I giornali riportano una serie
di considerazioni del capo della Polizia, Franco Gabrielli, sull’immigrazione. Tra
le varie cose dette, alcune di buon senso, altre discutibili, emerge un
tormentone che naturalmente verrà ripreso, ripetuto, urlato nei prossimi
giorni. Un dato apparentemente incontrovertibile, usato
come un indicatore della necessità di “costruire percorsi di integrazione”.
La
parola “integrazione” si presta a usi diversi, e la retorica
che vi fa ricorso permette le più varie acrobazie. Come molti politici,
improvvisati e non, anche nel
linguaggio di Gabrielli i “percorsi di integrazione” si prevedono e normano
dall’alto, mentre la cosiddetta integrazione riguarda il singolo individuo che,
appunto, “si integra” (mostrando docilità premiale) o “viene
integrato” (al passivo, perché accetta passivamente l’azione altrui). Non spunta
mai una possibilità d’uso decente del termine “integrazione”, come quella
praticata decenni fa, che indicava un processo di reciproco adattamento
tra la società di arrivo e gli immigrati, attraverso il rispetto
dei diritti degli immigrati e le politiche sociali. Di rispetto dei diritti e di politiche sociali non
si parla, di reciprocità meno che mai, e allora meglio rievocare in astratto la
costruzione di processi di assoggettamento e l’adattamento forzato dei soggetti
(meglio, assoggettati), invitati
a “integrarsi”: cioè a dimostrare, anche con esami di lingua e di passiva
assuefazione, di meritarsi diritti al ribasso.
Dice
Gabrielli (si veda Il Fatto quotidiano) : “Da 10 anni c’è un trend
in calo complessivo
dei reati. Ma c’è anche, negli ultimi anni, un aumento
degli stranieri coinvolti tra arrestati e denunciati, questo è inequivoco”. E
sottolinea che “nel 2016, su 893mila persone denunciate e arrestate, avevamo il 29,2% degli stranieri coinvolti; nel 2017 la percentuale è salita al 29,8%, nel 2018 al 32% e in questo 2019 che sta quasi finendo il trend è lo stesso, siamo
quasi al 32%”. La conclusione viene presentata come ovvia: “Tenendo
conto che gli stranieri nel nostro Paese, sono il 12%, tra legale e non, questo dà la misura del problema”.
L’ovvio
va interrogato e messo in questione il più possibile: nel caso del tema
immigrazione, dati i presupposti fallaci di senso comune, tale esercizio
del sospetto va praticato sempre. Proviamo a riguardare con attenzione quanto dice
Gabrielli: gli “stranieri”, tra le persone denunciate e arrestate, sono il 32%;
rispetto alla popolazione italiana, il 12% (una stima un po’ larga, ma non è il
caso di sottilizzare): questo divario “dà la misura del problema”.
Che quel divario misuri qualcosa, è sicuro, sono due numeri messi in
rapporto tra loro, e qualcosa, anche secondo noi, significa. C’è però da
stabilire un punto: di quale problema si tratta? Dicendo “il” problema, Gabrielli
dà per scontato che quanto ha detto indichi con evidenza un problema
preciso, che è
nella sua testa e perciò viene imposto come una presupposizione a chi legge o
ascolta. Ma la cosa data per ovvia non lo è: si tratta di un dispositivo
discorsivo che lavora “in maniera dolce, subdola…e può essere un potente
mezzo di manipolazione del lettore”, come scriveva chi l’ha messo a fuoco dal punto di
vista linguistico, Maria-Elisabeth Conte; tanto che viene indicato
come chiave di molti giudizi che fingono di non essere tali da Federico
Faloppa, “Razzisti a parole (per non parlar dei fatti)”, Laterza 2011,
pag.106/107.
Basta
fare un esempio: supponiamo
di leggere i giornali americani successivi a un attentato, negli anni venti (il periodo in
cui vennero condannati a morte gli innocenti Sacco e Vanzetti); poniamo che dai
giornali si venga a sapere che in città sono stati fermati alcune centinaia di
sospetti, e che fra questi gli
italiani siano il 32%; e che la popolazione italiana rappresenta il 12% di chi
abita in città. Potremmo presentare il fatto dicendo: “questo dà la misura del
problema”; o anche “questo dà la misura dei pregiudizi della polizia (di
allora)”. In ciascuno dei due casi, noi avremo dato un giudizio, ma senza presentarlo come tale, bensì invitando
l’ascoltatore o il lettore a pensare che quanto detto sia “inequivocabilmente”
un problema, o un’ingiustizia: due giudizi antitetici, entrambi soggettivi, che
possono essere presentati come “la cosa di cui si stava parlando”. Come dice Faloppa: fingendo di ricapitolare quanto detto (qui “il problema”
o “i pregiudizi”) si introduce un giudizio presentandolo come una informazione
evidente. O inequivoca, come dice Gabrielli.
In
quale cornice acquista senso il
dato indicato dal capo della polizia? Sulla cornice, o frame, delle affermazioni in campo politico si discusse una dozzina di anni
fa grazie al libro “Non pensare all’elefante!” di Lakoff, che a detta
dell’autore era un
invito ai democratici per mettere in questione l’egemonia della destra nel proporre le
cornici che danno senso a qualsiasi cosa venga detta: ma è sempre e ancora il discorso
di destra a
dettare frames che mettono in difficoltà l’argomentazione della sinistra;
quest’ultima così parte svantaggiata, e, accomodante com’è e incapace di
reframing,
sconfitta in partenza. Si veda il reframing operato da parte della destra sul diritto alla
cittadinanza dei figli di immigrati nati qui: si è passati da tale
rivendicazione alla latinizzazione (degna
del latinorum di
Don Abbondio in difficoltà con Renzo) e così i politici (ma non molti attivisti
antirazzisti) hanno parlato
di “ius soli”; poi è stata inventata la cornice dello “ius culturae”, ed è in
tale quadro, che ribadisce la necessità per loro di meritarsi ciò che per noi è un diritto,
che si cerca di giungere a un accomodamento con una parte assai
minoritaria della
destra (Renata Polverini e forse qualche altro). Ciò rafforzerà il predominio
culturale della destra nell’opporre loro a noi,
e non basterà per ottenere qualcosa.
Possiamo
cercare di capire qualcosa dalle cifre esibite da Gabrielli. Il numero di
denunciati non è un dato che si produce in natura, ma è sempre il segno di
un’attività di diverse agenzie, tra cui, centrali, quelle di polizia. Come ha mostrato
negli anni ’30 del secolo scorso Johan Thorsten Sellin, e come con scarso
ascolto da parte di chi ne chiacchiera insistono a ricordarci manuali
autorevoli di criminologia, man mano che ci si allontana dalla scena del
crimine le statistiche
criminologiche ci parlano di altro: se si parla di condannati, ci dicono molto
anche su come funzionano leggi e magistratura, se si parla di arrestati ci
dicono molto sulle attività delle forze dell’ordine, etc.
Tanto
per capirci con esempi concreti: per un italiano non è un reato non esibire i
documenti, per uno straniero sì. Pensiamo a controlli sugli autobus
o sui treni, sempre più di frequente mirati (si veda qui): lo straniero può
essere denunciato per non avere esibito un documento, e se privo del permesso
di soggiorno può essere denunciato per il reato di “clandestinità”, che prima
non esisteva (si trattava di una infrazione amministrativa), ma è tale grazie
alla legge
94 del 2 luglio 2009 (ministro degli interni, Maroni); da allora si sono succeduti
governi “di centrosinistra” che non hanno mai trovato il tempo di cancellare il
“reato di clandestinità”.
Chi
ci legge ha sicuramente incontrato più volte sui giornali la formula “sono stati
ritrovati n soggetti extracomunitari non in regola con le norme sul permesso di soggiorno. Gli stessi,
pertanto, venivano accompagnati presso la locale Questura, e dopo essere stati
compiutamente fotosegnalati, venivano deferiti all’autorità giudiziaria per
inosservanza della normativa stranieri.” Fermati, fotosegnalati,
deferiti: cioè denunciati, a gonfiare i numeri che poi un capo della polizia può
esibire senza stare tanto a ricordare come sono stati prodotti. “Prodotti” è il
termine più appropriato per indicare quelli che di solito vengono detti “dati”
statistici: che non sono dati, ma prodotti secondo i parametri, le categorie, i criteri
con cui vengono svolte le statistiche. Le quali a loro volta parlano di fenomeni non “dati”, ma
prodotti.
Si
producono più denunciati tra le persone che vengono fermate di più, a piedi o
in auto, come
avviene ed è stato dimostrato, anche se c’è stato qualche bello spirito
“democratico” che ha piegato dati evidenti per cercare di sostenere il
contrario (sul tristo episodio si veda Melossi, in “Etnografia e ricerca
qualitativa”, 2010). Quando un Cucchi viene ucciso in carcere ci vogliono molti
anni a
denunciare e condannare i sicuri colpevoli, e non sempre ci si riesce; invece gli
immigrati sono di frequente fermati, e facilmente denunciabili per un mucchio di (presunti) reati minori o
discutibili.
La
sproporzione tra immigrati presenti e immigrati denunciati ci parla, certo,
anche di
marginalità e vulnerabilità di una parte della popolazione straniera presente, in un quadro
in cui ci si preoccupa poco di tale vulnerabilità, e anzi la si produce; ma ci
dice moltissimo delle attività di polizia, delle norme di legge, delle
direttive e delle abitudini non scritte ma tenaci e rilevabili da
un’indagine etnografica. Come quella che ci ha permesso di sapere, a suo tempo, che, anche se
non è un delitto essere scuri di pelle o avere i capelli ricci o non radersi
ogni giorno, è statisticamente più facile essere fermati (e perciò anche, se è
il caso, denunciati) per avere i capelli ricci, la barba incolta o la pelle
scura. Si pensi a come sarebbe istruttivo leggere le statistiche sui fermati: “ieri in tutta Italia sono state fermate 1972
persone; tra esse, il 30% di persone con la pelle scura, il 35% con la barba di
due giorni e il 34% con i capelli ricci (in alcuni casi il dato è cumulabile:
c’è chi ha i capelli ricci ed è nero di pelle, etc.). Dato che le persone di
pelle scura sono solo il 5% della popolazione, quelle che non si radono ogni
giorno sono il 18% e quelle con i capelli ricci sono il 12%, questo dà la
misura del problema”. In questo caso, sarebbe evidente che il problema è tutto delle forze di polizia, che
dovrebbero adoperare criteri diversi, e magari più efficaci, per fermare le
persone. Altrimenti ogni conclusione fondata su tali dati prodotti sarebbe –
come diceva sarcasticamente Oscar Wilde – sbadata.
Simili
sbadataggini segnano l’interpretazione dei numeri che dà il capo della
Polizia, e dispiace che invece di cercare di capire i dati statistici si
proclami un “problema” autoevidente e corrispondente a quello immaginato dal
senso comune, allarmato
da decenni di discorsi xenofobi e di dispositivi discorsivi, di legge, deumanizzanti.
Diceva
un grande studioso che non avrebbe accettato di leggere
statistiche sull’intelligenza dei neri e dei bianchi fin quando non si sarebbero prodotte statistiche sul
quoziente di intelligenza di idraulici e pellettieri. Ecco cosa manca, nei
numeri del capo della polizia: la giustificazione del perché si
producono numeri sulle denunce che riguardano gli stranieri e non quelle
riguardanti gli imbianchini, poniamo, o i dirigenti di grandi imprese.
(ripreso
da www.cronachediordinariorazzismo.org)
Ecco il link di
un’eccellente intervista radiofonica a Sergio Bontempelli, complementare a
quanto avete letto sopra.
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