimento.”
Molti dirigenti del mondo della tecnologia e venture
capitalist che avevano acclamato nella Silicon Valley il Mohammed
bin Salman riformatore non erano disposti a coinvolgersi apertamente. Se un
capitalista di ventura della Sand Hill Road – la strada della Silicon Valley
dove risiedono la maggior parte delle compagnie di investimento – fosse stato
accusato di aver commissionato un brutale omicidio, ci si sarebbe come minimo
potuto aspettare che i partner e gli investitori si sarebbero allontanati – o
che addirittura si pulissero completamente le mani da quel denaro sporco di
sangue. Una volta messo sotto accusa un manovratore come bin Salman,
seduto in un palazzo di Riyadh con in mano i cordoni di somme miliardarie
ancora maggiori, la strategia sembrò essere il silenzio assoluto.
Alcuni di loro, come Richard Branson e il CEO di Uber Dara
Khosrowshahi, decisero di disertare una conferenza economica prevista per fine
ottobre, ospitata da Mohammed bin Salman a Riyad, soprannominata “la
Davos nel deserto”. Altri scelsero di allontanarsi silenziosamente dai
progetti sauditi, come hanno fatto i dirigenti di Apple e lo studio di
design IDEO, uscendo dal comitato consultivo di Neom, un progetto di
“mega-città” in Arabia Saudita.
Nessuno dei magnati tecnologici in erba che aveva sostenuto la
propria curva di crescita con i miliardi sauditi sembrava però disposto
a toccare la questione di Khashoggi, anche dopo che i fatti erano stati
resi noti (Business Insider ha contattato una dozzina di startup tecnologiche
che avevano direttamente o indirettamente ricevuto significativi
investimenti dall’Arabia Saudita; i pochi che hanno risposto non
hanno commentato il caso).
L’unica società a ripudiare pubblicamente il denaro saudita è stata
Endeavor, il colosso di scouting aziendale basato a Hollywood, che
a marzo 2019 ha annunciato di restituire quattrocento milioni di
dollari concessi dal fondo di investimento pubblico saudita.
Lo scorso agosto, SoftBank ha annunciato che avrebbe presto
iniziato a investire il suo Vision Fund Two in un nuovo gruppo di società.
Nonostante l’affermazione fatta in ottobre da Mohammed bin Salman secondo cui i
sauditi stavano immettendo nel fondo altri quarantacinque miliardi, i
sauditi non sono presenti tra gli investitori.
Non è chiaro se ciò sia dovuto a una nuova resistenza ai soldi sauditi o a una
recente riluttanza da parte di Mohammed bin Salman a spenderli. Poiché la
valutazione di Uber si è appiattita dopo la sua offerta pubblica iniziale e una
WeWork sotto pressione ha dovuto rinviare la sua IPO, lo stesso Vision
Fund iniziava a sembrare una scommessa poco sicura come investimento.
A giugno la Callamard e il suo team hanno pubblicato il loro straziante
rapporto di 100 pagine, catalogando i raccapriccianti dettagli
del complotto e della sua esecuzione. Si sosteneva che i processi
segreti agli undici sicari accusati in Arabia Saudita non avrebbero fatto
giustizia (Saud al-Qahtani, il principale pianificatore dell’omicidio, era
nel frattempo scomparso dalla vita pubblica in Arabia Saudita, con voci non
ancora confermate di un suo avvelenamento. A settembre Twitter ha
improvvisamente deciso di sospendere il suo account, a lungo rimasto inattivo).
La Callamard raccomandava agli Stati Uniti di aprire un’indagine
dell’FBI sull’omicidio e di sanzionare Mohammed bin Salman – “secondo
le credibili prove delle responsabilità del Principe ereditario nell’omicidio”
– finché i sauditi non forniscano prove per stabilire se fosse o meno coinvolto
nel complotto.
Giorni dopo l’uscita del rapporto, tuttavia, Trump ha dichiarato in
un’intervista su “Meet the Press” di non essere neanche riuscito a sollevare
l’argomento dell’omicidio, durante una telefonata con Mohammed bin Salman. Era
stato “un grande confronto”, ha detto. “ma in quella discussione non è proprio
stato toccato l’argomento”
Anche se alcuni membri del congresso, sia repubblicani che democratici,
continuavano a chiedere esiti in merito all’omicidio di Khashoggi, la famiglia
Trump era rimasta ferma nella sua lealtà. Il presidente Trump ha
ignorato una direttiva bipartisan del Congresso per pubblicare un rapporto sul
coinvolgimento del principe ereditario e ha posto il veto al tentativo di
fermare il sostegno degli Stati Uniti alla brutale guerra dell’Arabia Saudita
nello Yemen. In effetti, gli affari tra i due paesi continuavano a
essere vivaci: meno di tre settimane dopo l’assassinio di Khashoggi, l’amministrazione
aveva già concesso l’autorizzazione a due società
private statunitensi per la condivisione di informazioni nucleari sensibili con
il governo saudita.
Per Mohammed bin Salman il messaggio non avrebbe potuto essere più chiaro.
“Fintanto che il presidente Trump è al potere e finché Mohammed bin Salman
offre denaro comprando armi, investendo in società statunitensi e
nell’economia americana, saprà di avere una sorta di copertura, una
sorta di protezione”, mi ha detto la Farouk di Carnegie’s.
Dopo che due impianti petroliferi sauditi sono stati danneggiati dai
recenti attacchi di droni che funzionari della Casa Bianca sostengono siano
originari dell’Iran, un giornalista ha chiesto a Trump se avesse promesso ai
sauditi “che gli Stati Uniti li avrebbero protetti”.
“No, non l’ho fatto. Non l’ho promesso ai sauditi”, ha risposto Trump. “Ma
li aiuteremmo sicuramente”, ha detto. “Sono stati un grande alleato. Negli
ultimi anni hanno speso quattrocento miliardi di dollari nel nostro paese.
Quattrocento miliardi di dollari.” L‘Arabia Saudita, ha osservato in
conclusione, “paga in contanti”.
Quasi due anni dopo la repressione da parte di Mohammed bin Salman della
corruzione nel suo paese e due settimane prima dell’anniversario dell’omicidio
di Jamal Khashoggi, un suo documento riferisce che Jared Kushner
tornerà in Arabia Saudita per la “Davos nel deserto” di quest’anno. Il
forum si svolgerà al Ritz Carlton di Riyad.
Il 20 ottobre del 2018 Hatice Cengiz si è svegliata al
ronzio del suo telefono. Era un messaggio del migliore amico di Khashoggi. “Dio
riposi la sua anima”, c’era scritto. In televisione il procuratore capo
dei sauditi aveva appena ammesso che il suo promesso sposo era morto.
Il 2 ottobre, quando Khashoggi non era riuscito a riemergere dal consolato,
lei aveva passato la serata telefonando freneticamente, cercando una risposta
su dove fosse andato. Le menzogne ufficiali sul suo destino sono state la
causa di un crudele ottimismo che avrebbe potuto farlo considerare ancora vivo.
Forse era stato rapito, portato fuori dal paese e riportato in Arabia Saudita.
Scomparso, ma ancora vivo. Il fatto che lo avessero
semplicemente ucciso sembrava non avere senso.
Aveva trascorso le sue giornate parlando con i parenti e gli amici di lui,
cercando di proteggersi dalle infinite ondate di curiosità e di preoccupazione
da ogni angolo del mondo. Ha fatto alcuni commenti, ma non ha tenuto conferenze
stampa. Quando Jamal fosse uscito da qualunque posto si trovasse, pensava, avrebbe
parlato da solo.
Per Cengiz la sua morte non ha causato soltanto dolore, ma anche
portato domande. Alcune semplici, alimentate dalla rabbia: dov’era
il suo corpo? Di chi era la colpa? Chi avrebbe potuto chiedere giustizia per
lui? Altre domande, disse in seguito, non avevano risposta, girando e
rigirando nella sua testa. “Era arrabbiato con me?”, si chiese. “Che cosa ha dovuto passare? Che cosa
ha provato quando si è reso conto che lo avrebbero ucciso?”
Lasciata a soffrire sotto la luce dei riflettori globali, aveva dovuto
mettere da parte i suoi studi, mentre diplomatici e governi nascondevano,
tessevano e razionalizzavano la morte dell’uomo che amava. Descrisse davanti
alle telecamere della televisione l’agonia di quel giorno; scrisse un libro in
turco che includeva pagine del suo diario scritte nei giorni successivi
all’omicidio, intime professioni dell’amore che il suo paese aveva
strumentalizzato. Tutto si tingeva della speranza di spingere il mondo verso la
comprensione di ciò che era andato perduto quella mattina di ottobre – forse,
persino la giustizia.
“Credo che questi momenti siano molto preziosi per Jamal”, mi disse tramite
un traduttore, quando ci incontrammo il 27 settembre in una suite d’albergo
vicino alla Grand Central di New York. “Devo, quindi, fare tutto il possibile
per lui.”
Era venuta a New York per tenere un discorso in concomitanza con la
riunione annuale dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Tra le cose
che stava caldeggiando c’erano le raccomandazioni del rapporto della Callamard:
un’indagine completa di un’entità come l’FBI e la responsabilità di chiunque in
Arabia Saudita fosse responsabile di quello che lei chiamava “un omicidio
politico”.
Quella con me è stata l’ultima di una serie di interviste, una di seguito
all’altra, che Cengiz aveva dato quel giorno. In qualche modo, ogni scambio
l’ha costretta a raccontare o riflettere sui momenti peggiori della sua vita e
sul dolore che ne è seguito. Eppure, non sembrava stanca, ma irremovibile,
diretta.
“Sì, mi sono persa qualcosa in termini di carriera, ma per il momento non mi
interessa”, ha detto. “Ciò che conta è Jamal, devo difendere i suoi
diritti.”
La questione della responsabilità di Mohammed bin Salman era riemersa
quella mattina, quando il Public Broadcasting Service aveva pubblicato il
trailer di un prossimo documentario di Frontline sull’Arabia
Saudita. In esso, il giornalista Martin Smith dichiarava di aver rintracciato
Mohammed bin Salman a un evento sportivo, chiedendogli del suo ruolo
nell’omicidio di Khashoggi. “Mi prendo tutta la responsabilità,” riferisce
Smith che il principe ereditario abbia detto, “perché è successo sotto
il mio controllo.” Alla domanda su come l’omicidio sarebbe potuto
succedere senza i suoi ordini, aveva detto “Siamo venti milioni di persone.
Abbiamo tre milioni di dipendenti pubblici”. Pochi giorni dopo il principe
ereditario ha rafforzato la sua smentita, in un’intervista a 60 Minutes.
Definendo l’omicidio un “episodio atroce”, Mohammed bin Salman ha
risposto “assolutamente no” a una domanda precisa sul fatto che lo avesse
ordinato o meno, ribadendo poi che non avrebbe potuto tenere
sotto controllo neanche le azioni dei suoi più stretti consiglieri, tra i
milioni di cittadini dell’Arabia Saudita.
Secondo la Cengiz, per Mohammed bin Salman aver concesso una dichiarazione
del genere dimostrava che percepiva la pressione della copertura mediatica
sull’omicidio. I suoi argomenti, come lei ha suggerito, avevano anche lo scopo
di inviare un messaggio: “è lui il responsabile dell’amministrazione saudita e
del governo saudita. Affermando ciò, sta anche consolidando la sua posizione”.
Stava inoltre, pensava, implicitamente ammettendo che, in quanto sovrano
onnisciente, sapeva esattamente cosa fosse successo nel complotto per
l’esecuzione. “Ora è a lui che mi rivolgo”, ha detto. “Se è vero che hai
confessato, condividi anche i dettagli di questo incidente.”
Prima che ci alzassimo per andarcene, chiesi a Cengiz come potesse
trattenersi dall’essere sopraffatta dal cinismo.
“Questa storia ha cambiato totalmente la mia vita, dividendola in due”, ha
detto. “Ho trentacinque anni e ho improvvisamente iniziato la seconda metà
della mia vita con nuovi programmi. Non c’è niente altro che conti per me.”
Aveva lasciato dietro di sé le preoccupazioni terrene, disse. Non aveva più
paura della morte.
“Amare ed essere amati è la cosa più importante”, ha detto. “Credo che
dobbiamo vivere per le cose che valgono davvero la pena.”
CREDITI
Storia
Evan Ratliff è
l’autore di The Mastermind: Drugs, Empire, Murder, Betrayal. I suoi
scritti compaiono su Wired, The New Yorker, e altri periodici. È co-fondatore
di The Atavist Magazine.
Disegni
Chris Koehler è
un artista e illustratore pluripremiato che vive a Sacramento.
Grafica
Skye Gould è il caposervizio grafico di
Business Insider.
Samantha Lee è la progettista grafica
senior di Business Insider.
Ricerche
Daniel Boguslaw è
giornalista e ricercatore, vive a New York City.
Eli Lee è un ricercatore
che vive a Washington, D.C.
Grace de Graaf è
assistente di redazione di Insider.
Nicole Einbinder è una giornalista di
Insider.
Jacob Shamsian è redattore di cronaca di
Insider.
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