È difficile restare indifferenti di fronte a Greta Thunberg, l’attivista
climatica svedese che da qualche tempo è salita agli onori della cronaca per il
notevole successo, anche mediatico, incontrato dai suoi appelli per un
risveglio della coscienza ecologica globale.
Greta è una donna, giovane, che si è esposta nel dibattito pubblico fin
dall’inizio senza filtri particolari, e soprattutto sfuggendo a ogni stereotipo
di sessualizzazione della propria immagine.
Il volto, la figura tutta, di Greta attirano per questo, fin dal principio,
sentimenti di identificazione o di repulsione, ma più raramente i commenti
sessisti e gli shitstorming dal disgustoso sfondo sessuale
riservati ad altre donne influenti o particolarmente presenti dal punto di
vista mediatico.
Da parte dei suoi detrattori il primo livello di delegittimazione delle sue
argomentazioni e prese di posizione si gioca su questo livello primario e
basale, quello della sua immagine e della narrazione che essa veicola.
Come ha sostenuto, infatti, il filosofo e mediologo Stefano Di Pietro nel
suo Comunicazione di massa e scienze della mente (2016) anche
con riferimento a Trump e Berlusconi, è dall’incrocio tra narrazioni,
tradizioni locali ed eventi che va ricercato il motivo dell’impatto mediatico
di un fenomeno, quindi del suo successo a livello di grande pubblico.
Il che vuol dire, tradotto in termini più concreti, che – ad esempio – nel
nostro paese la narrazione di un uomo “forte”, che si è fatto da solo, che
agisce per un bene superiore (ad esempio, quello di quell’entità infinitamente
manipolabile e sempre ridefinibile chiamata “popolo”) senza stare a guardare al
cavillo, alla forma (cioè alle leggi) e che esibisce nella sfera pubblica i
caratteri fenotipici di una mascolinità dominante, è un tipo di narrazione
estremamente popolare, e radicata. Quella del percorso di “redenzione”, per cui
un politico o un uomo di successo che si è fatto da solo “cade”, perdendo di
conseguenza popolarità a causa dei suoi errori, per poi rialzarsi e ritornare
ad essere una figura dominante, è, invece, una narrazione estremamente di
successo negli Stati Uniti, ma meno da noi.
Il frame, la cornice narrativa, entro cui si presenta Greta
Thunberg spiazza, attirandosi di conseguenza antipatie per più motivi: essa,
infatti, mette in crisi delle narrazioni ben consolidate, entro cui ci muoviamo
agilmente, e ne propone di diverse, a cui non siamo abituati.
Greta è “brutta”, “inquietante”, “antipatica”, dicono i suoi critici.
I meme su di lei la dipingono come una jettatrice, come una
bambina autistica che ci giudica, rompendoci le scatole per il nostro stile di
vita consumistico. Il fatto che a Greta Thunberg sia stato diagnosticato
l’Asperger è un elemento che va a supportare questa narrazione: abbiamo a che
fare con una bambina monomaniaca, inquietante e rompiscatole.
Una bambina, secondo moduli narrativi ben consolidati che le clip sul tema
“kids” di youtube non fanno che confermare, attira
l’attenzione perché dolce, carina, innocente, al massimo simpatica. Una donna,
invece, interessa, principalmente, per l’immagine che dà di sé, innanzitutto
fisica. Una bambina malata suscita pena, tenerezza, rimorso.
Greta Thunberg, invece, è una bambina che parla di cose serie, che vuole
avere ragione, e che accusa, imputa. Non è identificabile primariamente come
“carina”, anche se è una bambina, è una donna che pretende di essere
considerata per attributi che non coinvolgono l’aspetto esteriore, ed è una
malata che non vuole fare pena, ma che neanche nasconde la sua condizione. Queste
narrazioni discordanti, da un lato, irritano chi si identifica coi modelli
narrativi che non le prevedono, mentre dall’altro stimolano coloro che in
quelle narrative si riconoscono, o che in quelle antagoniste non si vedono
rappresentati. Su questo punto tornerò in seguito.
Il secondo livello di delegittimazione della figura di Greta è
immediatamente connesso al primo livello, quello immediatamente corporeo: ne è,
per così dire, il corollario.
Se Greta è una bambina, infatti, e per di più monomaniaca, non può essere
di certo lei all’origine del movimento globale che ha iniziato: deve essere una
sorta di epifenomeno, una manifestazione di poteri e volontà più grandi, oscuri
e potenti. Greta Thunberg non sarebbe altro che la faccia dietro cui si nascondono
conglomerati di potere enormi, che in realtà non hanno nulla a che vedere né
con lei né col suo messaggio, ma con interessi altrettanto forti di quelli che
lei va a contrastare. Su questo secondo punto è bene richiamarsi al sano
realismo del Nietzsche della Genealogia della morale (1887):
non esiste storia che non sia storia del potere e della potenza. Tutte le
dinamiche che si danno – e non sono condannate a scomparire perché irrilevanti
– sul panorama storico sono frutto di un certo quantum di
potere. Personalmente non contesto il fatto che Greta Thunberg sia o possa
essere espressione di uno o più poteri, quanto il fatto che ciò infici, o
invalidi, la potenza del suo messaggio e della narrazione ad essa connessa.
Stante il fatto – Realpolitik oblige – che
nell’agone storico-concreto le idee si affermano solo se hanno il potere
concreto di imporsi, molto più interessante di scoprire quali (presunti)
“poteri forti” ci siano dietro Greta, è piuttosto capire quali sono i modelli
alternativi che la sua figura e la sua narrazione veicolano, e se queste hanno
le potenzialità per diffonderli (se non di imporli).
Il modello thunbergiano non è un modello del tutto nuovo, ma appare tale
perché esso porta le caratteristiche di una figura storica che era scomparsa
dalle narrazioni collettive da qualche centinaio di anni: quella dell’asceta.
L’asceta, nella storia della cultura, è sempre stato colui che ha detto di no
al proprio secolo, al proprio mondo, in virtù di una vita e di una realtà
“altra”. Il sociologo e antropologo Arnold Gehlen ha sostenuto – a ragione –
che gli asceti compaiono laddove ben oliati meccanismi e costrutti sociali
vanno in crisi: essi sono individui che riescono a vedere le crepe nella
totalità di un convoluto sociale. Asceti e ascete sono stati per secoli figure
della rivolta, tesi verso valori ultramondani, superiori a quello che si può
vivere ed esperire in ciò che veniva chiamato con disprezzo “questo mondo”.
Modelli alternativi a una vita ridotta alla mera fatticità, essi si sono fatti
spesso, tramite la forza espositiva dei propri corpi, con i propri discorsi,
con i propri scritti, e non di rado con la loro morte, veicolo di una
dissidenza trasformativa nei confronti dell’esistente. A volte questi modelli
hanno fallito, e sono rimasti delle mere curiosità nascoste negli archivi della
storia. In altre occasioni, però, essi hanno avuto un reale successo, hanno
incarnato dei problemi fattizi, concreti della propria epoca, e veicolato
passioni collettive in maniera così potente da portare a cambiamenti reali
dell’esistente: figure come San Francesco e Gandhi valgano come nomi “angolari”
di questa lunga tradizione.
Imponendosi, laddove sono riuscite, queste figure si sono inevitabilmente
mischiate col potere di questo mondo, ma ciononostante hanno creato un
“prodotto” (sociale, storico, culturale) diverso da quello di partenza, che se
forse non era esattamente quello da loro stessi auspicato, ha comunque
modificato lo status quo iniziale.
Nella nostra epoca interconnessa e altamente mediatizzata il potere dei
modelli e la velocità della loro propagazione sono infinitamente maggiori
rispetto al passato: per questo l’azione e la visibilità dei singoli, così come
il loro potere trasformativo nei confronti dell’esistente non possono
assolutamente essere sottovalutati.
Chi sostiene che non può essere “una ragazzina” a contrastare il
cambiamento climatico, non coglie proprio questo punto: Greta Thunberg non è
una ragazzina.
Greta Thunberg (oltre ad essere un individuo razionale, che merita di
essere preso in considerazione in quanto tale) è una narrazione, un simbolo e
un messaggio a fortissimo impatto “virale”.
Su questo punto il livello macrosociale e il livello microsociale non
possono essere separati: il singolo, riciclando la sua bottiglietta d’acqua,
ovviamente non salverà il mondo. Ma non lo farà neanche un apparato sociale,
economico e politico che – a livello globale – fino ad oggi ha fatto davvero
poco in questa direzione. Greta Thunberg possiede il potenziale per incarnare
una narrazione di raccordo tra singolo e collettivo: facendosi portavoce e
simbolo di un movimento d’opinione può creare pressioni sull’establishment politico
che non possono essere ignorate.
È in questo senso che va presa la sua presenza al vertice climatico delle
Nazioni Unite: non tanto nella direzione di una collusione con quei poteri,
quanto come un tentativo di addomesticamento, da parte di quei poteri, del
potenziale antisistemico del simbolo-Greta. Nelle parole chiare, ma al contempo
cariche di emozione e rabbia dell’attivista, già divenute iconiche (il suo “How
dare you?” ha le carte in regola per diventare uno slogan devastante dal punto
di vista mediatico), è racchiuso proprio questo potenziale: quello di non
lasciarsi addomesticare, da un lato, e di non poter essere ignorata,
dall’altro.
La rabbia di Greta, però, deve anche essere motivo di una riflessione che
prenda sul serio, fino in fondo, la sua proposta. Vorrei qui ricollegarmi al
primo punto che ho discusso, quando ho parlato dei suoi detrattori. Questi,
principalmente, fanno parte di coloro che si trovano a loro agio con quelle
narrazioni che non prevedono che una figura come la sua possa essere presa
seriamente come punto di riferimento. Se si dovessero identificare queste
persone, potremmo dire che esse sono le stesse che hanno contribuito
attivamente a costruire lo status quo in cui ci muoviamo a
livello economico e sociopolitico, ossia coloro che hanno strutturato il mondo,
potremmo dire, precrisi.
Rispetto ad essi, quanto meno nella frazione occidentale e occidentalizzata
del pianeta, sono le nuove generazioni che hanno ricevuto un’educazione
mediamente sensibile nei confronti delle questioni di genere e ambientali, e
per cui modelli alternativi al consumismo imperante nei decenni 1980-2000 sono
diventati parte integrante dei frame di riferimento.
Il messaggio di Greta si rivolge a queste giovani persone, per lo
più.
Greta non invita tanto noi a riciclare, quanto i suoi coetanei a rivoltarsi
contro le generazioni che hanno creato il sistema sociale, politico ed
economico attuale. Il vivere il presente come imperativo, il benessere a breve
e medio termine, riforme concrete, tangibili e non pianificazioni
pluridecennali sono stati i diktat politici degli stati
nazionali dopo gli eccessi “futuristi” delle ideologie del secolo scorso,
quelle pensate per “durare mille anni”.
Questa strategia del consumo a breve termine ha portato, però, al rapido
esaurimento dei beni planetari, ai fini di un godimento qui ed ora, dove ormai
il “qui” e l’“ora” cominciano a venire meno. Greta, rispetto a questo status
quo, invoca, invece, una vita anche per la propria generazione, che vada al
di là delle oscure previsioni scientifiche attuali sui mutamenti climatici e
sul loro impatto sulla sopravvivenza delle specie attualmente esistenti sul
pianeta Terra, uomo compreso. Un pensiero futuristico, “utopico” in senso puro,
in quanto immagina un luogo che non c’è per la sua generazione, a cui quelle
precedenti hanno (letteralmente) “mangiato” il pianeta. In questa visione è
implicita una lotta generazionale: visto che le generazioni precedenti non
hanno badato a quelle future, queste ultime devono costringere i propri “padri”
a cambiare direzione, a occuparsi dei loro figli, assicurando loro una vita. I
modi di questa “costrizione” non sono totalmente chiari: la rabbia di Greta
espressa di fronte alle telecamere – “We will never forgive you”, “Non vi perdoneremo
mai” – può essere una molla emozionale forte, che porti alla mobilitazione
molte persone, talmente tante da non poter essere più ignorate dalle
autorità.
Ma può essere anche una molla esplosiva: se la questione diventa salvare la
propria vita, il patto tra generazioni che Greta invita a rispettare potrebbe
prendere anche i contorni inquietanti di una guerra tra generazioni.
Tra la visione del mondo propugnata dalla svedese e quella delle
generazioni precedenti, infatti, non c’è, al fondo, nessun punto d’accordo
possibile: questi ultimi non credono nel futuro, ma solo nel presente, e vivono
senza domani, in un orizzonte senza trascendenza, fatto di un assoluto
presentismo. La sfida che porta il nome di Greta, invece, consiste nella
polarizzazione delle nuove generazioni sul versante opposto: credere in un
mondo non presente, nell’umanità da preservare come specie piuttosto che negli
esseri umani concreti, di cui occuparsi con politiche immediate.
Si tratta di decidere, in questo senso, tra due prospettive: la prima,
quella di Greta, è una prospettiva radicalmente “umanista”. Essa vuole
preservare la specie umana, considerandola un valore in sé, proponendo un
radicale cambiamento dei costumi – nel senso di una riduzione drastica – da
sopportare per l’umanità attuale. La seconda è quella propugnata dalle
politiche statali attuali, che considerano prioritario il benessere qui ed ora
degli uomini esistenti, e solo un valore secondario la possibile esistenza a
lungo termine di esseri umani della specie sapiens.
In tutto questo, la retorica che investe il pianeta e la sua salvazione, è
solo un fattore accessorio, dal mero valore propagandistico: il pianeta, in
ogni caso, sopravviverà. Quello che potrebbe morire è la biosfera che rende
possibile la vita così come la conosciamo, specie umana inclusa. L’alternativa
è tra essere gli ultimi uomini a vivere secondo standard di benessere
individuale impensabili per gran parte della storia della civilizzazione (con
le dovute – enormi – differenze regionali, naturalmente) o essere i primi a
intraprendere politiche concrete e radicali in favore di esseri umani non
ancora nati.
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