Intervista di Angelo Ferrari a
Paola Crestani, presidente di LINK 2007, network che raggruppo tredici tra
le più importanti organizzazioni non governative impegnate nella cooperazione
allo sviluppo. “Continuare a parlare di emergenza è un errore o è una bugia.
Migranti: emergenza o fenomeno gestibile? Quali politiche l’Unione Europea
può mettere in campo per governare questo fenomeno che sta catalizzando la
politica di tutti gli Stati europei? La revisione del trattato di Dublino è
oggi più che mai necessaria per affrontare le migrazioni in maniera organica e
solidale tra Stati. La cooperazione allo sviluppo internazionale come può
contribuire ad affrontare il problema e quali politiche attive per l’Africa si
possono adottare per affermare il diritto a non emigrare. Un “Piano Marshall”
per l’Africa può diventare concretezza o rimanere una mera enunciazione?
Di questo, e di molto altro, abbiamo parlato con Paola Crestani,
presidente di LINK 2007, che a marzo 2019, ha ereditato la responsabilità e
l’impegno di Paolo Dieci nel coordinamento della rete di Ong LINK 2007, dopo
l’incidente aereo in Etiopia in cui ha perso la vita. Link 2007 è nata dodici
anni fa e raggruppa parte (13) delle più importanti e propositive Ong italiane
di cooperazione internazionale e aiuto umanitario. Uno dei temi approfonditi
dalla rete è il nesso tra migrazioni e sviluppo.
Migranti e accoglienza: emergenza o sopravvalutazione del fenomeno?
Le Ong della rete LINK 2007 l’hanno più volte ribadito: continuare a
parlare di emergenza, come se fossimo fermi agli anni 2014-2017, è un errore o
è una strumentale bugia finalizzata ad alimentare tensioni a fini politici.
Come è possibile parlare di emergenza se, per fare un esempio del Nord, nella
provincia di Venezia i migranti ospitati sono 820, su 860.000 abitanti, l’uno
per mille? Dov’è l’emergenza se il numero complessivo dei migranti sbarcati in
Italia dal primo gennaio al 19 settembre 2019 è di 6.570? Sono dati non delle
Ong ma del ministero dell’Interno. Essi attestano una diminuzione del -93,62%
rispetto ai 102.954 sbarchi del 2017 e del -68,50% rispetto ai 20.859 del 2018.
Le percezioni diffuse nella popolazione sono purtroppo diverse, spesso
alimentate ad arte, con parole come “invasione” che creano preoccupazioni e
paure, ma la realtà è questa: non esiste più alcuna emergenza. La presenza
straniera complessiva è pari all’8,7% della popolazione ed è inferiore a quella
tedesca (11,7%), austriaca (15,7%), del Regno Unito (9,5%) e di poco superiore
a quella francese (7%). Siamo un paese normale dal punto di vista
dell’immigrazione. Ma sembra che non si voglia prenderne atto.
Quali politiche occorre mettere in campo perché le popolazioni non
subiscano un fenomeno che suscita preoccupazione e, spesso, paura?
L’Italia è uno dei paesi Ocse con la più alta distanza tra percezione e
realtà. Per la maggioranza degli italiani, dal 2000 a oggi gli omicidi sono
aumentati, quando in realtà hanno visto un calo vertiginoso e sono diminuiti
del 47%. Gli immigrati extraeuropei rappresentano nel nostro paese il 7% della
popolazione totale, ma per l’opinione pubblica sono il 25%, ovvero uno su
quattro, stando ai ripetuti sondaggi d’opinione. Il 47% degli italiani crede
che ci siano più irregolari che immigrati regolari, mentre i primi
rappresentano non più del 10%. Ovviamente c’è un difetto di comunicazione, a
cui anche i media dovrebbero rimediare, e talvolta una vera mancanza di
conoscenza nelle stesse autorità politiche.
Però, anche se i dati delle percezioni sono sbagliati, le paure generate
sono vere. Si deve quindi mettere in atto, con l’impegno di tutti, quanto
necessario per riuscire a dissolverle e dare ai cittadini il segnale che
davvero le cose stanno cambiando e che si intende governare l’immigrazione in
modo ordinato, regolare e sicuro. Sono, queste, le tre parole chiave del Patto
globale sulle migrazioni, a cui il governo italiano dovrebbe ormai aderire,
insieme agli altri 164 paesi che già l’hanno sottoscritto. Diverso è il
discorso che riguarda contesti già di per sé socialmente difficili e con scarsa
possibilità di integrazione degli immigrati. In tali contesti, i cui problemi
sono spesso delegati al volontariato, non si vivono percezioni ma difficoltà e
contrapposizioni reali. Essi dovrebbero essere maggiormente e particolarmente
sostenuti dalle pubbliche amministrazioni. Quando la forbice dell’inclusione si
allarga troppo, emarginando, discriminando, negando diritti basilari ad ampie
fasce di popolazione, le società entrano in crisi. La necessità di politiche e
azioni finalizzate all’inclusione vale per gli immigrati ma, più in generale,
per tutti i cittadini in posizione di fragilità e marginalizzazione”.
L’approccio al fenomeno deve superare i confini degli Stati ed essere
affrontato a livello europeo?
Dobbiamo avere chiaro il punto da cui partire: la migrazione e la mobilità
internazionale sono realtà che esistono da sempre e che non possono essere
fermate. Possono però e devono essere governate, regolate, uscendo dalla
visione emergenziale che non permette passi avanti. Se viene impedita la
possibilità di entrate in un paese in modo regolare – ed in Italia è così da anni
– si favoriscono gli ingressi irregolari e i trafficanti criminali che li
favoriscono e che trovano sempre vie nuove per superare controlli e divieti. E
ciò che vogliamo? No, senza alcun dubbio: potrebbe quindi essere questo un
comune punto di partenza.
Stabilire regole precise di ingresso nel rispetto dei diritti umani e della
dignità della persona è la via maestra per combattere l’irregolarità e per
permettere un’adeguata accoglienza e integrazione. A partire da chi ha bisogno
di aiuto e protezione ma soprattutto per definire precisi e appropriati criteri
di legalità per chi intenda venire in Italia per lavoro o per studio, anche
sperimentando strumenti innovativi per la migrazione circolare e quella ciclica
legata alla stagionalità”.
L’apertura alla possibilità di ingressi regolari può anche legittimare
opzioni politiche di fermezza contro un’immigrazione incontrollata. Si tratta
della migliore arma contro l’illegalità e i traffici clandestini della
criminalità organizzata. Ma lei ha ragione ad evidenziare che questa realtà va
affrontata a livello europeo, data la sua ampiezza e complessità che rende
velleitario ogni tentativo di gestione solo nazionale. La libera circolazione
all’interno dell’Ue è uno dei pilastri dell’architettura politica e del processo
di integrazione e va salvaguardata, senza barriere tra Stato e Stato. Ma questo
richiede strumenti che impediscano ingressi incontrollati. E’ quindi
indispensabile affrontare la realtà dell’immigrazione a livello europeo, con
regole comuni, solidarietà nell’accoglienza e accordi complessivi con i paesi
di maggiore emigrazione”.
La riforma del trattato di Dublino, in tal senso, è un passo decisivo
perché le politiche della Ue siano efficaci?
Ad avviso di Link 2007 tre priorità vanno tenute presenti. Recuperare anni
di ritardi, sottovalutazioni e cattiva gestione della presenza di immigrati e
rifugiati, che l’Ue e gli Stati membri hanno a lungo sottovalutato. Adottare
politiche comuni a livello europeo, almeno tra gli Stati che ci stanno, nella
condivisione dell’accoglienza e nel superamento di normative e vincoli ormai
sorpassati dalla realtà. Modificare il regolamento di Dublino.
Tale regolamento si riferisce ai rifugiati e prevede che il primo paese di
arrivo debba provvedere alla valutazione delle richieste di asilo e
all’accoglienza. È una regola che aveva senso per i rifugiati dall’Est europeo
negli anni ‘90 per evitare duplicazioni di domande; ma nella realtà attuale
deve essere modificata, perché il peso ricade da tempo solo sui paesi in prima
linea, come l’Italia”.
Il Parlamento Europeo, dopo un anno e mezzo di approfondito lavoro, ha
approvato nel novembre 2017 con la maggioranza dei due terzi una proposta di
revisione che risponde molto alle esigenze italiane. Essa prevede che tutti gli
Stati membri debbano accettare di condividere equamente la responsabilità dei
richiedenti asilo. Viene eliminata la disposizione del primo paese di arrivo e
i rifugiati devono accettare di restare nello Stato che sarà individuato, che
diventa quindi competente ad esaminare la domanda, assicurando la permanenza
del richiedente sul proprio territorio; in caso di inadempienza sono previste
penalizzazioni con limitazioni nell’accesso ai fondi europei. Questa proposta
aspetta solo che il Consiglio europeo la ponga all’ordine del giorno senza
tentennamenti”.
La cooperazione internazionale come dovrebbe affrontare questo tema? E
quali sinergie tra agenzie nazionali a livello europeo possono essere efficaci
per armonizzare l’intervento?
In un documento del 17 gennaio 2017, le Ong di LINK 2007 suggerivano di
ripensare e ampliare la cooperazione internazionale per lo sviluppo,
enfatizzando priorità quali la creazione di posti di lavoro stabili e
dignitosi, il miglioramento delle condizioni di vita, il soddisfacimento delle
aspettative formative dei giovani, lo sviluppo e il rafforzamento di
istituzioni democratiche virtuose e capaci di lottare contro la corruzione e di
favorire le fasce più vulnerabili, in una visione e programmazione di lungo
periodo. Chiarendo però che i programmi di cooperazione allo sviluppo potranno
affiancare gli accordi e i partenariati migratori, al fine di favorire ogni
possibile sinergia, ma non dovranno mai essere confusi con essi: le due
finalità possono infatti essere complementari ma non sostitutive l’una
dell’altra…
L’Italia, l’Ue e gli Stati membri dovrebbero poi, nonostante le difficoltà,
tendere mediamente al raddoppio delle risorse destinate allo sviluppo e agire
in modo coordinato con i paesi partner per rendere efficaci e duraturi gli
interventi di cooperazione e i piani di investimento, come quello messo in atto
dalla Commissione europea, da elaborarsi con i paesi partner in un percorso di
accompagnamento tecnico, di sostegno alle istituzioni per creare contesti
favorevoli all’investimento, lottare contro la corruzione, attuare politiche
fiscali e industriali adeguate, prestare grande attenzione ai contesti sociali
e alla salvaguardia dell’ambiente, al fine della sostenibilità ed efficacia
degli interventi. Le parole e gli inviti a controllare i flussi migratori non
possono bastare: creare sviluppo costa, così come assicurare maggiore equità,
benessere e istruzione, garantire sicurezza, prevenire. Gli attuali livelli
degli stanziamenti per la cooperazione allo sviluppo sono ben lontani dall’essere
adeguati di fronte a così ampi obiettivi, anche perché questi impegni
finanziari, se usati bene, rappresentano un investimento per il futuro: dei
paesi partner e nostro”.
Vi è un diritto, spesso non considerato, che è quello di “non essere
obbligato a emigrare”. Tradotto potrebbe essere elaborato un piano Marshall per
l’Africa. Quali potrebbero essere i capisaldi di un piano così fatto?
In una lettera inviata al Presidente del Consiglio Giuseppe Conte nel 2018,
LINK 2007 evidenziava proprio questo punto. Ad ognuno dovrebbe essere garantita
la libertà di non dovere emigrare, trovando le condizioni per potere prendere
in mano la propria vita, valorizzando il vivere nella propria terra per
edificare il proprio futuro … Si tratta di una sfida complessa che, per essere
vinta, richiede forti partenariati internazionali per lo sviluppo. La
cooperazione, nelle sue molteplici articolazioni nazionali e internazionali,
può avere un ruolo primario a sostegno di questo processo. Ma va intesa
correttamente, coordinando le varie iniziative e i vari soggetti e strumenti in
una comune strategia di intervento e nella coerenza delle politiche. Aiutarli
ad essere liberi a casa loro, da slogan deve diventare strumento di
cambiamento, con una svolta nell’approccio politico e nei partenariati
internazionali. Tenendo in particolare considerazione l’Africa, che in
trent’anni raddoppierà la popolazione arrivando a 2,4 miliardi di persone e si
troverà con un’ampia maggioranza giovane, in gran parte istruita, pronta al
lavoro, di fronte al continente europeo in calo demografico e invecchiato”.
Non serve puntare su un “piano Marshall”, anche perché a nostro avviso
rimarrà una mera enunciazione. La via intrapresa dall’Italia e dall’Ue degli
accordi di partenariato per lo sviluppo dovrà essere rafforzata e perfezionata
in una prospettiva di lungo termine e di cammino comune, non a senso unico ma a
reale vantaggio reciproco, un co-sviluppo, con positive ricadute sulla
popolazione e lo sviluppo delle comunità.
In tema di migrazione, gli accordi di partenariato non devono mai
contemplare forme di pressione o intimazione, esercizio di poca utilità e
comunque di breve periodo, che annullerebbero sul nascere la pari dignità che
dei partenariati è elemento fondamentale. Solo rapporti di rispetto e
reciprocità collaborativa permettono di stabilire cooperazioni proficue e
durature, a mutuo interesse. Permettono anche di pattuire con i paesi partner
quote di ingressi che al contempo rispettino le loro programmazioni e siano
compatibili con le nostre possibilità ed esigenze; e anche di concordare
condizioni e vincoli ragionevoli di selezione”.
Co-sviluppo può derivare anche dalla valorizzazione delle diaspore, delle
comunità organizzate di immigrati inseriti e riconosciuti nelle nostre realtà
regionali e territoriali dove sono integrati, mantenendo legami stretti con le
comunità di origine. Queste realtà diasporiche mostrano spesso una spiccata
iniziativa imprenditoriale investendo nelle due realtà, sia qui in Italia che
nei propri territori di origine. Il loro transnazionalismo e translocalismo li
fa sentire pienamente qui e lì, rappresentando così un potenziale fattore di
collaborazioni e co-sviluppo a livello territoriale. Questa presenza
transnazionale potrebbe infatti favorire e facilitare accordi quadro di
partenariato tra le due amministrazioni territoriali, da cui potrebbero
derivare specifici accordi di cooperazione coinvolgenti le realtà economiche,
culturali, imprenditoriali, sociali dei due territori, a reciproco vantaggio e
interesse e a maggiore integrazione delle comunità immigrate.
Un piano che, tuttavia, potrebbe scontrarsi con l’organizzazione di diversi
Stati africani che, in molti casi, sono cleptocrazie, dittature, dove i diritti
elementari della persona sono totalmente disattesi e dove la corruzione è
endemica. L’Europa cosa può fare, in questo contesto affinché le sue politiche
raggiungano davvero le popolazioni?
È un tema difficile da affrontare in poche righe. L’Europa può fare
poco, purtroppo, dato che i condizionamenti, come le sanzioni, raramente hanno
indebolito i dittatori ma hanno peggiorato le condizioni, già precarie, della
maggioranza della popolazione ed in particolare dei più vulnerabili. E poi,
siamo così limpidi nei paesi europei e non siamo forse co-responsabili della
dilagante corruzione in molti paesi partner nel mondo? Gli stessi Stati
africani e l’Unione africana hanno ben presente la situazione e stanno
cercando, nella costruzione e nel rafforzamento dell’Unità africana, di
provvedervi. Questa è la migliore e giusta strada: che dovrà essere severa
all’interno e verso l’esterno, anche verso i paesi promotori di partenariati.
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