1. Il
Viminale non è più una succursale della sede della Lega e non arrivano più le
dirette facebook del ministro del’interno che spacciava fake-news a tutto
spiano contro le ONG, violando sistematicamente il diritto internazionale, e
declamando le cifre del calo degli sbarchi come un suo successo personale.
Mentre nel frattempo cresceva in modo esponenziale il numero delle vittime, da
calcolare in rapporto al crollo delle partenze verso l’Europa. In realtà il vero calo degli sbarchi si è verificato a
partire dal 2017, con Minniti al ministero dell’interno, esattamente
da quando sono andati a regime, e sono stati finanziati, gli accordi conclusi dal governo italiano dell’epoca
(a guida Renzi) con le milizie libiche e con la sedicente
guardia costiera “libica”, assistita e coordinata da assetti militari italiani
ed europei presenti in Libia e nel Mediterraneo centrale. Quando l’Italia ha contribuito a finanziare anche
milizie colluse con i trafficanti.
Cambia lo stile, ma non la sostanza. Adesso i primi provvedimenti adottati dal nuovo
governo si collocano nell’ambito delle misure già
predisposte con i decreti
sicurezza dal governo precedente, che il ministro dell’interno
Salvini non aveva saputo attuare perché troppo occupato a portare avanti la sua
personale guerra di propaganda contro le ONG che soccorrevano naufraghi in
acque internazionali, e a delegittimare i magistrati che indagavano su di lui.
Indagini che stanno continuando ancora oggi. All’inizio del suo mandato Salvini che parlava di “retorica delle torture nei centri libici”,
cercando in tutti i modi di intensificare i rapporti di collaborazione (e di
finanziamento) con le autorità di Tripoli e con le principali città, come Minniti in precedenza, che
aveva rinforzato la collaborazione con la guardia costiera di Tripoli e
Khoms, era andato personalmente in Libia per accertarsi
che la collaborazione con i miliziani libici e con il governo di Tripoli
consentisse di bloccare effettivamente le partenze e di aumentare le
intercettazioni in mare. Un proposito che strideva con la tutela che le Nazioni
Unite richiedevano per le persone intrappolate nei centri di detenzione, sempre
più esposti a torture ed a violenze di ogni genere. Anche quando sono fermati
da unità della sedicente guardia costiera libica che sono
fornite ed assistite dall’Italia.
Quanto
afferma adesso il ministro degli esteri Di Maio sulla istituzione di una “lista di paesi terzi sicuri”, in
modo da respingere più rapidamente le richieste di asilo, e quindi di
velocizzare le operazioni di rimpatrio con accompagnamento
forzato, che dovrebbero concludersi in un periodo inferiore a quattro mesi, costituisce un inquietante segnale di continuità con il
governo precedente e lascia prevedere una quantità incontrollabile
di ricorsi giurisdizionali. Si tratta infatti di una previsione già contenuta
nel primo decreto sicurezza imposto da Salvini nel mese di ottobre dello scorso
anno. Le procedure accelerate in
frontiera non possono violare i diritti fondamentali della persona. Dopo
gli eventuali dinieghi sulle richieste di asilo non si può procedere
automaticamente alle operazioni di allontanamento forzato e occorre comunque
verificare su base individuale e con i mezzi di ricorso già previsti dalle
direttive europee e dalle leggi italiane (oltre che dalla Costituzione) che le persone non siano rimpatriate verso paesi nei
quali possano comunque subire trattamenti inumani o degradanti. Il
rimpatrio delle persone appena soccorse in mare e trattenute negli hotpsot,
anche se ritenute “migranti economici”, è una colossale arma di distrazione di
massa, ma non avrà alcun impatto sui problemi della sicurezza e
dell’ordine pubblico. Non esiste
una emergenza sbarchi, come non esiste una emergenza legata alla criminalità degli
stranieri in Italia, che va contrastata con gli
strumenti già disponibili nella nostra legislazione, senza ricorrere a misure
eccezionali che avrebbero soltanto finalità elettorali. Non sfugge a nessuno
del resto la portata criminogena delle politiche della sicurezza messe
in atto dal governo giallo-verde.
Come al
solito, come è avvenuto con i governi precedenti, si
punta sulla propaganda di misure eclatanti di rimpatrio forzato, senza che
l’Italia abbia una effettiva capacità di trattenimento forzato e quindi di
accompagnamento in frontiera delle persone prive di uno status regolare di
soggiorno che si vorrebbero allontanare, e si considerano normali migranti
economici, ai quali peraltro non si garantisce nessuna possibilità di ingresso
legale. Persone che sono passate dall’inferno dei centri di detenzione in Libia,
e che dunque avrebbero almeno diritto alla protezione umanitaria, se il nuovo governo la ripristinasse per
rispetto dei principi costituzionali e in conformità ai prevalenti indirizzi
giurisprudenziali, fino alla malaugurata entrata in vigore del primo decreto sicurezza Salvini (adesso legge
n.132/2018) che aboliva l’istituto della protezione
umanitaria. Che sempre più spesso veniva riconosciuta ai migranti non solo per
la situazione nel proprio paese di origine ma per le violenze subite nel loro
transito, spesso durato anni di prigionia, in Libia.
Sono queste persone, del Bangladesh o del Senegal, del Marocco o del Ghana, che
continuano ad arrivare portando sul loro corpo segni di torture indelebili. La Libia non è e non sarà per lungo tempo un “paese
terzo sicuro”.
Colpisce
anche che, nel giorno in cui vengono riportati alla luce i torbidi retroscena che nel 2017 portarono alle intese
con le milizie libiche e la guardia costiera tripolina, che
poi furono e sono ancora oggi alla base della guerra contro le ONG e dei respingimenti collettivi delegati ai libici, si
cerchi di deviare l’opinione pubblica su misure di rimpatrio forzato che, anche a fronte delle minime
coperture finanziarie, rimarranno
ancora una volta sulla carta.
Un’inchiesta esclusiva di Avvenire mostra come nella
trattativa Italia-Libia aperta
nel 2017 per fermate i flussi migratori verso il nostro Paese i funzionari del governo italiano abbiano trattato anche
con un pericoloso criminale, che già l’Onu aveva indicato come un boss mafioso
libico, e trafficante di esseri umani, di base a Zawia.
E se la
centrale dei traffici era ormai trasferita da Zuwara a Zawia, restano tutti da
chiarire i risvolti dell’inchiesta “Dirty Oil” che
vedeva al suo centro i contrabbandieri di petrolio di Zawia che commerciavano con mafiosi maltesi e siciliani. Tutti
adesso ritornati liberi. Chi controllava il traffico di esseri umani a Zawia
non poteva che controllare anche il traffico di petrolio, proveniente
dalla grande raffineria dell’ENI e della società libica statale NOC, tuttora
operante in quella città, proprio a ridosso del porto e del centro di
detenzione dove la sedicente guardia costiera libica riporta i naufraghi
intercettati in mare.
Non
sorprende quindi che i successivi richiami delle Nazioni Unite all’Italia, e
agli altri governi europei coinvolti nelle operazioni di contrasto
dell’immigrazione “illegale” nel Mediterraneo centrale, in appoggio alla
sedicente guardia costiera libica, siano rimasti senza risposta, mentre il numero delle vittime, rispetto al calo delle
partenze, cresceva in modo esponenziale.
2. Le
garanzie procedurali dello stato democratico in favore delle persone private
della libertà personale, o che abbiano comunque manifestato la volontà di
richiedere protezione, se si vuole restare nel solco della sentenza della Corte Costituzionale n.105 del 2001 in
materia di detenzione amministrativa e rimpatri forzati, non consentiranno
espulsioni o respingimenti eseguibili in quattro mesi, a meno di non introdurre
norme che sarebbero immediatamente impugnate, non appena applicate, davanti la
stessa Corte Costituzionale.
Come
osservava allora la Corte Costituzionale, in materia di espulsione con
accompagnamento forzato, “Per quanto gli interessi pubblici incidenti sulla
materia della immigrazione siano molteplici e per quanto possano essere
percepiti come gravi i problemi di sicurezza e di ordine pubblico connessi a
flussi migratori incontrollati, non può risultarne minimamente scalfito il
carattere universale della libertà
personale, che, al pari degli altri diritti che la Costituzione proclama
inviolabili, spetta ai singoli non in quanto partecipi di una determinata
comunità politica, ma in quanto esseri umani”.
Come abbiamo
scritto quindi in materia di immigrazione ed asilo, al di là dei diversi toni
propagandistici, e dell’assunzione di provvedimenti apertamente contra
legem, come i divieti di ingresso nelle acque territoriali adottati da
Salvini, si riscontra una totale
continuità, che continua a mietere vittime tra i migranti, non solo in mare, ma
anche a terra, in Libia e poi in Italia. Continuità che nella sostanza
caratterizza anche la politica estera basata sul principio della “condizionalità migratoria”, di fatto
sul ricatto, che le economie più forte impongono ai paesi di origine e transito
perché collaborino nelle politiche di esternalizzazione e assumano il ruolo
di gendarmi dei confini europei, offrendo
anche la massima disponibilità a riprendersi i migranti che sono partiti o
transitati sui loro territori. Anche se in quei territori si incrociano le vie
dei trafficanti e di coloro che dovrebbero sorvegliare le frontiere. Per questa
ragione gli articoli del decreto
sicurezza bis in materia di divieti di ingresso nelle acque territoriali e di
sanzioni per i comandanti e le ONG che non riconsegnano i naufraghi alla
sedicente guardia costiera “libica”, in quanto titolare della vasta zona
SAR “libica” inventata nel giugno del 2018, andrebbero immediatamente abrogati.
Le navi delle ONG dissequestrate dalla magistratura ma ancora sottoposte a fermo amministrativo su disposizione dei prefetti, e
quindi del Viminale, devono essere liberate al più presto e tornare alle loro
missioni di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo centrale. Sono centinaia i migranti morti o dispersi in mare in
queste ultime settimane in cui si è rarefatta la presenza delle ONG.
Il Tribunale di Agrigento, con l’ordinanza del 2 luglio
2019 che ha negato la convalida degli arresti di Carola Rackete, ha riaffermato
il principio di legalità, restituendo dignità al diritto
internazionale e ai diritti umani, nel quadro normativo delineato dalla nostra
Carta costituzionale. Le motivazioni addotte dal
Giudice per le indagini preliminari di Agrigento chiariscono che il soccorso in acque internazionali va distinto dal
trasporto di clandestini, al contrario di quanto sostenuto
dal ministro dell’interno. L’ordinanza del Gip di Agrigento afferma
anche che il cd. decreto sicurezza bis non è applicabile alle ONG che hanno
salvato vite umane in alto mare. Ed invece oggi si insiste ancora in quella
direzione.
Il giudice, in sostanza, ritiene inapplicabile il decreto sicurezza bis: “Ritiene questo giudice che
nessuna idoneità a comprimere gli obblighi gravanti sul capitano della Sea
Watch 3, oltre che delle autorità nazionali, potevano rivestire le
direttive ministeriali in materia di ‘porti chiusi’ o il provvedimento del
ministro degli Interni di concerto con il ministero della Difesa e delle
Infrastrutture che faceva divieto di ingresso, transito e sosta alla nave, nel
mare nazionale, trattandosi peraltro solo di divieto sanzionato da sanzione
amministrativa”…. Il dovere di
soccorso dei naufraghi” non si esaurisce con la mera presa a bordo dei
naufraghi, ma nella loro conduzione al porto sicuro più vicino”.
Si tratta di
una pronuncia importante, che non chiude
però la fase di criminalizzazione delle attività umanitarie in favore dei
migranti in fuga dalla Libia, perché nel senso comune degli italiani sembra
prevalere il capovolgimento del principio di realtà e la negazione dello stato
di diritto. La
procura della Repubblica ha poi negato l’autorizzazione richiesta dal prefetto
di Agrigento che ha adottato un decreto di espulsione della
comandante Carola Rackete,
come ordinato dal ministro dell’interno.
Va rilevato
come anche il procuratore di Agrigento, nel corso di una
audizione in Parlamento, abbia ribadito come la Libia non
garantisca porti sicuri di sbarco e come dunque non siano legittimi gli ordini
di riconsegna dei naufraghi alla sedicente guardia costiera libica. Lo stesso procuratore ha poi escluso qualsiasi
coinvolgimento delle ONG nel traffico di migranti. Il
ministro dell’interno rinnova invece i suoi attacchi contro gli operatori
umanitari accusati di collusione con i trafficanti. Salvini non può continuare
ad aizzare i suoi sostenitori contro gli operatori umanitari e i cittadini
solidali, e non può svolgere le sue funzioni pubbliche diffamando le Organizzazioni non governative che
operano soccorsi in mare e salvano vite umane.
L’ordinanza del giudice di Agrigento rende giustizia all’operato della
comandante della Sea Watch 3 e sconfessa, sulla base delle prove
raccolte, le accuse lanciate dal ministro dell’interno e solo in parte
recepite dal procuratore della Repubblica di Agrigento.
L’Unione Europea sembra invece continuare a procedere
nella medesima direzione già seguita negli ultimi anni, con le prassi di ritiro
delle navi di FRONTEX ed EUNAVFOR MED e la politica
dell’abbandono in mare dopo gli avvistamenti aerei. In materia di rimpatri si
prospetta una nuova Direttiva (rifusione) che dovrebbe
sostituire la precedente Direttiva sui rimpatri n.2008/115 prevedendo
anche la possibilità di rimpatriare i minori non accompagnati, anche in assenza
della individuazione del nucleo familiare di appartenenza. Anche le garanzie
procedurali stabilite in favore delle persone soggette a una misura di
rimpatrio forzato verranno drasticamente ridimensionate. Anche in questo caso
si tratta di misure propagandistiche perché nessun paese europeo, e tanto meno l’Unione Europea,
potranno mai allontanare centinaia di miglia di persone condannate alla
irregolarità dalla riduzione delle possibilità di
protezione internazionale e umanitaria e dall’assenza di canali legali di
ingresso per i migranti economici.
Gli unici
veri segni di discontinuità che i governi dovrebbero dare per non alimentare
ancora di più una contrapposizione violenta tra autoctoni residenti e nuovi
arrivati sarebbero costituiti dalla sospensione degli accordi con i paesi che non rispettano i diritti umani e
dall’apertura di canali legali di
ingresso tanto per potenziali richiedenti protezione quanto per i
cosiddetti migranti economici, con un regime permanente di regolarizzazione per
emersione lavorativa. Sarebbe questo l’unico strumento per ridurre davvero la
“clandestinità”. Che probabilmente conviene ancora a troppi, sia per lo
sfruttamento che consente sui lavoratori, che per la propaganda che permette a
quanti confondono la materia dell’immigrazione con i temi della sicurezza e
della difesa dei confini.
(Questo
articolo è già stato anche pubblicato sul blog di Adif.)
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