Appunti sui giorni al campo profughi di Makhmour
– Cecco Bellosi
Questi non sono appunti di viaggio ma di
un’esperienza in un campo profughi che in questi mesi è diventato un campo di
prigionia. Il campo di Makhmour è sorto nel 1998, su un terreno arido assegnato
dall’Iraq all’ONU per ospitare i profughi di un viaggio infinito attraverso
sette esodi, dopo l’incendio dei villaggi curdi sulle alture del Botan nel 1994
da parte della Turchia.
Niente di nuovo sotto il sole, con Erdogan.
Quei profughi hanno trasformato quel
fazzoletto di terra senza un filo d’erba in un’esperienza di vita comune che è
diventata un modello di democrazia partecipata del confederalismo democratico,
l’idea di un nuovo socialismo elaborata da Apo Ocalan nelle prigioni turche,
attorno al pensiero del giovane Marx e di Murray Bookchin.
Il campo di Makhmour non è un laboratorio, è
una storia intensa di vita.
Da vent’anni questi tredicimila profughi
stanno provando a realizzare un sogno, dopo aver pagato un prezzo molto, troppo
elevato, in termini di vite umane. Nel campo vi sono tremilacinquecento bambini
e il 70% della popolazione ha meno di 32 anni. La loro determinazione a vivere
una vita migliore e condivisa ha superato finora tutti gli ostacoli. Anche
l’assalto da parte dell’ISIS, respinto in pochi giorni con la riconquista del
campo.
Il loro campo.
Da alcuni mesi sono sottoposti a un’altra dura
prova. Il governo regionale del Kurdistan iracheno ha imposto, su istigazione
del regime turco, un embargo sempre più restrittivo nei loro confronti. Nessuno
può più uscire, né per lavoro né per altri motivi.
Siamo stati con loro alcuni giorni, in un
gruppo di compagni e compagne dell’Associazione Verso il Kurdistan,
condividendo la loro situazione: dalla scarsità di cibo, che si basa ormai solo
sull’autoproduzione, alla difficoltà di muoversi al di fuori del perimetro
delimitato e dimenticato anche dall’ONU, sotto la cui tutela il campo dovrebbe
ancora trovarsi.
Le scritte dell’ACNUR sono sempre più
sbiadite. In compenso, le scritte e gli stampi sui muri del volto e dello
sguardo di Apo Ocalan sono diffusi ovunque.
Anche nella Casa del Popolo in cui siamo stati
ospiti, dormendo per terra e condividendo lo scarso cibo preparato con cura
dagli uomini e dalle donne che ci ospitavano.
Ma per noi ovviamente questo non è nulla,
vista la breve temporaneità della nostra presenza.
Per loro è tutto.
In questi anni hanno provato a trasformare il
campo nella loro scelta di vita, passando dalle tende alla costruzione di
piccole unità in mattoni grigi, quasi tutte con un piccolo orto strappato al
deserto.
E, in ogni quartiere, con l’orto e il frutteto
comune.
Ci sono le scuole fino alle superiori, con un
un indirizzo tecnico e uno umanistico, suddivise in due turni per l’alto numero
degli alunni. Fino a tre mesi fa, terminate le superiori, potevano andare
all’università a Erbil, il capoluogo del Kurdistan iracheno.
Al mattino li vedi andare a scuola, a partire
dalle elementari, con la camicia bianca sempre pulita e i pantaloni neri. E uno
zaino, quando c’è, con pochi libri essenziali. Ragazzi e ragazze insieme: non è
per niente scontato, in Medio Oriente.
Durante le lezioni non si sente volare una
mosca: non per disciplina, ma per attenzione. Non vanno a scuola, per decisione
dell’assemblea del popolo, per più di quattro ore al giorno, proprio per
evitare che il livello di attenzione scenda fino a sparire. Dovrebbe essere una
cosa logica ovunque, ma sappiamo bene che non è così, dove si pensa che l’unico
obiettivo sia accumulare nozioni. Le altre ore della giornata sono impegnate in
diverse attività di gruppo: dalla cultura al teatro, dalla musica allo sport,
autoorganizzate o seguite, in base all’età, da giovani adulti che hanno
studiato e che non possono vedere riconosciuto il loro titolo.
Perché sono persone senza alcun documento, da
quando sono state cacciate dalla loro terra.
Tenacemente, soprattutto le donne svolgono
queste attività, lavorando alla formazione continua per ogni età, dai bambini
agli anziani.
Difficile è capire, se non si tocca con mano,
il livello di protagonismo delle donne nell’Accademia, nella Fondazione,
nell’Assemblea del popolo, nella municipalità e nelle altre associazioni.
Si sono liberate dai matrimoni combinati e
hanno eliminato il fenomeno delle spose bambine: non ci si può sposare prima
dei 18 anni.
Tutto viene deciso assemblearmente, tutto
viene diviso equamente.
Uno slancio di vitalità comune, in un dramma
che dura da vent’anni e in un sogno di futuro che richiede anche di essere
difeso, quando necessario, con le armi.
I giovani armati vegliano sul campo dalle
montagne.
Questo esperimento di democrazia partecipata
negli ultimi anni è stato adottato in Rojava, la parte di Siria abitata
prevalentemente dal popolo curdo e liberata con il contributo determinante delle
donne: un’esperienza da seguire e da aiutare a rimanere in vita, soprattutto in
questo momento in cui la Turchia vuole distruggerla.
Lì abitano tre milioni di persone, le etnie e
le religioni sono diverse. Eppure il modello del confederalismo democratico sta
funzionando: per questo rappresenta un esempio pericoloso di lotta al
capitalismo per i regimi autoritari ma anche per le cosiddette democrazie senza
contenuto.
Nel caos e nel cuore del Medio Oriente è
fiorito di nuovo un sogno di socialismo.
Attuale, praticato e condiviso.
Dobbiamo aiutarlo tutti non
solo a sopravvivere e a resistere all’invasione da parte della Turchia, ma a
radicarsi come forma di partecipazione attiva ai beni comuni dell’uguaglianza e
dell’ecologia sociale e ambientale.
L’obiettivo della missione era l’acquisto a
Erbil e la consegna di un’ambulanza per il campo. Non è stato facile, vista la
situazione di prigionia in cui vivono gli abitanti, ma alla fine ce l’abbiamo
fatta. Il giorno dopo la nostra partenza è stato impedito dal governo regionale
l’ingresso a un gruppo di tedeschi, con alcuni parlamentari, che doveva
sostituirci.
Di seguito trovate gli appunti sugli incontri,
dal mio punto di vista, più significativi.
Mercoledì 2 ottobre
Il protagonismo delle donne
Al mattino partecipiamo all’incontro delle
madri al Sacrario dei caduti. Sala piena, chiamata a convalidare i risultati
dell’assemblea di sabato scorso. Interviene Feliz, una giovane donna
copresidente dell’assemblea del popolo, che ci sta accompagnando negli incontri
in questi giorni. Il suo è un intervento forte, da leader politico. Questa
ragazza è sempre in movimento, instancabile. Attorno, sulle pareti, spiccano le
fotografie di almeno millecinquecento uomini e donne, spesso giovani, morti
nelle varie lotte di difesa del campo. Millecinquecento su dodicimila abitanti:
praticamente non esiste una famiglia che non sia stata coinvolta nella difesa
drammatica dei valori comuni. Anche da qui si capisce l’identità forte dei
sentimenti condivisi di una comunità.
Le donne elette per rappresentare
l’Associazione si impegnano a rispettarne i principi, tra cui difendere i
valori della memoria e non portare avanti interessi personali o familiari.
Sempre in mattinata, andiamo alla sede della
Fondazione delle donne. Gestiscono cinque asili, una sartoria e l’atelier di
pittura. La loro sede è stata rimessa a nuovo dopo la distruzione avvenuta nei
giorni di occupazione dell’ISIS. Sulla parte bianca, spicca una frase di Apo
Ocalan: “Con le nostre speranze e il nostro impegno, coltiviamo i nostri
sogni”. L’impegno principale della Fondazione è per il lavoro e la dignità di
donne e bambini. Nei loro laboratori sono impegnate sessanta persone. Seguono
poi duecento giovani, bambini e ragazzi, dai sei ai diciassette anni, al di
fuori dell’orario scolastico, che si autoorganizzano autonomamente: decidono
insieme giochi, regole, organizzano teatri e feste.
La Fondazione è gestita collettivamente, da un
coordinamento, che si trova una volta alla settimana; una volta all’anno
l’assemblea generale fa il punto sui risultati, i problemi, le prospettive.
Vengono seguite anche le famiglie con problemi
e si affrontano anche le situazioni di violenza domestica, ricomponibili anche
con il loro intervento. Per le situazioni più drammatiche e complesse si porta
il problema all’assemblea delle donne, che decide in merito. Ma il loro lavoro
sul riconoscimento, il rispetto e il protagonismo delle donne avviene con
tutti, anche con gli uomini, e si svolge ovunque, anche con l’educativa di
strada.
La promotrice della Fondazione, Sentin Garzan,
è morta combattendo in Rojava.
A mezzogiorno siamo ospiti di un pranzo
preparato da chi lavora al presidio ospedaliero.
Nel tardo pomeriggio, in un clima dolce e
ventilato con vista sulla pianura e la cittadina di Makhmour, incontriamo
l’Accademia delle donne. Tutto, o quasi, al campo di Makhmour, parla al
femminile. Bambini e bambine giocano insieme. Le ragazze e le donne giovani non
portano nessun velo, se non, a volte, durante le ore più calde della giornata.
Ma è un fatto di clima, non di costume o di storia o di costrizione. Le donne
più anziane portano semplici foulards.
All’Accademia le ragazze molto giovani, in
particolare psicologhe, sociologhe, insegnanti. Ma soprattutto militanti.
Per comprendere una storia così intensa,
bisogna partire dalle origini del campo, costituito, dopo sette peregrinazioni
imposte a partire dal 1995, nel 1998 da rifugiati politici della stessa regione
montuosa del Kurdistan in Turchia, il Botan.
Dopo, si sono aggiunti altri rifugiati.
La loro è la storia intensa dell’esodo, con i
suoi passaggi drammatici. Ma anche con l’orgoglio dell’autoorganizzazione.
Le donne dell’Accademia ci parlano del lungo e
faticoso percorso svolto dall’inizio dell’esodo fino a oggi. Una delle figure
di riferimento più importanti rimane Yiyan Sîvas, una ragazza volontaria uccisa
nel 1995 nel campo di Atrux, uno dei passaggi verso Makhmour.
Era molto attiva nella lotta per i diritti
civili e sociali. Soprattutto delle donne.
E nella difesa della natura: anticipava i
tempi.
Yiyan Sîvas è stata uccisa, colpita al cuore
in una manifestazione contro un embargo simile a quello attuale. Il vestito che
indossava, con il buco del proiettile e la macchia di sangue rappreso, è
custodito gelosamente nella sede dell’Accademia, aperta nel 2003.
All’Accademia si occupano di formazione:
dall’alfabetizzazione delle persone anziane che non sanno leggere e scrivere,
all’aiuto nei confronti di chi incontra difficoltà a scuola, lavorando
direttamente nei quartieri.
Ma il loro scopo principale è la formazione
attraverso i corsi di gineologia (jin in curdo
significa donna), sulla storia e i diritti di genere; e sulla geografia, che
parla da sola delle loro origini. Si confrontano con le differenze, per far
scaturire il cambiamento. Che consiste in decisioni concrete, prese
dall’assemblea del popolo, come l’abolizione dei matrimoni combinati, il
rifiuto del pagamento per gli stessi, il divieto del matrimonio prima dei
diciotto anni.
Per una vita libera, l’autodifesa delle donne
è dal maschio, ma anche dallo Stato.
Sono passaggi epocali nel cuore del Medio
Oriente.
«Se c’è il problema della fame» dice una di
loro «cerchi il pane. Il pane, per le donne in Medio Oriente, si chiama
educazione, protagonismo, formazione».
Che è politica, culturale, ideologica.
Con tutti, donne e uomini.
L’Accademia forma, l’Assemblea decide: è un
organismo politico. Che si muove secondo i principi del confederalismo
democratico, il modello di partecipazione ideato da Apo Ocalan, con riferimento
al giovane Marx da una parte e a Murray Bookchin, da “L’Ecologia della Libertà”, a “Democrazia
diretta” e a “Per una società
ecologica. Tesi sul municipalismo libertario”.
Ma il confederalismo democratico conosce una
storia millenaria. Appartiene alla tradizione presumerica, che si caratterizzava
come società aperta: con la costruzione sociale sumerica è iniziata invece la
struttura piramidale, con la relativa suddivisione in caste.
Si parla di Mesopotamia, non di momenti
raggrinziti in tempi senza storia.
Giovedì 3 ottobre
Il confederalismo democratico
Questa mattina incontriamo i rappresentanti
dell’Assemblea del popolo. Ci sono la copresidente, Feliz, e alcuni
consiglieri. Verso la fine della riunione arriva anche l’altro copresidente,
reduce dal suo lavoro di pastore.
Di capre e, adesso, anche di popolo.
Feliz spiega i nove punti cardine del
confederalismo democratico:
1.
La cultura. Si può dire che nel
campo di Makhmour da mattina fino a notte si respira cultura in tutte le sue
espressioni e a tutte le età;
2.
La stampa, per diffondere le
idee, i progetti e le iniziative che il campo esprime;
3.
La salute: da qui l’importanza
del presidio ospedaliero e dell’attività di informazione e prevenzione;
4.
La formazione, considerata
fondamentale per condividere principi, valori e stili di vita comuni;
5.
La sicurezza della popolazione:
la sicurezza collettiva garantisce quella individuale, non viceversa;
6.
I comitati sociali ed economici
per un’economia comune e anticapitalista;
7.
La giustizia sociale;
8.
La municipalità, quindi il
Comune, con sindaca, cosindaco o viceversa, con il compito di rendere esecutivi
i progetti decisi dall’Assemblea; e, insieme, alla municipalità, l’ecologia
sociale, considerata come un carattere essenziale della municipalità. L’ecologia
sociale va oltre l’ecologia ambientale: è condizione essenziale per il
benessere collettivo;
9.
La politica.
Ognuno di questi punti viene declinato nelle
cinque zone del campo, ognuna composta da quattro quartieri. Il confederalismo
democratico parte da lì, dai comitati di quartiere, che si riuniscono una volta
alla settimana e ogni due mesi scrivono un rapporto su problemi e proposte,
scegliendo alcune persone come portavoce per l’Assemblea del popolo.
L’Assemblea del popolo è composta dalla
presidente, dal copresidente e da 131 consiglieri. Presidente e copresidente
sono presenti tutti i giorni, a tempo pieno.
Le cariche durano due anni, rinnovabili per un
mandato.
La municipalità viene eletta dal popolo.
Non sempre è facile arrivare alle decisioni, perché
tutto deve essere condiviso.
L’incontro non è formale: si discute infatti
di come utilizzare il luogo individuato per l’ospedale, a partire
dall’ampliamento del poliambulatorio. Si tratta di coprire la struttura e, allo
stesso tempo, di decidere come utilizzare gli spazi, visto che sono troppo
grandi per un ospedale di comunità. Viene esclusa l’ipotesi della scuola per la
dimensione dei locali; vengono prese in considerazione altre ipotesi, come la
nuova sede per le attività dell’Associazione che si prende cura dei bambini
down, che ha elaborato un proprio progetto, e il laboratorio di fisioterapia.
Ma il primo passo, concreto, è l’avvio dei lavori per la copertura della
struttura.
Il confederalismo democratico ritiene che le
comunità, per poter coinvolgere tutti, debbano avere una dimensione ottimale di
diecimila persone. Il campo è abitato da tredicimila persone e il modello, con
le sue fatiche, funziona.
Il modello in questi anni è stato adottato in
Rojava, dove vi sono oltre tre milioni di persone di etnie diverse e lì il
banco di prova è decisivo.
Se la Turchia non riuscirà a distruggerlo.
Ma chi lo ha proposto e lo vive non solo ci
crede, lo pratica con la grande convinzione che sia il modo per cambiare dalla
base la struttura sociale del Medio Oriente.
Venerdì 4 ottobre
Incontro con M
Incontriamo una rappresentante che ci parla
delle donne che hanno combattuto a Kobane.
Nel suo racconto, nell’analisi della
situazione e nella valutazione delle prospettive, alterna passaggi piani a
momenti di forte impatto emotivo.
Si parla del protagonismo delle donne nella
liberazione del Rojava. «La guerra non è mai una bella cosa», racconta, «ma la
nostra è stata, è una guerra per l’umanità. Per la difesa della dignità umana.
Le donne sono partite in poche: quattro o cinque di nazionalità diverse, ma
unite dall’idea che fosse necessario armarsi, addestrarsi e combattere
l’oppressione e il fondamentalismo per affermare la possibilità di una vita
migliore. Per le donne, ma anche per gli uomini».
Per tutti.
«A Kobane la popolazione aveva bisogno di
essere difesa dall’attacco dell’ISIS: da un problema di sicurezza è scaturita
una rivoluzione vera. Una rivoluzione che non è solo curda, o araba, ma è una
rivoluzione popolare, che sta costruendo un nuovo modello di democrazia
partecipata».
In Medio Oriente, cuore della Terza Guerra
Mondiale scatenata dai conflitti interni e orchestrata dalle potenze mondiali.
«Quando ci si crede, si può arrivare a
risultati impensabili. Non importava essere in poche. All’inizio non è stato
facile, nel rapporto con le altre donne: per la prima volta si trovavano
davanti alla scelta della lotta armata in prima persona, dal punto di vista
femminile. Poi hanno compreso, quando hanno visto le loro figlie venire con
noi, crescere nella consapevolezza e nella determinazione per organizzare la
resistenza popolare. L’organizzazione popolare è diventata determinante, non
solo a Kobane, ma in tutto il Rojava.
Le donne, quando vogliono raggiungere un
obiettivo, sono molto determinate.
E sono molto più creative degli uomini.
Così hanno trasformato una guerra di difesa in
una possibilità di cambiamento rivoluzionario, in cui tutti possono partecipare
alla costruzione di un destino comune, provando a superare anche le divisioni
imposte nei secoli dalle diverse religioni».
Nel caos del Medio Oriente, dove in questo
momento l’Iraq è di nuovo in fiamme.
«Oggi il nemico per noi rimane l’ISIS: l’YPG (la
nostra formazione guerrigliera maschile) e l’YPJ (la nostra formazione
guerrigliera femminile) lo hanno sconfitto, ma rimangono sacche sparse
dell’ISIS e cellule dormienti all’interno dei territori liberati. Il nemico
però è soprattutto la Turchia, la cui strategia sullo scacchiere del Medio
Oriente, dove tutte le potenze mondiali vogliono dare scacco al re, è
l’occupazione della striscia di terra che corre sotto il confine con la Siria e
che collega storicamente l’Occidente e l’Oriente. Questo territorio è il
Rojava: per questo il regime di Erdogan vuole distruggerci. Sostiene, come ad
Afrin, di volersi presentare con il ramoscello d’ulivo: in realtà, ad Afrin ha
portato forme di repressione sempre più aspre, nuove forme di violenza etnica,
una nuova diffusione dei sequestri di persona. Per arrivare al suo obiettivo,
la Turchia sta costruendo un altro ISIS, come ha fatto con l’originale. Solo
una parte delle tre milioni di persone presenti in Turchia è costituita da
profughi: sono quelli che il regime vuole cacciare e spinge a viaggi disperati
e rischiosi verso l’Europa. Gli altri sono integralisti, diretti o potenziali,
che il regime di Erdogan intende tenere, avviandoli a scuole di formazione
religiosa e militare, fino a quando li manderà di nuovo in giro a seminare il
terrore. La Turchia utilizza i miliardi di dollari forniti dall’Europa per
ricostituire un nuovo ISIS da utilizzare nello scenario della Terza Guerra
mondiale».
La vecchia strategia di destabilizzare per
stabilizzare con il terrore.
«La Turchia utilizza la Russia, la Russia la
Turchia, la Turchia gli Europei. L’Europa, aiutando la Turchia, sta diffondendo
dei nuovi veicoli di infezione.
La vittima designata è il popolo curdo, ma il
popolo curdo ha la testa dura.
La minaccia principale incombe sul territorio
libero del Rojava, dove è in corso un esperimento concreto di confederalismo
democratico, con la partecipazione di tutte le etnie. Lo stiamo facendo con un
forte impegno e una grande fatica, ma questa è la via per portare una vita
migliore in una regione devastata dai conflitti etnici e religiosi, interni e
scatenati dall’esterno».
Particolarmente importante, in questa
situazione, è la condizione della donna.
«Quando le condizioni della donna migliorano,
migliora la situazione per tutti, perché vincono i principi e l’ideologia della
vita contro i nazionalismi e le strumentalizzazioni del capitalismo
internazionale.
Prima tutti dicevano di volerci dare una mano.
Ma la memoria di molti è troppo corta. Le organizzazioni umanitarie ufficiali
si schierano sempre con gli Stati, non con i movimenti di liberazione.
Il nostro obiettivo è mantenere il Rojava
libero di fronte alla minaccia dell’occupazione. Dobbiamo sensibilizzare
l’opinione pubblica mondiale attorno a questa nuova speranza per il Medio
Oriente e costruire un ponte tra il Kurdistan e l’Europa.
Il potere della società è come un fiume che,
scorrendo, cresce in maniera sempre più ampia.
Noi vogliamo resistere per creare una vita
migliore.
Voi,
delle associazioni non legate al potere degli Stati, potete aiutarci
contribuendo a diffondere le nostre idee, la nostra esperienza, la nostra
storia».
Sabato 5 ottobre
Incontro con i giovani che difendono il campo
Nel tardo pomeriggio incontriamo la Guardia
Armata del Campo. Ci raccontano che dopo il bombardamento con i droni
dell’aprile scorso, non ci sono state altre incursioni da parte dei turchi. La
tensione però rimane alta anche perché nelle vicinanze ci sono ancora gruppi
sparsi dell’Isis. Facciamo qualche domanda a proposito della loro vita. Ci
dicono che chi si dedica alla causa curda può arruolarsi dai 18 anni in poi,
anche per sempre. Se si vuol lasciare un impegno così pieno si può farlo senza
problemi, anche se i casi sono rari.
Li vediamo al tramonto. Appartengono alla
formazione che ha liberato Makhmour e soprattutto Kirkuk, dove i peshmerga,
l’organizzazione armata del governo regionale del Kurdistan iracheno, si trovavano
in difficoltà e stavano per essere sopraffatti dall’avanzata dell’ISIS.
A Makhmour hanno liberato sia il campo che la
città, sede del più grande deposito di grano dell’Iraq.
Poi sono tornati sulle montagne.
Con noi parla con grande convinzione uno dei
ragazzi, il portavoce: gli altri condividono con gesti misurati le sue parole.
Nessuno di loro ha più di venticinque anni, ma tutti e tre ne dimostrano meno.
Il ragazzo dice che la loro scelta è stata
spontanea, e che li guida l’idea della difesa del popolo dall’oppressione degli
Stati: non solo quelli che incombono sul popolo curdo (Turchia, Siria, Iraq,
Iran), ma sul popolo in generale. In questi giorni stanno dalla parte delle
proteste popolari contro il governo che sono in atto a Bagdad: la loro lotta è
contro il capitalismo e durerà fino all’affermazione del socialismo che, nella
loro visione, oggi si esprime attraverso il confederalismo democratico.
L’atmosfera è coinvolgente. Sotto, nella
pianura, le prime luci si diffondono sul campo. Sopra, sulla montagna, loro
proteggono e tutelano la serenità di bambini, donne e uomini.
I bambini del campo sono tanti e cantano
insieme con un’allegria contagiosa, a ripetere giochi antichi e sempre attuali:
insieme, bambini e bambine.
Loro si alzano alle quattro, poi dedicano il
mattino alla formazione politica e all’addestramento fisico per chiudere la
giornata con l’addestramento militare.
Militanti a tempo pieno.
Sono convinti che o il futuro del mondo è il
socialismo come forma di democrazia diretta e partecipata, o sarà solo morte e
distruzione, come da troppi anni è in Medio Oriente, in mano alle oligarchie di
potere manovrate dagli interessi del capitalismo internazionale.
Alla domanda se non li ferisce il fatto che la
propaganda turca e di altri Paesi occidentali li chiama terroristi, la loro
risposta è: «A noi interessa quello che pensa il popolo, non quello che dicono
questi signori».
Nella quotidianità questi ragazzi non
conoscono giorni di riposo o di vacanza, hanno sporadici rapporti con le
famiglie per motivi di sicurezza, non sono sposati.
Proprio adesso, nel momento dell’incontro,
dalla pianura salgono le musiche popolari di un matrimonio, alla cui festa vanno
tutti quelli che vogliono partecipare, con le danze tradizionali e i costumi
rivisitati in chiave attuale.
Ieri, a un altro matrimonio, ci siamo stati
anche noi. Si respirava un’aria autentica, come erano queste feste anche in
Occidente prima di diventare un’espressione inautentica di lusso ostentato e
volgare.
I giovani guerriglieri intendono continuare
fino a quando momenti come questo, di partecipazione popolare, saranno la
regola di pace e non l’eccezione in un clima di guerra.
Nelle parole e nei gesti sono sobri e austeri,
quasi oltre la loro età.
Dopo un’ora si alzano dalle rocce su cui ci
siamo trovati e, dopo averci salutato con un abbraccio intenso, si avviano
verso la montagna, veloci e leggeri.
Non esibiscono le armi; appartengono loro come
uno strumento di difesa e di protezione. Come il bastone del pastore, che
vigila sul suo gregge.
Non sono ombre, ma appaiono solari nel
tramonto che scende lentamente verso la Siria.
Domenica 6 ottobre
L’uscita dal campo
Oggi tocchiamo con mano che cosa vuol dire
l’embargo per il campo di Makhmour imposto dal governo regionale del Kurdistan
iracheno, in accordo con la Turchia. Il popolo del campo da tre mesi non può
uscire, né per lavoro, né per altri motivi. Il rappresentante delle relazioni
esterne ha chiesto il permesso per poterci accompagnare fino a Erbil, ma il
permesso è stato negato. Potranno accompagnarci solo fino al primo check point,
dove ci aspettano dei tassisti della città di Makhmour. Da lì in avanti è una
sequenza di controlli: sbrigativi quelli ai due posti di controllo iracheni,
sempre più lunghi e insistenti ai tre posti di controllo del governo regionale.
Tra il campo e l’esterno è stata posta una
serie di barriere a ostacoli.
Ci vogliono oltre due ore per arrivare ad Erbil,
dove arriviamo in un normale albergo dopo dieci notti sul pavimento della casa
del popolo. Non mi piace per nulla questo passaggio: ho già nostalgia di quei
giorni, con il poco cibo curato con grande attenzione, e di quelle notti in
sette per stanza, su dei tappeti stesi a terra.
Lucia e altri compagni del gruppo vanno a
chiudere la pratica di acquisto dell’autoambulanza. Finalmente, dopo giorni
estenuanti per la difficoltà di comunicare con l’esterno dal campo. La pratica
viene risolta subito e inaspettatamente, anche con l’aiuto di alcuni compagni
dell’HDP, il partito di sinistra nel Kurdistan iracheno. L’ambulanza,
nuovissima, viene portata dallo stesso concessionario, una persona sensibile
alla questione curda, al campo (lui, essendo un cittadino di Erbil, può
muoversi), dove un video registra l’ingresso al presidio ospedaliero.
Missione compiuta.
Con gli altri del gruppo andiamo a fare un
giro in città, verso la cittadella. Ma Erbil mi ricorda troppo il nostro mondo,
tra l’inquinamento dei pozzi petroliferi alla periferia, le centinaia di
autocisterne in fila per il rifornimento, un traffico caotico. Unica differenza
con le città occidentali, il suk mischiato alle firme della moda che hanno
infettato le città di tutti i continenti. Torno in albergo e guardo lo scorrere
delle code dalle vetrate: ho bisogno ancora di una barriera per affrontare
questo mondo.
Se è ancora un mondo.
Lunedì 7 ottobre
La differenza
Saliamo in gruppo alla cittadella di Erbil,
patrimonio mondiale dell’Unesco. La più antica cittadella fortificata del
mondo, costruita su undici strati successivi. Incontriamo il direttore del
sito, che ci accoglie come dei vecchi amici e ci porta a visitare i luoghi
ancora chiusi al pubblico per i lavori di scavo. Parla fluentemente tedesco e
inglese, ha abitato in Germania; poi, in piena guerra, nel 2002 è stato
chiamato a ricoprire il ruolo di sindaco della città. Lo ha fatto fino al 2016.
Erbil ha più di un milione di abitanti, il Kurdistan iracheno non supera i
quattro milioni di abitanti. Eppure negli anni scorsi sono stati accolti oltre
due milioni di profughi fuggiti di fronte all’avanzata dell’ISIS. E loro li
hanno ospitati senza alcun problema. E chi ha voluto rimanere, è rimasto. Mi
viene in mente che da noi – noi? – si parla indecentemente di invasione di
fronte a poche migliaia di migranti che rischiano la vita attraversando il
mare. C’è chi guarda avanti, e forse ha un futuro; e c’è chi non sa guardare da
nessuna parte, e non ha passato, presente e futuro.
Nella notte tra il 7 e l’8 ottobre si parte.
Verso la notte dell’Occidente.
Per comprendere meglio le varie
sigle può essere utile questo breve glossario:
Turchia: Partito PKK;
Formazioni guerrigliere: HPG (maschile)
YJA (femminile)
Siria: Partito PYD
Formazioni guerrigliere: YPG (maschile)
YPJ (femminile)
Iran: Partito PJAK
Iraq. Partito PCDK
Nel Sinjar YBS
Questo insieme di partiti, suddivisi per
territori, confluisce ne KCK, che riunisce le formazioni apoiste. Vale a dire
le organizzazioni che hanno come punto di riferimento, Abdullah Ocalan,
prigioniero da vent’anni in Turchia, per i curdi Apo.
Il KNK invece rappresenta tutti i partiti
curdi.
Cecco Bellosi: così si uccide la lezione di
civiltà che arriva dal Kurdistan (intervista di Marco Dotti)
Che cosa accade in Kurdistan,
dentro la guerra, o meglio: oltre la guerra? Siamo in tanti a chiedercelo.
Tante domande, poche risposte.
Cecco
Bellosi della Comunità il Gabbiano si è mosso è c'è andato. Ha viaggiato fino a
Makhmour, dove ha visitato il campo profughi a nord dell'Iraq, al confine con
Siria e Turchia, che proprio i turchi bombardarono nel 2014 e nel luglio scorso
(qui) e l'Isis cercò di conquistare, trovando però la forte resistenza della
comunità.
A Makhmour, come nella regione
del Kurdistan siriano del Rojava, vige il modello del Confederalismo
democratico, la piattaforma politico-sociale elaborata da Abdullah Öcalan sulle
basi del municipalismo
libertario e dell'ecologia sociale teorizzate da Murray Bookchin. Öcalan lo descrive come «una
amministrazione politica non statale o una democrazia senza stato».
«Quello che stanno cercando di
fare i curdi è senza precedenti», ha scritto il filosofo Michal Löwy: «raccogliere
le popolazioni kurde, arabe, assire, yazide, in un’auto-organizzazione
comunitaria dal basso, entro una Confederazione laica, al di là del settarismo
religioso e degli odi nazionali; porre l’ecologia e il femminismo al cuore di
un progetto anti-capitalista, anti-patriarcale e anti-statalista; dare impulso
all’uguaglianza tra uomini e donne attraverso la presidenza congiunta di tutti
gli organismi, inventare una forma di potere politico democratico
decentralizzato, fondato sulle assemblee comunali, oltre lo Stato: è questo il
Confederalismo democratico».
Cecco, come sei arrivato in
Kurdistan, nel campo profughi di Makhmour?
Con un’associazione che si chiama Verso il Kurdistan, che esiste dal 2003 e da anni ha un rapporto con il popolo curdo e particolare con questo campo profughi. Nel 1994, quando il governo turco di allora incendiò centinaia di villaggi, migliaia di curdi iniziarono una peregrinazione, un vero esodo che è transitato attraverso sette luoghi prima di arrivare a Makmour. Un terreno arido, in zona irachena.
Con un’associazione che si chiama Verso il Kurdistan, che esiste dal 2003 e da anni ha un rapporto con il popolo curdo e particolare con questo campo profughi. Nel 1994, quando il governo turco di allora incendiò centinaia di villaggi, migliaia di curdi iniziarono una peregrinazione, un vero esodo che è transitato attraverso sette luoghi prima di arrivare a Makmour. Un terreno arido, in zona irachena.
Questo dal 1998, se non
sbaglio…
Esattamente da ventuno anni e l’associazione Verso il Kurdistan porta aiuti concreti al campo, in particolare sul piano sanitario. Per quanto mi riguarda, ci sono arrivato perché uno dei “veterani” di questa esperienza, un amico ex primario a Pavia, mi ha portato con sé. Era la prima volta.
Esattamente da ventuno anni e l’associazione Verso il Kurdistan porta aiuti concreti al campo, in particolare sul piano sanitario. Per quanto mi riguarda, ci sono arrivato perché uno dei “veterani” di questa esperienza, un amico ex primario a Pavia, mi ha portato con sé. Era la prima volta.
Un campo profughi come tanti
altri campi profughi o c’è qualcosa di diverso?
La situazione è questa: l’Onu se n’è andata nel 2014. Bisogna considerare che quella è stata una delle zone di offensiva dell’ISIS e i ragazzi e le ragazze del campo sono stati in prima linea sia nella battaglia a Kirkuk, sia proprio nella cittadina di Makhmour che è accanto al campo e ha il più il grosso deposito di grano dell’Iraq. Dopo di che, per non lasciarsi mancare niente, l’Isis ha attaccato anche il campo, riconquistato dai ragazzi e dalle ragazze curde in due giorni.
La situazione è questa: l’Onu se n’è andata nel 2014. Bisogna considerare che quella è stata una delle zone di offensiva dell’ISIS e i ragazzi e le ragazze del campo sono stati in prima linea sia nella battaglia a Kirkuk, sia proprio nella cittadina di Makhmour che è accanto al campo e ha il più il grosso deposito di grano dell’Iraq. Dopo di che, per non lasciarsi mancare niente, l’Isis ha attaccato anche il campo, riconquistato dai ragazzi e dalle ragazze curde in due giorni.
Da allora l’Onu non si è più
fatta vedere.
Le persone che oggi abitano il
campo di Makhmour sono una comunità coesa, con un’unione interna cementata da
un dramma che ha visto oltre millecinquecento caduti. Ma il dramma ha anche
sedimentato il sogno di futuro: nel campo, su tredicimila persone, ci sono
tremilacinquecento bambini. Rispetto a questo legame rinsaldato nel dramma
collettivo, la comunità ha rielaborato le teorie sviluppate in carcere da Apo
Ocalan: sono passati dalla teoria alla pratica del confederalismo democratico.
Ci spieghi di che cosa si
tratta?
Spiccano due aspetti. Il primo è la spinta dal basso, che parte dai quartieri, che nominano i loro rappresentanti nell’assemblea del popolo che ha a capo un uomo e una donna. Le cariche non possono durare più di due anni e possono essere confermate solo per un mandato. Anche la municipalità, formata da una sindaca e da un sindaco, viene eletta dalla gente. Il tutto in una situazione in cui il 70% della popolazione ha meno di 32 anni, quindi è cresciuta lì. Dentro questa dimensione affascinante, importante e coinvolgente c’è anche un altro aspetto interessante dal punto di vista culturale e sociale: il protagonismo delle donne.
Spiccano due aspetti. Il primo è la spinta dal basso, che parte dai quartieri, che nominano i loro rappresentanti nell’assemblea del popolo che ha a capo un uomo e una donna. Le cariche non possono durare più di due anni e possono essere confermate solo per un mandato. Anche la municipalità, formata da una sindaca e da un sindaco, viene eletta dalla gente. Il tutto in una situazione in cui il 70% della popolazione ha meno di 32 anni, quindi è cresciuta lì. Dentro questa dimensione affascinante, importante e coinvolgente c’è anche un altro aspetto interessante dal punto di vista culturale e sociale: il protagonismo delle donne.
Questa esperienza ha permesso
loro di realizzare il sogno di abbattere la struttura patriarcale che domina
generalmente le società nel Medio Oriente.
Come hanno abbattuto questa
struttura?
Lo hanno fatto sia dal punto di vista teorico che pratico. Teorico, creando una nuova scienza, la gineologia - da jin, che in curdo significa “donna” - che mira alla liberazione della donna attraverso la conoscenza della storia. Si riferiscono anche alla tradizione presumerica (ricordiamo che il campo è in Mesopotamia). Sostengono che i sumeri sono stati i primi a organizzare una società piramidale, divisa in caste. Prima di loro esisteva una società orizzontale: ed è da lì che le donne curde sono partite nella loro ricerca. Come principio di vita.
Lo hanno fatto sia dal punto di vista teorico che pratico. Teorico, creando una nuova scienza, la gineologia - da jin, che in curdo significa “donna” - che mira alla liberazione della donna attraverso la conoscenza della storia. Si riferiscono anche alla tradizione presumerica (ricordiamo che il campo è in Mesopotamia). Sostengono che i sumeri sono stati i primi a organizzare una società piramidale, divisa in caste. Prima di loro esisteva una società orizzontale: ed è da lì che le donne curde sono partite nella loro ricerca. Come principio di vita.
Sul piano concreto questo ha
voluto dire: abolire i matrimoni combinati, la cancellazione dell’acquisto
delle mogli e, soprattutto, è stato eliminato il fenomeno delle spose bambine.
Nel campo non ci si può sposare prima dei diciotto anni.
Hai parlato di un campo pieno
di bambini: come vivono?
Nonostante la povertà, non c’è un bambino che ti chieda un soldo.
Nonostante la povertà, non c’è un bambino che ti chieda un soldo.
Come leggi questo fenomeno,
sorprendente per chi conosce la realtà di altri campi profughi?
Lo leggo come il segno di un grandissimo lavoro culturale. Un lavoro che dura da oltre vent’anni. Vent’anni fa queste persone sono arrivate e vivevano in tende. Quando hanno capito che la situazione non sarebbe stata temporanea, hanno iniziato a costruire piccole casette in mattoni: ognuna con un piccolo orto e, nei quartieri, un frutteto comune. Accanto a questo lavoro di costruzione fisica del campo, c’è stato questo grande lavoro culturale: tutti i bambini vanno a scuola, dalle elementari alle superiori. Non vanno a scuola per più di quattro ore al giorno, perché gli insegnanti sostengono che il livello di attenzione non può superare quelle quattro ore, e poi fanno altre cose, soprattutto di tipo culturale e sociale.
Lo leggo come il segno di un grandissimo lavoro culturale. Un lavoro che dura da oltre vent’anni. Vent’anni fa queste persone sono arrivate e vivevano in tende. Quando hanno capito che la situazione non sarebbe stata temporanea, hanno iniziato a costruire piccole casette in mattoni: ognuna con un piccolo orto e, nei quartieri, un frutteto comune. Accanto a questo lavoro di costruzione fisica del campo, c’è stato questo grande lavoro culturale: tutti i bambini vanno a scuola, dalle elementari alle superiori. Non vanno a scuola per più di quattro ore al giorno, perché gli insegnanti sostengono che il livello di attenzione non può superare quelle quattro ore, e poi fanno altre cose, soprattutto di tipo culturale e sociale.
Consideriamo che gli insegnanti
sono pagati cinque dollari al mese, ma è incredibile il loro impegno.
Ci credono davvero, perché è un
modello comunitario concreto.
Che cosa possiamo imparare da
questa comunità, anche in contrapposizione all’Isis?
Assistiamo allo scontro tra una comunità maledetta, l’ISIS, che comunque è una comunità anche se tutta proiettata al passato, e una comunità che pur guardando alle radici è proiettata al futuro. Teniamo conto che il modello della comunità del campo di Makhmour - uno dei primi in cui è stato applicato il confederalismo democratico - è stato poi adottato in Rojava, nel Kurdistan siriano, dove lo scontro è su un livello diverso.
Assistiamo allo scontro tra una comunità maledetta, l’ISIS, che comunque è una comunità anche se tutta proiettata al passato, e una comunità che pur guardando alle radici è proiettata al futuro. Teniamo conto che il modello della comunità del campo di Makhmour - uno dei primi in cui è stato applicato il confederalismo democratico - è stato poi adottato in Rojava, nel Kurdistan siriano, dove lo scontro è su un livello diverso.
Il Kurdistan libertario ci
riguarda, scriveva qualche tempo fa il filosofo Michael Löwy…
Anche perché nel Rojava parliamo di 3 milioni di abitanti, parliamo di città, parliamo di una comunità etnicamente non omogenea, fatta di curdi, arabi, cristiani, musulmani… Il Rojava è, spero che non si debba dire era, un grande laboratorio di speranza. Io credo che la cosa che dovremmo imparare è questa: l’Occidente, come in una specie di torpore del presente, ha bloccato ogni prospettiva di futuro. Qui c’è futuro.
Anche perché nel Rojava parliamo di 3 milioni di abitanti, parliamo di città, parliamo di una comunità etnicamente non omogenea, fatta di curdi, arabi, cristiani, musulmani… Il Rojava è, spero che non si debba dire era, un grande laboratorio di speranza. Io credo che la cosa che dovremmo imparare è questa: l’Occidente, come in una specie di torpore del presente, ha bloccato ogni prospettiva di futuro. Qui c’è futuro.
Ti porto un esempio. Durante
un’assemblea, parlando di confederalismo democratico, si accenna al tema della
sicurezza. La sicurezza - dice la presidente dell’assemblea - è una questione
collettiva. La sicurezza collettiva garantisce quella individuale, non viceversa.
La comunità si difende in maniera comune, non con le telecamere, non isolandosi
o sparandosi l'uno con l'altro.
È incredibile la lezione che
arriva da questa parte di mondo, su temi come le migrazioni, la cultura, la
partecipazione, la democrazia.
Negli ultimi giorni di viaggio
abbiamo incontrato il direttore della cittadella di Erbil: è costruita su
undici strati ed è la più antica cittadella del mondo. È patrimonio
dell'Unesco. Fino al 2016 è stato il sindaco della città, che ha più di un
milione di abitanti: ci ha spiegato che durante la guerra, nel Kurdistan
iracheno, che ha 4 milioni di abitanti, hanno ospitato 2 milioni di profughi.
Chi ha voluto rimanere è rimasto, chi ha preferito tornare a casa è tornato. Il
tutto in una società costitutivamente multietnica. In uno scenario che loro
chiamano «lo scenario della Terza guerra mondiale», dove tutte le grandi
potenze stanno giocando la loro partita per il controllo delle risorse del
Kurdistan, comunque le persone riescono a guardare al futuro. È la dimensione
di una società aperta e giovane. Se l'Occidente vuole uscire dal suo torpore,
deve guardare al Kurdistan, riscoprendo le radici da una parte e il sogno del
domani dall'altra.
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