Ad una domanda della scrittrice Eleanor Wachtel su come definirebbe i suoi
quattro racconti de Gli emigrati Sebald risponde che a lui
interessano gli angoli di osservazione e paragona la sua narrazione a un
periscopio che osserva relazioni tra le molteplici prospettive che si offrono
alla sua paziente esplorazione.
Individuare relazioni e ricostruire immagini a partire da minuti
particolari con un lavoro di accumulo e di ricostruzione è la modalità che
domina tutte le scritture sebaldiane, in particolare i suoi romanzi a partire
da Vertigini (1990) e poi Gli emigrati (1992), Gli
anelli di Saturno (1995) fino ad Austerlitz, il romanzo
uscito postumo nel 2001. La sua è stata definita una narrativa della memoria
perché la sua ricerca letteraria appare come un tentativo di disinnescare i
meccanismi della rimozione – individuale e collettiva – per consentire alla
coscienza di riportare alla luce esperienze, ricordi, momenti di un passato
spesso doloroso.
Il fantasma della memoria. Conversazioni con W.G. Sebald a cura di Lynne
Sharon Schwartz uscito nel 2007 negli Stati Uniti da Seven Stories Press e ora
da Treccani con una prefazione di Filippo Tuena è un libro che propone, accanto
ad alcune conversazioni con lo scrittore tedesco, le testimonianze critiche di
scrittori e poeti come Tim Parks, Michael Hofmann, Ruth Franklin, Charles
Simic.
Il filo conduttore che domina le dichiarazioni rese dallo scrittore tedesco
nelle interviste ma che emerge con toni e accenti diversi anche nei testi
critici è il trattamento narrativo del tempo: un tempo che è storico, violento,
inconoscibile e inesorabilmente distruttivo. Negli Emigrati e
in Austerlitz, i due libri che hanno reso celebre Sebald negli
Stati Uniti, questo tempo tentacolare e perversamente rizomatico è quello del
male assoluto, il tempo della Shoah. Il lavoro di scavo narrativo su questo
orrore nascosto nelle pieghe del rimosso dei protagonisti ha fatto diventare
Sebald nel giro di pochi anni, sul finire degli anni Novanta, “uno scrittore
indispensabile, uno di quelli di cui non si può fare a meno”, (Lynne Sharon
Schwartz). E Schwartz aggiunge: “Sebald, più di qualunque altro autore della
nostra epoca, ha rinnovato la forma stessa della scrittura”. Questa
affermazione, forse un po’ eccessiva, dà tuttavia la misura della ricezione
negli Stati Uniti di questo scrittore che non appena laureato lascia nel 1970
il suo paese, l’odiata Germania, per andare a vivere in Inghilterra. Dove
insegnerà letteratura tedesca e poi letterature europee all’Università di
Norwick.
In Gran Bretagna Sebald approdò ufficialmente per ragioni di studio ma la
ragione vera – lo dichiarò lui stesso in diverse occasioni – era dettata dall’urgenza
di abbandonare un mondo, quello della regione meridionale dell’Allgäu da cui
proveniva, dove il passato nazista e le colpe della popolazione, allora
accanitamente in favore del regime, erano stati accuratamente rimossi. Sebald
provò l’orrore di scoprire quel rimosso nella sua stessa famiglia: il silenzio
e l’oblio collettivo della colpa diventarono ai suoi occhi lo stigma negativo
di un’intera nazione che lui non si stancò di denunciare in ogni occasione
procurandosi in Germania non pochi nemici.
In cosa consiste l’originalità di Sebald scrittore? Essenzialmente
nell’avere fornito un’anatomia della memoria attraverso una disamina dei suoi
meccanismi. Ma questo lavoro di scavo che coglie indizi e costruisce ipotesi
sulle tracce del passato approda ad una resa mitopoietica in cui il rammemorare
entra in conflitto con il fluire della narrazione e la costruzione del racconto
quasi si scompone in minute immagini, in brandelli di passato che riaffiorano
con la potenza icastica di un’istantanea. Per questo le sue composizioni sono
sempre anche scomposizioni in nuclei esperienziali che avvolgono gli eventi
minimi di inattese risonanze. È come se il suo procedere nel racconto fosse un
passo del gambero: un continuo arretrare verso luoghi, tempi e sequenze di vita
remote che tuttavia intrattengono con il presente un dialogo sotto traccia,
invisibile ma costante. Ne risulta una trama di relazioni che sconvolgono i
criteri tradizionali di anteriorità e posteriorità su cui è costruito un
intreccio. La voce narrante diviene una voce interrogante che ha congedato da
sempre l’hybris autoriale, la pretesa di mettere in ordine il passato, di
costruire un plot coerente secondo la logica della progressione verso una fine.
Una pretesa che a Sebald appare del tutto fuori luogo di fronte
all’enormità del male di cui i suoi protagonisti hanno fatto esperienza.
A Eleanor Wachtel dichiarerà che le quattro vite raccontate in Gli
emigrati sono basate su esistenze reali di persone a lui note, che
hanno commesso suicidio in età avanzata. In tutti è evidente, dichiara Sebald,
“la sindrome del sopravvissuto” che diventa insopportabile in tarda età. “Ero
al corrente di questa sindrome in astratto, attraverso i casi di Jean Améry,
Primo Levi, Paul Celan e Tadeusz Borowski, e diversi altri che non sono
riusciti a sfuggire alle ombre innestate nelle loro vite dalla Shoah, e che
sono infine rimasti soffocati dal peso della memoria. È una cosa che tende ad
accadere piuttosto tardi nella vita di queste persone, quando sono in pensione,
come è successo in questi casi, e quindi all’improvviso si apre un vuoto nelle
loro vite”.
Il peso della memoria di cui parla Sebald è complementare alla forza
disperata dell’oblio che ha consentito ai suoi personaggi di sopravvivere alla
distruzione psichica.
Ma quando il cumulo del rimosso ricompare in superficie il peso diventa
troppo soffocante per poter essere retto a lungo.
Ora questi attraversamenti del passato mediante la memoria poiché sono
improvvisi e inattesi si negano ad una progressione narrativa: le narrazioni di
Sebald sono tutte attraversate da questa strana tensione irrisolta tra l’attimo
e la durata. Perciò rivestono una funzione fondamentale le fotografie che
compaiono qua e là sulla pagina. Sono tracce visive disperse – la dispersione è
per Sebald una condizione permanente dello spirito – un accumulo di immagini,
fotografie in bianco e nero, interni borghesi, gruppi famigliari, cartoline
ingiallite, pagine di agende annotate.
Alla domanda di quale sia la loro funzione Sebald risponde: “Credo che
abbiano due scopi possibili nel testo. Il primo e più ovvio è quello della
veridicità, poiché tendiamo a credere alle immagini molto più che alle parole.
(…). L’altra funzione che intravedo è forse quella di fermare il tempo. La
narrazione è una forma d’arte che si muove nel tempo, dunque inclina verso la
fine, poiché lavora su un gradiente negativo, ed è molto, molto difficile in
quella particolare forma di racconto arrestare lo scorrere del tempo. E come
sappiamo, è questo che ci piace così tanto in alcune forme di arte visiva. (…)
Ti trovi al di fuori del tempo, ed è in un certo senso una forma di redenzione,
sei liberato dallo scorrere del tempo. Anche le fotografie possono sortire lo
stesso effetto, riuscire a liberarci dal passaggio del tempo”.
In questo modo di concepire il tempo del racconto, sconvolgendo i parametri
tradizionali basati sulla logica e sulla sequenza lineare, Sebald conduce il
lettore in un territorio già esplorato da Walter Benjamin che ne ha disegnato
con grande precisione la forma labirintica. L’immagine dialettica di
cui parla il filosofo tedesco a proposito di Baudelaire ha questa stessa
funzione: salva e redime dalla distruzione che inevitabilmente s’accompagna
allo scorrere del tempo.
Dalle interviste a Eleanor Wachtel e a Carole Angier emerge il profilo di
uno scrittore che vive la sua scrittura come una missione in qualche modo
salvifica nei confronti delle vittime della storia e che proprio perciò si
sottrae con ostinato rigore morale alle seduzioni della finzione poetica, al
narrare per il narrare che per lui è nient’altro che un edulcorare l’orrore di
ciò che è accaduto, in primo luogo l’infamia dello sterminio di massa
degli Untermenschen, gli uomini indegni di vivere, gli ebrei, i
malati di mente, le minoranze indesiderate.
In questa etica radicale della scrittura Sebald richiama alla memoria
l’intransigenza di Karl Kraus e ancora più quella scomoda e scandalosa di
Thomas Bernhard, lo scrittore a cui forse si sente più vicino anche se le
intonazioni delle rispettive scritture sono per la verità assai diverse.
A una domanda di Michael Silverblatt sul suo debito letterario nei
confronti di Bernhard Sebald non ha difficoltà ad ammettere: “Sì, sono sempre
stato tentato di dichiarare apertamente, fin da subito, il mio grande debito di
gratitudine verso Thomas Bernhard”. Un autore che, afferma Sebald, è un modello
perché si sottrae al destino di molta letteratura tedesca del dopoguerra,
quello della compromissione morale che per lui fa tutt’uno con la mediocrità
estetica.
Dalla conversazione con Silverblatt emerge assai bene come la vera
ossessione di Sebald sia la necessità etica di narrare le atrocità dello
sterminio e l’impossibilità di farlo. “Ho sempre sentito come necessario
scrivere la storia della persecuzione, del vilipendio delle minoranze, del
tentativo, a cui ci si è avvicinati molto, di eradicare un intero popolo. Ed
ero allo stesso tempo consapevole, nel perseguire queste idee, di come sia
praticamente impossibile farlo; perché secondo me scrivere dei campi di
concentramento è quasi impossibile. (…) Quindi l’unico modo per affrontare
queste cose è farlo, secondo me, in modo obliquo, tangenzialmente, attraverso
dei riferimenti, piuttosto che in un confronto diretto”.
L’universo narrativo di Sebald è tutto racchiuso in questa tangenza da cui
escono, come fantasmi del passato, in modo imprevedibile e spesso incerto,
quasi come in sogno, i frammenti di vite e di mondi che il conformismo
edulcorante di una nazione proiettata verso il futuro, come la Germania del dopoguerra,
ha lasciato in ombra. L’accusa agli scrittori tedeschi, che Sebald ha espresso
senza mezzi termini in varie occasioni attirandosi molti nemici in patria, è
stata di assecondare in modo solerte questo colpevole oblio di massa che non
rende giustizia ai milioni di morti e alla loro immane sofferenza.
Chi si recasse nei luoghi in cui Sebald ha trascorso gran parte della sua
vita fino al fatale 14 dicembre 2001 in cui morì in un incidente
automobilistico e si avventurasse nella contea di Norfolk alla ricerca della
sua tomba troverebbe con qualche fatica un minuscolo cimitero che circonda la
chiesa di St. Andrew a Framingham Earl, qualche chilometro a sud di Norwich.
Sulla lapide di marmo scuro sotto il quale riposa troverebbe i sassolini che la
pietà ebraica lascia sulle tombe dei propri defunti. In quei gesti anonimi è
racchiusa probabilmente non solo la riconoscenza verso l’infaticabile
esploratore della memoria dello sterminio ma anche la gratitudine per una
scrittura che ha saputo restituire con sorvegliata discrezione il dramma dei
sopravvissuti.
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