mercoledì 23 ottobre 2019

Le prime 200 multinazionali - Francesco Gesualdi



Per il decimo anno consecutivo Wal-Mart mantiene il primo posto, per fatturato, nella graduatoria mondiale delle multinazionali. Lo rende noto Top 200, edizione 2019, il dossier curato dal Centro Nuovo Modello di Sviluppo sulle prime 200 multinazionali del mondo. Wal Mart è la più grande catena di supermercati: 11.200 in tutto il mondo sparsi nei cinque continenti. Con 2 milioni e 200mila dipendenti, di cui 1 milione e mezzo negli Stati Uniti, Wal-Mart è anche ai primi posti in termini di multe per violazione dei diritti dei lavoratori. Dal 2000 ad oggi, solo negli Stati Uniti, ha collezionato multe per un miliardo e mezzo di dollari.
Al 13° posto della graduatoria delle multinazionali, troviamo un’altra impresa del commercio, che benché più piccola è senz’altro più nota in Europa. Si tratta di Amazon, il cui patron, Jeff Bezos, per il secondo anno consecutivo si è collocato al primo posto della graduatoria stilata da Forbes sulle persone più ricche della terra. E neanche lui passa per essere un buon datore di lavoro. Nichole Gracely, una giovane statunitense che ha lavorato vari mesi come stagionale in un centro logistico di Amazon, ha detto che è meglio essere disoccupata e senza casa piuttosto che lavorare alle dipendenze di Amazon. 
Non sappiamo come se la cavino i lavoratori delle altre catene commerciali, ma di sicuro sappiamo che i supermercati costituiscono il gruppo di imprese più numerose fra le top 200: ben 35 per un fatturato complessivo di 4 mila miliardi di dollari e 11 milioni di dipendenti. Solo il settore energetico (le terribili multinazionali del petrolio) riesce ad andare più su con un fatturato complessivo di 4.192 miliardi. Ma al terzo posto troviamo le imprese finanziarie a confermare come banche, assicurazioni e fondi di investimenti rappresentino la spina dorsale del capitalismo moderno.

Ed è proprio a questi soggetti che Top 200 riserva alcuni approfondimenti. In particolare “Banche sporche di catrame”, richiamandosi alla ricerca condotta da Banking on climate change, mette in evidenza che dal 2015, anno in cui venne firmato l’accordo di Parigi, le principali 33 banche mondiali hanno im­pegnato il 7% di risorse in più a vantaggio delle imprese che estrag­gono combustibili fossili. Poi non c’è da stupirsi se le emissioni di anidride carbonica hanno continuato a crescere:  del 1,6% nel 2017 e del 2,7% nel 2018.  Al primo posto per finanziamenti concessi c’è JPMorgan Chase, la banca internazionale guidata da Jamie Dimon, anche presidente della Business Roundtable che nell’agosto 2019 ha fatto credere al mondo che d’ora in avanti il capitalismo terrà conto degli interessi sociali e ambientali, non dei profitti degli azionisti.
E sempre parlando di finanza, un altro servizio si concentra sulle banche con l’elmetto, quelle, cioè, che sostengono le imprese di armi. Fra le banche europee al secondo posto troviamo Unicredit con 4 miliardi di finanziamenti, superata solo da Lloyds Bank. Fra i clienti di Unicredit c’è Northrop Grumman, che è coinvolta nella produ­zione di armi nucleari. Fra i clienti di Lloyds, c’è General Dynamics, anch’essa coinvolta nella produzione di armi nucleari e fornitrice di armi a Egitto e Arabia Saudita. Armi controverse inviate a paesi controversi, laddove per armi controverse si intendono sia quelle illegali che quelle che provocano effetti indiscriminati e sproporzionati. Sotto questa categoria sono ricondotte le armi nucleari, le mine antiuomo, le armi incendiarie. Per paesi controversi si intendono quelli autoritari con un basso tasso di libertà e rispetto per i diritti umani. Un’ulteriore dimostrazione che, al di là delle politiche d’immagine, pur di fare soldi le imprese non si fanno scrupolo a finanziare operazioni di morte e di aggressione contro le persone e la natura. Solo la vigilanza e l’agire critico potranno salvarci.


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