Quando più tardi, per raffreddare i
bollenti spiriti, fecero qualche passo insieme sulla passerella, nella notte
blu, sulla palude ghiacciata e sotto un cielo che brillava di mille luci
vittoriose, Janek chiese a Dobranski:
“Tu ami i russi, vero?”.
“Amo tutti i popoli, ma nessuna nazione. Sono un patriota, non un nazionalista”.
“Che differenza c’è?”.
“Il patriottismo è amare la propria gente; il nazionalismo è odiare gli altri”.
Romain Gary, Educazione europea
“Tu ami i russi, vero?”.
“Amo tutti i popoli, ma nessuna nazione. Sono un patriota, non un nazionalista”.
“Che differenza c’è?”.
“Il patriottismo è amare la propria gente; il nazionalismo è odiare gli altri”.
Romain Gary, Educazione europea
Da qualche
tempo nel dibattito politico si parla di identitarismo, di sovranismo, di
comunitarismo. Da una parte c’è la crisi planetaria delle democrazie liberali,
che fa emergere nuove o desuete categorie per ragionare intorno ai concetti di
nazione, stato, patria – anche se c’è chi ragiona laicamente sull’identità
nazionale come invenzione. Per esempio il New York Times in un video realizzato da Max Fisher e
tradotto da Internazionale.
Dall’altra
parte c’è il caso europeo, che in questa renaissance nazionalistica
ha una storia a parte. Ma anche qui, occorre stare attenti a non confondere i
fenomeni. Per non indulgere in facili equazioni concettuali, Marco
Bascetta sul Manifesto del 14 agosto ha scritto:
‘Sovranismo’
non è una forma politica dotata di autonomia e stabilità. Si tratta
dell’insieme di proiezioni ideologiche, politiche protezioniste e statalismo
che lavorano, dentro la crisi dell’Unione europea, per il ritorno del
nazionalismo nel vecchio continente. E cosa questo potrebbe comportare sarebbe
preferibile non doverlo andare a verificare.
Il
nazionalismo italiano, per la sua storia, assume una forma ancora più
peculiare, dato che al governo c’è un partito come la Lega che, nato come
federalista e secessionista, oggi sta capitalizzando l’immaginario neofascista
sulla nazione intesa come sangue e suolo.
Non è un
caso che nella versione italiana di questo dibattito ci si ritrovi ad avere a
che fare con concetti nuovi e problematici come “autorazzismo”, un termine
usato molto nell’universo culturale di destra per indicare chi non si
rispecchia in un vigoroso nazionalismo o in un acritico orgoglio di patria.
Lo si può
immaginare come l’ultimo passaggio di un percorso che ha fatto riemergere un
nazionalismo muscolare fatto di culto identitario, bandiere tricolori da
esibire, contrasto al multiculturalismo, ritorno a un immaginario
tradizionalista. Da dove nasce – o rinasce – tutto questo?
Il caso italiano
Quello sull’identità italiana è da sempre un terreno di dibattito attraversato da grandi contese: oltre a essere uno stato che ha solo 157 anni (di cui più della metà sotto l’egida di una monarchia poi esiliata perché compromessa con il fascismo e incapace di difendere gli interessi nazionali), l’Italia ha una storia sia culturale sia politica complicata, segnata da una mancata rivoluzione liberale o socialista, dalla presenza ingombrantissima della chiesa, dal ventennio fascista e da molte spinte regressive.
Quello sull’identità italiana è da sempre un terreno di dibattito attraversato da grandi contese: oltre a essere uno stato che ha solo 157 anni (di cui più della metà sotto l’egida di una monarchia poi esiliata perché compromessa con il fascismo e incapace di difendere gli interessi nazionali), l’Italia ha una storia sia culturale sia politica complicata, segnata da una mancata rivoluzione liberale o socialista, dalla presenza ingombrantissima della chiesa, dal ventennio fascista e da molte spinte regressive.
Questa
tensione riaffiora periodicamente, spesso durante crisi o passaggi storici
cruciali. Tra gli anni ottanta e i novanta, il formarsi dell’Unione europea, le
guerre nazionalistiche jugoslave e il ritorno degli indipendentismi (quello
padano, tra gli altri) portarono a una riflessione profonda sulla storia
nazionale.
In Italia
sono usciti diversi testi importanti. In L’italiano. Il carattere nazionale come storia e come
invenzione Giulio Bollati faceva i conti con la
riflessione critica che ha accompagnato per secoli la definizione della
comunità italiana, da Machiavelli a Leopardi a Gobetti a Gramsci: come se
all’immobilismo e al trasformismo secolari, gli intellettuali italiani, esiliati
o perseguitati, dovessero sempre reagire con un surplus di
analisi sulle cause e sulle speranze invece di poter contribuire fattivamente
alla costruzione politica di uno stato.
In L’identità italiana Ernesto Galli Della Loggia ha
sottolineato che in Italia è avvenuto “un fatto decisivo: la tendenziale cesura
tra l’identità nazionale e l’identità italiana, cioè tra il modo di nascita e
di essere dello stato nazionale e il passato storico del paese, divenuto la sua
natura”. Ed elencava una serie di fattori che hanno ritardato gli interventi
per ricucire questa cesura: l’individualismo, il familismo, il clanismo, il
municipalismo, (ancora) il trasformismo, i divari tra nord e sud, lo
scetticismo nei confronti dello stato, la vischiosità delle oligarchie.
Tutto questo
ha fatto sì che la società italiana, al contrario di tante altre, sia rimasta
immobile e identica a se stessa, e non pronta alle “idee comuni dei comuni
interessi” (secondo l’espressione di Pietro Verri). Una società in cui una
politica di parte prevale sulla fiducia nelle istituzioni, sul civismo.
In Per
amore della patria Maurizio Viroli è meno
disfattista. Nel suo libro lo studioso di teoria politica prova a tracciare una
differenza tra nazionalismo e patriottismo democratico. Il primo spesso è stato
il brodo culturale che ha favorito il ritorno all’autoritarismo. Il secondo
affonda le sue radici nella civiltà romana e arriva fino a Simone Weil (“Per lei
l’amore di patria è caritas”),
passando per il patriottismo costituzionale americano e la Resistenza. Per
Viroli troviamo da una parte la filosofia di Johann Gottfried Herder e la sua
idea di nazione, il cui valore prioritario è una tradizione culturale etnica;
dall’altra quella di Johann Gottlieb Fichte, in cui l’appartenenza alla
comunità non è mai scissa dall’ambizione alla libertà.
Con il nuovo
millennio, mentre l’Europa faticava a diventare una comunità culturale e
politica, e si assisteva alla fine delle grandi ideologie e insieme al
disgregarsi dei grandi partiti, la questione dell’identità italiana ha
travalicato i confini del dibattito storiografico. E l’Italia si è ritrovata a
ripensare il suo rapporto con la storia a partire da due ricorrenze recenti: il
150° anniversario dell’unità (2011) e il centenario della prima guerra mondiale
(2015). È vero che nei comitati scientifici delle celebrazioni istituzionali
c’è stata un’attenzione scrupolosa nel decostruire le retoriche
nazionalistiche, ma nella dimensione pubblica questo tentativo è stato
ribaltato.
Si è
ricominciato a parlare di una memoria comune che
doveva mettere insieme le stragi fasciste con le foibe, in una versione
aggiornata del famoso discorso di Luciano Violante sui ragazzi di Salò quando si insediò
alla camera. E si è lasciato a una vulgata semplificatrice ed
edulcorata il compito di riflettere sulla storia italiana: il caso più
clamoroso è stato forse il lunghissimo monologo-lezione di Roberto Benigni a
Sanremo sull’inno di Mameli. Venticinque minuti di esemplare invenzione di una tradizione (come avrebbe scritto
Eric Hobsbawm), che il giorno dopo lo storico Alberto Mario Banti smontava passaggio per passaggio.
Sempre nel
2011 Banti pubblicava Sublime madre
nostra in cui spiegava che l’invenzione della
nazione portasse già fin dalle società carbonare alcuni germi di un
nazionalismo con venature razziste, che poi si sarebbe riverberato
nell’ideologia colonialista e in quella fascista. Qui c’è un’interessantissima
discussione di Wu Ming su questi temi; e al collettivo bolognese va
riconosciuto l’enorme merito di aver fatto un lavoro ventennale di vigilanza sull’uso
pubblico della storia.
La
celebrazione patriottarda dell’unità nazionale e della Grande guerra ha avuto
del resto dei mentori autorevoli. Due presidenze della repubblica, quelle di
Carlo Azeglio Ciampi e di Giorgio Napolitano, hanno insistito moltissimo sul
recupero di simbologie e liturgie pubbliche che avessero il carattere
dell’unità. Un facile esempio è il destino toccato al 2 giugno e al 25 aprile:
il 2 giugno è ritenuta da Ciampi una festa centrale (ripristinata con una legge
nel novembre 2000) e la parata militare in via dei fori imperiali a Roma è
diventata il momento di autocelebrazione più importante nel calendario civile
italiano; il 25 aprile sembra invece una festa minore e parziale, specie se si
considera che la presenza delle istituzioni e l’investimento simbolico negli
ultimi anni sono diminuiti.
Nella
costruzione di una retorica nazionalista, la riflessione sul razzismo italiano
e sul feroce passato coloniale dell’Italia è ancora marginale.
Il libro
dello storico britannico Ian Campbell, Il massacro di
Addis Abeba, mostra ancora una volta la sistematica
violenza del colonialismo italiano (“L’invasione italiana dell’Etiopia si
distinse per la sua ferocia e brutalità”, esordisce Campbell nel primo
capitolo, per poi ricostruire con un’enorme mole di dati ogni fase della
violenza coloniale), ma per contrasto rivela anche come le stragi di Addis
Abeba e Debra Libanos nel 1937 – una carneficina indiscriminata con migliaia di
vittime civili, tra cui moltissimi anziani e bambini, causata dalla
rappresaglia per l’attentato al viceré Rodolfo Graziani – non siano per nulla
parte del patrimonio pubblico, nonostante il lavoro decennale degli storici.
Qualche anno fa, in memoria di Graziani è stato addirittura costruito un mausoleo ad Affile, nel Lazio, che
nonostante l’indignazione di molti abitanti e politici, è ancora lì. Così come
il sindaco di Affile, Ercole Viri, condannato a otto mesi per apologia di
fascismo proprio a causa di quel mausoleo, ma rieletto alle ultime elezioni.
La verità è
che nella lunga invenzione dell’identità italiana si è inserita anche la
mitologia del buon italiano. Anche qui, nonostante siano usciti testi
importanti come Italiani, brava gente? di
Angelo Del Boca, Il mito del bravo italiano di
David Bidussa, e Il cattivo tedesco e il bravo italiano di
Filippo Focardi, vediamo che spesso la
politica del nostro paese non riesce ad avere una consapevolezza del passato, e
si consola usando piccoli miti sull’italianità sempre più regressivi,
identitari e tossici. Mentre, come dice lo storico Carlo Greppi, forse
occorrerebbe cominciare a parlare di appartenenza e non di identità.
Nessun commento:
Posta un commento