Essendo una
donna palestinese politicamente attiva in Palestina, ho una profonda
familiarità con il razzismo costruito dall' occupazione israeliana che ci nega le libertà
fondamentali .Negli ultimi anni ho assistito a una
cancellazione dell'identità palestinese non solo da parte degli israeliani che
ci opprimono, ma anche dalla comunità internazionale , persino quando esprime
solidarietà. Sempre più spesso ho notato momenti in cui la mia identità
molto araba, molto palestinese, molto musulmana è stata cancellata, non solo
dai soldati e dai media, ma dai politici e dai membri della società civile,
anche di quelli che cercano di sostenerci. La disumanizzazione incessante
dei palestinesi nella politica israeliana non è più scioccante; è diventata
emblematica dell'esperienza palestinese. Le ultime elezioni sono state
piene di politici come Benny Gantz e il Primo Ministro Benjamin Netanyahu che lottano per superarsi a vicenda
nei loro approcci al "problema" palestinese, una lotta ironica dato
che gli approcci dei due uomini sono identici; quando Netanyahu promise
di annettere la
Valle del Giordano , il Partito Blu e Bianco di Gantz lo ha
accusato di aver rubato il loro piano .Ma che si tratti di
Netanyahu ,che chiede esplicitamente l'annessione e l' espropriazione di terre palestinesi, o di Gantz che
si vanta di quanti palestinesi ha ucciso nell'ultima guerra
a Gaza, la percezione dei palestinesi che i politici israeliani vendono ai loro
elettori non cambia. Siamo selvaggi incivili,secondo gli standard
eurocentrici , e per questo fanno bene a continuare le violazioni contro
di noi. Più devastante è la complicità della comunità internazionale in questa
disumanizzazione. In un modo meno percettibile, ma comunque
distruttivo. Nessuna ricerca di giustizia, uguaglianza e pace sarà
completa senza affrontare questo problema.
.Si pensi all'attenzione sorprendentemente sproporzionata che alcuni palestinesi ricevono su altri come la giovane attivista Ahed Tamimi o anche me stessa. Provoca questa attenzione il fatto che evochiamo una sorta di dissonanza nell'immagine interiorizzata di come appare un palestinese.
.Si pensi all'attenzione sorprendentemente sproporzionata che alcuni palestinesi ricevono su altri come la giovane attivista Ahed Tamimi o anche me stessa. Provoca questa attenzione il fatto che evochiamo una sorta di dissonanza nell'immagine interiorizzata di come appare un palestinese.
Le immagini
dei media e gli articoli sui palestinesi
amplificano la narrazione di loro come selvaggi, assetati di sangue , mascherati con kaffiyeh,
ribelli che urlano per le strade in un linguaggio incomprensibile. Questi
sono i ritratti dei palestinesi e del loro stile di vita,
antagonisti "non dignitosi" contrapposti al "nuovo
mondo democratico" che Israele incarna .
Nel
tentativo di contrastare quell'immagine i membri dei movimenti internazionali
di solidarietà spesso ci dicono che dobbiamo essere più "affabili",
che noi palestinesi dobbiamo "umanizzare" la nostra situazione. Indipendentemente
dalle buone intenzioni, mi chiedo sempre che cosa convinca sia gli individui
che le organizzazioni che sia giusto chiedere a un popolo in difficoltà
di dimostrare la propria umanità.
Nella sua
evocazione di come dovrebbe essere rappresentata “l'umanità”, la comunità
internazionale sta effettivamente danneggiando la ricerca palestinese di un
riconoscimento della sua dignità e dei suoi diritti. Questa solidarietà
selettiva e la mobilitazione intorno ai palestinesi dalla pelle chiara e dai
volti non coperti, evidenziano la natura razzista e xenofoba dei cosiddetti
paesi "sviluppati" del mondo mentre cercano di sostenerci.
È qualcosa
che ho vissuto in prima persona. Le mie esperienze personali come
palestinese con una carnagione ambigua, con un vestito e uno stile di vita che
contrasta con gli orientalisti, gli stereotipi eurocentrici, mi hanno fatto
ottenere il sostegno e persino mi hanno aiutato ad evitare alcune situazioni
pericolose durante gli scontri con le forze israeliane .
Sono stata
ignorata dai soldati israeliani ai posti di blocco e considerata meno
minacciosa a causa dei miei capelli chiari e della mia pelle marrone chiaro,
oltre al fatto che mostro un po' di pelle oltre il viso e le mani. Ho
anche un accento americano fluente per mascherare la minaccia rappresentata
dalla mia lingua madre araba. Sono stata accolta ai checkpoint da soldati
israeliani, a volte con un sorriso che riconosce la mia esistenza, o addirittura
salutata da uno "Shalom!" in quanto scambiata per uno di
loro. Quando attraverso il ponte di Allenby sono sempre accolta
calorosamente, fino a quando non mostro il mio documento di identità. Durante
le manifestazioni ho visto l'esercito israeliano fare il profilo razziale degli
attivisti internazionali, separandoli dai locali per arrestarli. Gli
arresti servono non solo a scoraggiare gli attivisti dall'adesione, ma ad
evitare di ferirli mentre cercano di colpire i palestinesi, dato che il
ferimento di un'attivista nei media internazionale prevale sempre
su quello subito da un palestinese. Nei media “moriamo” piuttosto che essere
uccisi, essere nominati dopo essere stati uccisi è diventato un lusso concesso
solo a coloro la cui immagine “umanizza” la Palestina. Associare le richieste
di giustizia alla capacità di "umanizzare" la nostra lotta, vuol
dire accettare la visione binaria di "noi" rispetto a
"loro". Questo è un rifiuto alla vera uguaglianza. Ecco perché
trovo questo discorso "umanizzante" così frustrante. Mentre
Israele prende effettivamente più terre e giustifica insediamenti illegali e politiche
discriminatorie, la comunità internazionale, esplicitamente o
indirettamente, attraverso il proprio razzismo, sta rafforzando le tattiche e
le istituzioni israeliane. Eppure riconosco il mio privilegio. Sono più
umanizzata della maggior parte dei miei fratelli. Sono una palestinese di
Ramallah, una città palestinese della Cisgiordania promossa come centro
culturale, con bar locali e spazi aperti, a volte definiti scena del
partito palestinese. Sono una palestinese con la
possibilità di viaggiare come americana, anche se sono limitata nella libertà
di movimento per il mio documento di identità palestinese. Sono una
palestinese che parla un inglese fluente. Non sono etichettata
automaticamente come una terrorista o una selvaggia. Sono comunque
trattata come uno spettacolo. L'ironia è che ciò sembra evocare maggior solidarietà
negli internazionali. Lo riconosco. Riconosco che sto navigando in
questo spazio come una palestinese che passa per un'internazionale e, se sono
protetta dalla violenza, cancello anche una parte della mia identità. Questo ha
inavvertitamente creato rotture, sia nel modo in cui mi identifico con la mia
gente, sia nel modo in cui la mia gente si identifica con me. Quel che è
peggio rinforza le percezioni razziste in generale e nei confronti dei
palestinesi in particolare. L'identità palestinese è un insieme di
esperienze, immagini, credenze e stili di vita eterogenei e non si può chiedere
a gruppi oppressi di mettere a proprio agio gli internazionali. La domanda che
dovremmo porre non è quanto siamo simili l'uno all'altro, ma piuttosto, cosa
possiamo fare per affrontare l'ingiustizia, anche se ciò significa confrontarci
con le nostre percezioni razziste interne.
Nessun commento:
Posta un commento