Nuovo esecutivo, nuova politica: nel segno della discontinuità. Questo lo
slogan con cui, dall’inizio della crisi estiva ad oggi, il nuovo governo chiede
legittimazione di fronte all’opinione pubblica.
Le intenzioni in tema di politica scolastica non hanno tardato ad arrivare:
è parso quanto mai singolare ascoltare, tra i punti toccati nelle dichiarazioni
del presidente del Consiglio Conte, insieme agli ormai consueti temi della
carenza di finanziamenti, riorganizzazione del reclutamento e superamento del
precariato, anche la necessità di intervenire sulla didattica degli
insegnanti.
“Le nostre scuole devono diventare dei luoghi di apprendimento dove
il come imparare è più importante del cosa imparare [..]”,
ha affermato il presidente del
Consiglio uscente Conte al Senato il 20 agosto.
“Per la scuola occorre migliorare la didattica [..]” ha ribadito il presidente
del Consiglio ri-entrante Conte, il 9 settembre.
Lo stesso neoministro Fioramonti, nel suo primo incontro con i Sindacati,
il 17 Settembre, ha ripreso l’argomento: “per
innovare e per fare una didattica innovativa, oggi la Scuola non ha
a disposizione risorse sufficienti”.
Che il concetto di “discontinuità” lo si valuti rispetto al ministero
Giannini-Fedeli o rispetto a quello Bussetti, poco cambia: sulla scuola
sembra si voglia procedere col pilota automatico, portando a compimento un
disegno di riforma di lunga incubazione, che la Buona Scuola ha avuto il merito
di rendere complessivamente riconoscibile nella sua coerenza. In sintesi:
scardinare definitivamente ciò che resta della scuola democratica, della
sua organizzazione, delle sue finalità formative e delle sue fondamenta
politico-civili, per dare ancora più spazio ad un’idea di scuola al servizio della
riproduzione sociale e culturale. Ecco che per far questo è
necessario superare definitivamente la resistenza degli insegnanti:
quanto meno di quelli che il Miur definiva in un rapporto del 2017 “professionisti
di vecchia data ancora convinti che il titolo di studio non solo serva, ma sia
un valore”.
Che gli esecutivi Conte – sia il primo, che il secondo – si accingessero a
segnare un’inversione di tendenza è parso immediatamente poco credibile; a ben
vedere la volontà politica è sembrata (e sembra ancora) essere quella di
attuare interventi di piccola bottega, “pacchetti di Buona Scuola” disorganici
e solo all’apparenza difformi dall’impianto originario, camuffati ma non meno
regressivi. Si pensi alla riforma dell’Esame di Stato o alla legge
sull’Educazione Civica che ha ricevuto parere negativo dal Consiglio
Superiore della Pubblica Istruzione. Entrambi i provvedimenti, dal punto di
vista delle finalità culturali e formative, sono perfettamente coerenti con
l’impianto della riforma Renzi: l’interdisciplinarietà
coatta del colloquio del nuovo esame e l’estromissione della
storia, le certificazioni di
competenze degli studenti a firma INVALSI – con il progressivo smantellamento
del valore delle credenziali educative pubbliche – il guazzabuglio dell’educazione
civica-digitale-ambientale-alla legalità-alla sicurezza, rigorosamente senza
oneri per lo Stato; ancora: l’enfasi sul raccordo scuola e territorio, il perenne richiamo
ad un’impostazione didattica fondata sul dominio delle competenze, punto centrale di
un’idea di scuola che vede entusiasticamente concordi Fondazione Agnelli, INVALSI, Associazione Nazionale
Presidi.
Che sia in atto un tentativo decisivo di imporre in via definitiva la “cultura della Buona
Scuola” traspare da tutta una pubblicistica recente, che ne riporta all’attualità
temi e contenuti tra i più retrivi, con l’intento sottile (almeno per chi non
lo sappia intendere) di convincere in merito al carattere progressista delle
spinte riformatrici, contraddicendo i più elementari principi di realtà. Una
strategia usuale da parte di una certa sinistra “neoliberista”, decisa a
mostrare come interventi regressivi, p.es. il Jobs Act, siano di
effettivamente di sinistra. Vediamo alcuni dei documenti a cui
facciamo riferimento.
L’idea di Scuola che mette d’accordo
tutti: l’Intergruppo della sussidiarietà
Il più significativo –in particolare per l’autorevolezza e la risonanza del
luogo di pubblicazione- è un appello apparso sul “Corriere della Sera” il 14 agosto 2019. In realtà si tratta
di un documento che si concepisce in perfetta continuità con un altro
scritto, pubblicato un anno
prima, dal titolo “Un nuovo patto (senza muri) sul bene comune”.
Come spesso accade, anche quando si è in presenza di contenuti
argomentativi di debole spessore intellettuale, un’analisi del testo
risulta in grado di smontarne l’artificiosità teorica e la prosa astrusa e
fumosa, smascherandone l’intenzione ideologica. L’appello dell’agosto
scorso ha la finalità dichiarata di stravolgere l’organizzazione
scolastica, incentrando il lavoro didattico non più sui contenuti di cultura
rappresentati dai diversi saperi disciplinari, bensì sull’«introduzione
della metodologia didattica delle non cognitive skills (amicalità,
coscienziosità, stabilità emotiva, apertura mentale)» e sul «superamento
di una visione solo cognitiva dell’apprendimento e facendo leva sull’educazione
della personalità e della consapevolezza dei ragazzi» per «contrastare
la loro disaffezione verso la scuola e migliorare la qualità del sistema
scolastico».
A ben vedere, l’argomento è sovrapponibile perfettamente alla sintesi fatta
in Senato dal Presidente Conte: le nostre scuole devono diventare dei
luoghi di apprendimento dove il come imparare è più importante
del cosa imparare.
E’ interessante notare come questi temi, che riprendono rozze
argomentazioni ritrovate nei diversi documenti ministeriali pubblicati a partire
dall’approvazione della Legge 107, siano nel caso in questione incorniciate da
un cenno introduttivo e da una conclusione che nulla c’entrano con la scuola,
ma che hanno lo scopo di far apparire in un’aurea falsamente progressista la
reale proposta che ne è il fondamento: quella di smantellare
l’autonomia della cultura e subordinarla alla logica e alla cultura d’impresa.
La parte iniziale accenna alla necessità di un cambiamento dovuto al nuovo
scenario internazionale, che obbliga il Paese a modificazioni profonde, quasi
sempre coincidenti con le decisioni riformatrici in tema di organizzazione del
lavoro, in linea con la svolta economica neo liberista. In chiusura, invece,
viene esaltata la dimensione comunitaria della personalità e della cittadinanza,
di contro a una diffusione sempre più massiccia dell’individualismo, come se
questo non fosse il frutto proprio delle recenti scelte politico-economiche.
Scelte ben concretizzate, nel caso della scuola, negli imperativi «crescere,
competere, correre», alla base di tutto l’impianto culturale della Buona
Scuola[1].
Non mancano poi i riferimenti al Sud, alla sussidiarietà, il riferimento ai
giovani, alla dispersione scolastica e alla «povertà educativa» cui
sarebbero soggetti. L’intenzione è chiara: addossare (in modo
insensato) sulla scuola la responsabilità dell’intera crisi economica ed
occupazionale, oramai strutturale, oltre che frutto di precise scelte di
politica economica, che in questi anni hanno coinvolto l’intera Unione
Europea. Nella parte conclusiva dell’appello, con un salto
logico rispetto a quanto appena esposto, si fa riferimento alla sostenibilità,
alla sfida ambientale, citando persino papa Francesco, senza che ci sia alcuna
relazione coerente con quanto scritto sopra; nel perfetto stile retorico
riformista che oggi va per la maggiore, pur totalmente decontestualizzato.
Tuttavia, oltre i contenuti, ciò che più inquieta sono i nomi
dei firmatari. Non tanto quelli di Maurizio Lupi, Mara Carfagna e Maria Stella
Gelmini, fino a Graziano Delrio, Luigi Marattin e Simona Malpezzi; quanto
quelli di Roberto Speranza di Liberi e Uguali, di Gabriele Toccafondi del
gruppo misto e di Paolo Lattanzio del Movimento 5 Stelle.
Si sigla, di fatto, un’alleanza contro la scuola democratica e
gli insegnanti che non lascia intravedere possibili alternative di
rappresentanza politica, se gli stessi docenti non riusciranno a mobilitarsi,
rifiutando quella che si configurerebbe come una definitiva
espropriazione di fatto delle loro prerogative professionali; per di più da
parte di esponenti che, nella quasi totalità, non sarebbero in grado di
affrontare alcun dibattito serio sulla scuola.
I 10 falsi luoghi comuni della scuola dell’Intergruppo
Richiamando quell’appello il documento sul bene comune di più ampio respiro
apparso nel 2018, presentato come manifesto dell’innovazione, e ora addirittura
testimonianza della discontinuità, vorremmo elencare brevemente 10 falsi luoghi
comuni in esso presenti, spacciati per evidenze scientifiche, per ciascuno dei
quali sono state da noi ampiamente espresse diverse argomentazioni in merito:
1.
la falsa contrapposizione tra una
concezione della didattica specialistica e settaria (quella
della discipline) cui si contrapporrebbe l’approccio «olistico» dei
riformatori. Il documento inizia significativamente con la frase “nessun uomo
(e nessun Paese) è un’isola”, proponendo una comparazione tra due dimensioni
incommensurabili, ovvero le dinamiche psico-cognitive e le relazioni
internazionali tra Stati;
2.
la priorità data in tema di istruzione alle
problematiche economiche, facendo della scuola la principale responsabile della
crisi della stessa economia, ribaltando evidentemente una relazione di causa e di
effetto;
3.
l’idea che la crisi economica sia dovuta non a fattori strutturali, a
scelte politiche dovute ai governi o alle istituzioni sovranazionali, bensì
alla mancanza del nostro paese di “capacità imprenditoriale”. Se ne deduce
che l’imprenditorialità diventa essa stessa un carattere
antropologico che va adeguatamente formato in ciascuno attraverso il processo
educativo, da configurare come costruzione di una soggettività ideologicamente
orientata, unica responsabile dei propri successi o fallimenti.
4.
un poco credibile e contraddittorio riferimento all’ “io
iper-individualista” che si vorrebbe combattere, laddove invece è proprio la
dimensione dell’imprenditorialità a configurarsi come concorrenza di tutti
contro tutti. L’appello alle appartenenze comunitarie non fa affatto
riferimento a quelle solidaristiche previste dalla Costituzione, ma alla logica
di gruppo e della lobby tipiche dell’impresa, dove la direzione del lavoro è
etero-diretta. La contraddizione sta poi nel fatto che lo stesso “io” viene
definito, in una concezione palesemente volontaristica, come soggetto
protagonista che ha “voglia di combattere” e che in questo modo “ricostruisce i
corpi intermedi”, con ciò forse auspicando il superamento di quell’
impostazione corporativa (in realtà per noi solidaristica) che li avrebbe
caratterizzati storicamente, per imporre la prevalenza delle specifiche
individualità. Ovviamente, per raggiungere questo traguardo, “serve un altro
io, diverso da quello contemporaneo”: c’è qui una volontà di riconfigurazione antropologica che, a nostro
parere, si manifesta come intrinsecamente totalitaria, in quanto al di là
di ogni finalità del processo di istruzione in una società democratica; una
volontà che intende totalmente conformare l’individuo all’ordine
socio-economico vigente, senza che abbia gli strumenti per metterlo in
discussione.
5.
l’affermazione di voler adottare un metodo della collaborazione e della
condivisione per quanto riguarda le decisioni, mentre invece la riforma
scolastica è avvenuta esautorando proprio
gli insegnanti da ogni processo decisionale, in nome di una retorica
pseudo-scientista che, a partire da presunte assunzioni di ordine
psico-cognitivo, pretende che i docenti “destrutturino le
proprie sinapsi”, diventando operatori docili di istruzioni decise da altri. Mai come in
questi anni i fautori delle riforme hanno agito nella assoluta indifferenza di
qualsiasi tesi contraria;
6.
la centralità delle imprese nella società
contemporanea e quindi il loro diritto a condizionare in modo decisivo il processo
didattico-formativo, in tutti gli ambiti in cui questo si svolge (di
programmazione, di decisione di metodi e contenuti e di valutazione);
7.
l’uso retorico, come elemento oggettivo probante, dei risultati
delle prove INVALSI, le cui criticità sono state più volte oggetto di
analisi di questo blog;
8.
l’affermazione, priva di ogni inferenza ragionevole a supporto, che
l’interazione educativa obblighi a considerare sullo stesso piano
istituti pubblici e privati;
9.
demagogico risulta anche l’accenno a una
condizione giovanile di alienazione (ludopatie, ecc.). Non ci si
interroga da quando, infatti, tale fenomeno ha iniziato a manifestare
un’ampiezza così preoccupante; né sulla sua relazione con una mentalità
orientata al consumo la cui ideologia di fondo è proprio quella sposata dal
documento; né sulla relazione con un’iper inflazione, di tendenza anche questa
per lo più consumistica, delle nuove tecnologie. In particolare gli smartphone
il cui uso si vorrebbe invasivo persino a scuola;
10. in ultimo, l’accenno
al “regionalismo differenziato”, come indispensabile per
“superare il fallimentare centralismo” e finalmente innovare. Viste le
dinamiche che hanno portato alla formazione del nuovo esecutivo, non è un caso
che questo accenno sia sparito dall’appello pubblicato sul Corriere della Sera.
Non per questo si tratta di uno scampato pericolo; nell’ambito dell’istruzione,
la regionalizzazione avrebbe permesso infatti di
creare le modalità organizzative più adatte per imporre la logica e la
didattica autoritarie previste dalla Buona Scuola.
Fuoco amico?
Si potrebbe probabilmente non esagerare l’importanza di tale gruppo per la
sussidiarietà, anche se la convergenza politica risulta inquietante: quasi una
sorta di patto, di modo che nessuno possa poi pensare di attrarre il bacino
elettorale rappresentato dagli insegnanti.
Ma insieme al documento dell’Intergruppo sono apparsi altri interventi
sulla scuola, particolarmente significativi nell’attuale fase politica. Si
tratta di documenti volti a convincere un’opinione pubblica di sinistra del
carattere progressista di azioni riformatrici le cui fondamenta ideologiche, di
stampo neoliberista, riteniamo appaiano invece evidenti. Se in fondo risulta di
poco spessore l’intervento sul portale di Micromega di Mila Spicola
– storica esponente del PD impegnata con l’allora sottosegretario
all’istruzione Davide Faraone a imporre il progetto della Buona Scuola-, poiché
la pretesa di far coincidere la scuola delle competenze e dell’alternanza
scuola lavoro con lo spirito del pensiero gramsciano non ha fondamento teorico,
testuale e intellettuale, più preoccupanti risultano invece le posizioni
espresse dagli esponenti sindacali Andrea Ranieri e
Francesco Sinopoli, FLC-CGIL, pubblicate su Il Manifesto del 4 settembre scorso.
Nel titolo si parla incredibilmente di «discontinuità» nella politica
scolastica, facendola però coincidere con il modello di scuola da anni difeso,
sostenuto, e parzialmente realizzato, proprio dalla Fondazione Agnelli o
dall’Associazione Nazionale Presidi. L’abbandono di una scuola orientata alla
valorizzazione umanistica della cultura, la didattica innovativa vengono
presentate come azioni di sinistra e di contrasto alle disuguaglianze: «E’
giunta l’ora di dirsi con chiarezza che un’istruzione che fa della
frammentazione disciplinare la ragione fondamentale della trasmissione del
sapere e della sua stessa organizzazione interna amplifica le disuguaglianze
fra chi a casa ha qualcuno in grado di aiutare i ragazzi a comporre un sapere
frammentario e chi la frammentazione la subisce»; ancora: la necessità di «una
didattica nuova, che rompa a tutti i livelli con l’individualismo docente”.
Queste affermazioni non possiedono alcuna logica o fondamento scientifico, ma
appaiono finalizzate a orientare l’azione del governo, quasi a fornire in
anticipo uno “scudo ideologico” rispetto a qualsiasi opposizione. Non un cenno
alla deriva misuratoria e valutativa che ha investito la scuola in questi
ultimi anni, alla gerarchizzazione interna e allo svuotamento di senso degli
organi collegiali – che hanno annientato proprio quella cooperazione tanto
declamata; non una parola sulla pervasività omologante dei dispositivi di
certificazione/ valutazione INVALSI, che addirittura si pretenderebbe di
arricchire con incredibili
misurazioni di soft skills. Un primo, vero segnale di discontinuità, a nostro
parere, avrebbe potuto essere rappresentato proprio da una sterzata sul tema
della valutazione (e certificazione) degli apprendimenti, tramite una messa in
discussione di tutta l’impalcatura del Sistema Nazionale di Valutazione
(vedi ricorso contro DPR
80/2013 portato avanti proprio dalla FLC in passato), in cui ruolo dominante
è svolto dall’istituto INVALSI.
Senza alcuna problematizzazione della complessità dell’attuale situazione
della nostra scuola – un’istituzione in perenne stato di ristrutturazione e di
riforma – senza alcun bilancio o valutazione seri, onesti e rigorosi
degli interventi frammentati e velleitariamente previsti a costo zero da oltre
20 anni, si punta unanimemente il dito contro gli insegnanti. Sono
loro, le loro lezioni, i loro giudizi soggettivi e la loro formazione
vetusta, la causa di disuguaglianze, abbandoni, dispersione e povertà
educativa. Eppure, appare ormai lampante quanto le spinte riformatrici
siano perfettamente in linea con le richieste del nuovo professionismo e
della cultura d’impresa di oggi.
“Il capitale umano 4.0”, come lo definiscono gli estensori del manifesto
della sussidiarietà, non ama profili solidamente definiti culturalmente; al
contrario, soggettività improntate alla massima disponibilità a farsi integrare
nell’organizzazione lavorativa. Largo alla scuola delle soft skills.
[1] SI veda documento La Buona Scuola, 2014, pag.
35: http://www.istruzione.it/allegati/2014/LA_BUONA_SCUOLA__Rapporto__3_settembre_2014.pdf
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