mercoledì 31 luglio 2019

Brasile: assassinato dai garimpeiros un capo Wajãpi. Onu: «sintomo inquietante dell’invasione delle terre autoctone»



La Fundação Nacional do Índio (Funai) ha confermato la morte, il 23 luglio, del cacique Emyra Wajãpi, torturato e assassinato vicino al villaggio di Mariry, dopo l’invasione da parte di un gruppo di garimpeiros (cercatori d’oro abusivi) della Terra Indígena Wajãpi (TIW), nello Stato Brasiliano settentrionale dell’Amapá, al confine colla Guyana Francese.
Cosa è successo lo spiega Conselho das Aldeias Wajãpi  che fa parte dell’Articulação dos Povos e Organizações Indígenas do Amapá e Norte do Pará (Apina): «Lunedì 22 luglio, nel tardo pomeriggio, il capo  Emyra Wajãpi è stato ucciso in modo violento nella regione del suo villaggio di Waseity, vicino al villaggio di Mariry. La morte non ha avuto nessun testimone ed è stata notata e la sua notizia è stata diffusa in tutti i villaggi solo la mattina successiva (martedì 23). Nei giorni seguenti, i parenti hanno esaminato il sito e hanno trovato tracce e altri segni del fatto che la morte era stata causata da persone non indios provenienti dall’esterno della Terra Indigena. Venerdì 26, i Wajãpi del villaggio di Yvytoto, nella stessa regione, hanno trovato un gruppo di non indios armati alla periferia del villaggio e hanno trasmesso l’allarme via radio gli altri villaggi. Di notte, gli invasori sono entrati nel villaggio e si sono stabiliti in una delle case, minacciando gli abitanti del villaggio. Il giorno successivo, i residenti di Yvytotõ sono fuggiti per la paura in un altro villaggio della stessa regione (villaggio dei Mariry). La del 26  abbiamo informato Funai e il MPF (Ministério Público Federal ndr) dell’invasione e abbiamo chiesto alla PF (Policia Federal, ndr) di attivarsi. All’alba da venerdì a sabato, i residenti del villaggio di Karapijuty hanno visto un invasore vicino al loro villaggio. Sabato 27 abbiamo iniziato a diffondere la notizia ai nostri alleati nel tentativo di accelerare l’arrivo della polizia federale. Un gruppo di guerrieri Wajãpi di altre regioni della Terra indigena si è recato ella regione del Mariry per sostenere gli abitanti fino all’arrivo della polizia federale. Il 27 pomeriggio, i rappresentanti di Funai sono arrivati nella TIW e sono andati nel villaggio di Jakare per intervistare i parenti del capo morto che erano andati lì. I rappresentanti Funai sono tornati a Macapá per convocare la polizia federale. I guerrieri Wajãpi hanno fatto la guardia vicino alla posizione degli invasori e nei villaggi mentre uscivano dalla Terra Indigena. Di notte, si sono uditi degli spari nella zona del villaggio di Jakare vicino alla BR 210, dove non c’erano Wajãpi. Il 28 mattina un gruppo di poliziotti federali e del BOPE ((Batalhão de Operações Policiais Especiais, ndr) è arrivato nella a TIW e si è diretto verso la scena del crimine per arrestare gli invasori».
Secondo alcune testimonianze, decine di garimpeiros sono entrati nella riserva protetta del popolo Wajãpi proprio per catturare e torturare il loro cacique. Con una nota  la Coordenação das Organizações Indígenas da Amazônia Brasileira (Coiab) e le sue  organizzazioni di base a livello statale, regionale e locale, in particolare l’Apina, esprimono pubblicamente «Piena solidarietà e sostegno agli indigeni Waiãpi, visti i recenti eventi di invasione del loro territorio da parte dei garimpeiros, esprimendo al contempo il nostro profondo e a e veemente ripudio verso questo tipo di azione, che è stata particolarmente incoraggiata dalle posizioni intransigenti, irresponsabili, autoritarie, preconcette, arroganti e irrispettose dell’attuale governo, in particolare del Presidente della Repubblica, soprattutto verso i diritti territoriali già garantiti nelle terre indigene completamente demarcate regolarizzate alla luce della Costituzione federale del 1988 e che questo governo ha costantemente cercato di rottamare».
Un omicidio efferato che ha fatto indignare anche l’Alto commissario per i diritti umani dell’Onu, l’ex presidente socialista del Cile Michelle Bachelet, che ha sottolineato: «L’assassinio di Emrya Wajãpi, capo del popolo autoctono Wajãpi, è tragico e condannabile in sé. Ma l’assassinio del cacique Wajãpi è un sintomo inquietante del problema dell’invasione delle terre autoctone – in particolare le foreste –  da parte di minatori, dei taglialegna e degli agricoltori del Brasile».
La Bachelet tira in causa direttamente il presidente neofascista brasiliano Jair Bolsonaro: «La politica proposta dal governo brasiliano per aprire ancora di più delle aree dell’Amazzonia allo sfruttamento minerario potrebbe provocare degli incidenti violenti, delle intimidazioni e omicidi simili a quelli inflitti al popolo Wajãpi la settimana scorsa. E’ essenziale che le autorità reagiscano rapidamente ed efficacemente per indagare su questo incidente e tradurre di fronte alla giustizia tutti i presunti responsabili, in piena conformità con la legge. Inoltre, devono essere prese delle misure efficaci per salvare la vita e l’integrità fisica dei Wajãpi, in particolare per la protezione del loro territorio da parte delle autorità».
L’Onu ribadisce che «La protezione dei popoli autoctoni e della terra sulla quale vivono rimane una questione importante, non solo per il Brasile ma per tutto il mondo» e la Bachelet aggiunge: «Benché siano stati realizzati dei progressi in questi ultimi anni, abbiamo ugualmente constatato una debole applicazione delle leggi e delle politiche esistenti e, in alcuni casi, lo smantellamento dei quadri istituzionali ambientali e autoctoni esistenti, questo sembra essere adesso il caso del Brasile».
Per questo l’Alto responsabile per i diritti umani dell’Onu ha esortato il governo di destra di Brasilia a «prendere delle misure decisive per mettere fine all’invasione dei territori autoctoni e garantire l’esercizio pacifico da parte dei popoli autoctoni dei loro diritti collettivi sulle loro terre. Quando I popoli autoctoni vengono espulsi dalle loro terre, non si tratta unicamente di un problema economico. Come indica chiaramente la Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli autoctoni, questo riguarda il loro modo di vivere. Chiedo al governo brasiliano di rivedere la sua politica riguardo ai popoli autoctoni, per fare in modo che la morte di Emrya Wajãpi non annunci una nuova ondata di violenza mirante a terrorizzare le popolazioni nelle loro terre ancestrali e a permettere la distruzione della foresta tropicale».
La Bachelet ha concluso ricordando, «le conseguenze scientificamente provate della distruzione dell’Amazzonia sull’esacerbazione del cambiamento climatico».
da qui

ricordo di Raffaele Pisu



martedì 30 luglio 2019

Lettera a un bambino mai nato - Loris Terrafino




Durante le scorse settimane ho avuto la grande possibilità di compiere un viaggio che, malgrado la mia giovane età, mi ha permesso di approfondire la storia di un popolo oppresso da decenni: quello palestinese.
In modo particolare, penso a te, piccolo bambino, anima pura, di cui mi è stato narrato. In modo particolare penso a te, bambino mai nato, morto per l’idiozia dell’animo umano, per la sua cattiveria. Morto ad un cancello, attendendo (invano) che a tua madre fosse concesso di attraversare un grigio e stupido muro per recarsi in ospedale e darti alla luce.
Voglio dunque raccontarti, anima candida, a quale triste realtà avresti assistito se,almeno per un breve lasso di tempo, per un istante, fossi nato. Avresti conosciuto la storia di Aida, il campo profughi più esposto del mondo ai lacrimogeni che, fin dal 1950, dopo che Israele ha bandito dalle proprie case gli abitanti di 531 villaggi, vede migliaia di persone vivere in condizioni precarie: prima nelle tende, senza né acqua né energia elettrica, e poi in piccole unità abitative di 3 metri quadrati con i bagni in comune.
Sapresti poi che qui l’accesso all’acqua è limitatissimo: 6 ore di tempo per riempire le cisterne familiari ogni due settimane; e che la corrente elettrica spesso manca per guasti agli impianti creati in modo amatoriale. Avresti poi saputo che nei pressi di Betlemme c’è un altro campo fondato nel 1949, Dheisheh, e che quest’ultimo è stato fino a pochi anni fa un vero e proprio “carcere a cielo aperto” per i suoi 3.000 abitanti,con tanto di cancello chiuso tra le 21 e le 6.
Sicuramente ti sarebbe stata nota la storia della città di Nablus, una delle più antiche della Cisgiordania e del mondo intero, fondata circa 7.000 anni fa. Avresti dunque saputo che nel 2002 questa bellissima città è stata circondata da molti carri armati che, sotto le direttive del primo ministro Ariel Sharon, responsabile anche di passati conflitti in Libano, hanno spinto i cittadini nella parte vecchia della città. In 12 giorni i morti sono stati 130 e moltissimi i feriti. Molti uomini nella fascia d’età tra i 15 ed i 50 anni sono stati ammanettati, bendati e deportati in campi militari dove sono stati sottoposti ad abusi. Tutto questo con lo scopo di spezzare la loro dignità, fulcro della resistenza, unica possibilità di salvezza per un popolo abbandonato a se stesso.
Ma le storie che avresti sentito sarebbero state moltissime, e tutte molto simili: quella del villaggio di Bardalah, abitato da 1600 persone che vivono per lo più di agricoltura e che ogni giorno si trovano a convivere con il problema della carenza idrica; quella di Hebron, città più grande della Cisgiordania che è letteralmente divisa da colonie israeliane. I quattro insediamenti che vantano 1500 soldati a protezione dei 600 coloni sono in una situazione di perenne tensione; questo perché gli israeliani che occupano la parte alta della città gettano acido, urine, materassi e ogni sorta di oggetto possibile e immaginabile sui palestinesi che vivono nella città vecchia sottostante, causando frequenti e pericolosi conflitti.
Tutto ciò che ho finora narrato non è però, purtroppo, che una parte millesimale di ciò che accade ogni giorno in questa terra che da decenni è dilaniata dai conflitti, dalle bombe, dai proiettili, dal sangue, dalla morte e dalle lacrime. E tutto questo per quale motivo? Per una questione di principio, per l’ennesima “guerra giusta”, come amano definirla.
Ma una guerra non potrà mai essere giusta finché ci saranno vittime innocenti, una guerra non potrà mai essere giusta finché ci saranno madri che piangono i figli o figli che piangono le madri, una guerra non potrà mai essere giusta finché qualcuno perderà la propria casa, rifugio da una vita già abbastanza dolorosa e difficile. Una guerra non potrà mai essere giusta, mai.

Perché puniamo i migranti che arrivano con le ONG – Remo Bassetti




Il divieto imposto alle navi che raccolgono migranti di attraccare nei porti italiani è una norma particolare che ha molti punti di contatto con l’applicazione di una pena. Formalmente non vi è un divieto e tanto meno una pena: si tratta di una disciplina di amministrazione del territorio, che ha a che vedere con l’ordine pubblico e la difesa dei confini.
Il numero risibile delle persone coinvolte negli ultimi episodi rende però del tutto sproporzionato il richiamo di queste materie. Non sono eserciti quelli che stanno approdando sulle coste, e sarebbe avvilente immaginare che lo stato non abbia la capacità di mantenere l’ordine pubblico se sul suolo circolassero, insieme ai 55 milioni di abitanti, un’altra cinquantina di soggetti, la metà dei quali innocui per ragioni fisiche e anagrafiche.
Oltre tutto, se quello fosse il problema ci sarebbero altri modi per gestire la situazione: si potrebbe offrire un soccorso temporaneo a quelle decine di persone, un ristoro. Una metafora usata di frequente è quella delle persone che vogliono venire a casa nostra. Ma se alla porta di casa bussasse qualcuno che ha appena avuto un incidente d’auto ed è malconcio, anche se ci venisse da pensare ma chi te l’ha fatto fare di ficcarti in macchina con questo tempaccio, gli daremmo un bicchiere d’acqua, gli diremmo siediti un attimo. Mi rendo conto che, nel caso dei migranti la legge non rende così agevole sbarazzarsene una volta esauriti i doveri essenziali dell’ospitalità. Ma, a parte il fatto che una metafora non la si può liquidare nel preciso momento in cui diventa scomoda, non è tanto normale (né in linea con l’ordinamento internazionale) neppure che uno stato chiuda i porti. Decreto per decreto, quindi se ne potrebbe fare un altro che li tenga, diciamo così, socchiusi.
E’ vero che quando una persona si trova sul nostro territorio ci vanno poi delle procedure legali per allontanarlo: ma, se proprio lo spirito è quello di respingere i migranti, si potrebbero sopprimere le procedure. E’ infantile un pensiero del tipo: ah sì? Se entri poi è un problema mandati via? E allora ti lascio sulla barca, anche se crepi (peraltro, quando si trova in acque italiane ormai la frittata sarebbe fatta. A quel punto bisognerebbe aspettare le navi con un sottomarino e affondarle prima).

E’ palese che la preferenza per il rimedio più radicale (diamo per scontato, in questa sede, che si tratti di qualcosa a cui rimediare: che cioè i barconi portino solo gente che ci nuoccia avere tra i piedi) sia legata all’intenzione di punire il migrante. Non è bello da dire, e infatti viene girato sulle ONG: non vi facciamo attraccare, così la finite di raccogliere questa gente in mare, e anzi vi multiamo pure. Ma è evidente che, se non si realizzasse l’operazione di soccorso (che ha senso soltanto se la nave porta i naufraghi da qualche parte) il problema non sarebbe per le ONG ma per quelli che affogherebbero. La punizione dunque si rivolge ai migranti: siccome senza chiederci il permesso vi siete messi in testa di entrare nel nostro paese, adesso ve ne andate a fare un bel giro in mare, e ve ne tornate indietro o nel primo posto che capita, magari pure in un paese dove vi rinchiudono e vi torturanoNon avendo toccato ancora il suolo, quelle persone non possono avere commesso alcun reato nel nostra stato. Ma nella sostanza subiscono una pena. Se così non fosse, il linguaggio sarebbe diverso. Leggeremmo che il governo è addolorato per questa gente, che è proprio un brutto guaio, che il paese è veramente solidale. Non è certo un mistero il tono non sia esattamente questo: è gente che vorrebbe la pacchia, sono degli imbroglioni, vogliono venire qui a darci fastidio, se li prendessero in casa quelli che li vorrebbero far attraccare, niente, non ci fregano: hanno fatto di testa loro, sono saliti sui barconi, e ben gli sta se gli viene il mal di mare (di solito, se non li soccorre nessuno, finisce un po’ peggio).

Perché le persone vengono punite quando commettono un reato? Ci sono diverse teorie al riguardo: che si voglia infliggere del male a chi ha fatto il male o che sia il caso di isolare dalla società un individuo pericoloso. Un’altra teoria è quella della prevenzione generale, o della deterrenza, e si sposa perfettamente con la pena inflitta ai migranti. Si deve punire, questa è la tesi, non tanto per colpire chi si è comportato in un certo modo: tanto ormai il danno l’ha fatto, e non c’è modo di tornare indietro. Ma lo si punisce lo stesso per ammonire gli altri: guardate cosa succede a chi si comporta in questo modo.
Molti giuristi, e anche molto filosofi, sono del parere che non sia una buona ragione per punire. Si tratterebbe del classico caso considerato e censurato da Kant, quello in cui un uomo viene usato non come uomo ma come strumento. Viene punito per dissuadere gli altri dal fare la stessa cosa.
La deterrenza è una strategia che opera anche fuori dallo stretto diritto penale. I mafiosi, per fare pressioni sul pentito che sta facendo dichiarazioni, gli ammazzano i familiari. E in realtà il messaggio non è rivolto solo a lui, ma a tutti quelli che hanno in animo di collaborare con la giustizia. Sotto il profilo dell’efficacia non fa una piega: anzi, in termini di utilità, verrebbe da domandarsi come mai anche la legge non preveda che, quando qualcuno commette un reato, l’ergastolo, oltre a lui, lo scontino i figli. Sicuramente i reati diminuirebbero. Il fatto che mai sia stata presentata una proposta in tal senso (modificando la norma che prevede il carattere personale della responsabilità penale) mostra che la deterrenza, quando viene applicata dallo stato, deve comunque rispettare il senso di giustizia. Cioè, la deterrenza da solo non può fondare la giustizia: al limite può affiancarla.

Dal punto di vista dell’efficacia la deterrenza presenta un altro problema: tanto più una persona è motivata a realizzare un obiettivo tanto meno funziona. E’ sicuro che se la violazione del limite di velocità sulle autostrade venisse punita con quindici anni di carcere tutti viaggerebbero sotto i centoventi. Ma di rado un  assassino sta a fare i conti prima del sul delitto. Dieci anni razionalmente basterebbero come trenta (non entriamo qui nel merito della questione che poi debba effettivamente scontarli), ma chi si spinge all’omicidio o ha perso il controllo di sé ( e dunque ha smesso di ricordare se per l’omicidio lo stato preveda le pena di morte o invece consegni una medaglia) oppure era talmente motivato da convincersi che l’avrebbe fatta franca.

Sicuramente i migranti che pianificano di trasferirsi nel Vecchio Continente sono condizionati in partenza dalle notizie che arrivano sulla sorte dei loro parenti o concittadini. Se sapessero che tutti quelli che arrivano in Europa vengono immediatamente fucilati ci penserebbero due volte prima di partire. Dovremmo in quel caso mettere in conto una vita più pericolosa anche per noi, quando viaggiamo, e trovare normale che quando facciamo quattro passi in una piacevole località esotica con ogni probabilità la passeggiata si concluderebbe perché qualcuno ci pianta una pallottola in mezzo agli occhi. Dunque manteniamo una condotta meno plateale, e ci limitiamo a respingerli in mare anche quando sono in condizioni fisiche che ne mettono in pericolo l’incolumità.
E’ improbabile che basti a dissuadere chi ha forti motivazioni interne (non vivere come un miserabile, lui e tutta la famiglia, per tutta la vita o scampare a una guerra civile). E comunque, in quel momento stiamo disponendo della sopravvivenza di una quarantina di persone, che accettiamo consapevolmente di tenere in pericolo.

Si potrebbe dire che è colpa delle navi delle Ong che li raccolgono (e anzi, al di là delle apparenze ci lucrano: è evidente a tutti che di solito chi si impegna in un compito di volontariato deve avere un tornaconto che ci sfugge. Saremo mica solo noi, e i migranti,i a studiare come metterlo in quel posto al prossimo). Se non sapessero che a un certo punto vengono salvati, i migranti non si metterebbero su quei barconi. Si vorrebbe cioè che tutti partecipassero alla Grande Deterrenza. Ma lo accetteremmo in un campo diverso? Forse se i ragazzi che si schiantano al ritorno delle discoteche sapessero che gli ospedali non li faranno entrare berrebbero meno, starebbero più attenti (forse no. Ma certo che rispetto a un migrante dovrebbero avere meno motivazioni a persistere). E voi che ne direste se ci capitasse vostro figlio? “E’ per salvare tutte le altre vite di tutti gli altri ragazzi” (e anche di quelli con cui vanno a fare il frontale) vi spiegherebbero mentre sta entrando in coma, e viene lasciato fuori dal pronto soccorso. Il sistema della deterrenza non è altro che questo. E quando è applicato radicalmente mette sempre davanti alla scelta di accettare che quello che sta morendo muoia, e che cessi di esistere come persona della quale  prendere in considerazione l’individualità.

Nella giustizia vera e propria (cioè, quando sono stati commessi dei reati) capita a volte che il reo sia un povero disgraziato sovrastato dagli eventi, che non aveva una precisa determinazione a delinquere, e che il reato sia stato condotto in qualche modo oltre la sua volontà. La legge può tenerne conto, entro certi limiti, ma non del tutto. Sotto il profilo della deterrenza, lo abbiamo detto, allargare la sfera delle ragioni che giustificano un crimine potrebbe ridurre l’effetto disincentivante della pena. Rimane però nelle persone un senso di amarezza, la sensazione che il significato più profondo della giustizia sia stato incrinato. Si tende in quel caso a simpatizzare con il reo.
Accade, in questa storia degli sbarchi che si cerca di far abortire, qualcosa di molto strano, invece. Una quota non irrilevante di persone odia i migranti che vogliono sbarcare. Si tratta di gente di cui si sa poco, è vero: nessuno di loro ha ancora avuto modo (e probabilmente mai lo avrà) di essere pruriginosamente esplorato dalle cronache. Però ci sono alcune certezze, anche per esperienze pregresse. Per lo più sbarcano denutriti. Per lo più vengono da posti tremendi e sono transitati per esperienze da incubo. Ci sono spesso dei bambini. E soprattutto se uno li respinge non è mica sicuro che arrivano sani e salvi al porto successivo. La concreta possibilità, per ciascuno , che uno di quei quaranta o cinquanta disgraziati arrechi danno a lui è statisticamente inesistente. Facciamo pure che sia necessario, perché ci va la deterrenza, e che se fai entrare quelli il giorno dopo se ne presentano milioni (anche se non funziona proprio così). Ma perché odiarli? La deterrenza, come dicevo, è un sistema freddo, che sovente porta a far provare simpatia per qualche reo. Qui non ci sono nemmeno rei, la simpatia dovrebbe essere naturale.
Ma non è che odiano solo loro. Odiano anche quelli che li salvano. E odiano quelli che sui social dicono: hanno fatto bene a salvarli. Odiano chiunque capiti nella catena, che pure sarebbe abbastanza lunga da disperdere i sentimenti negativi. La catena funziona come quella famosa canzone.

Alla fiera funest’
un migrante per scampare alla fame  salpò.

E venne l’utente che odiò il cantante
Che appoggiò l’altra cantante
Che elogiò il magistrato
Che assolse il capitano
Che comandò la nave
Che salvò il migrante
Che Salvini nel mare bloccò
(ed intanto il rosario baciò)- (controcanto)

Se dobbiamo pensare che cresca il numero di queste persone che odiano e guardare al futuro la situazione è preoccupante, più ancora che trovarsi altri migranti nel paese. Se vi capitasse di sentirvi male a casa, chi vorreste avere come vicino premuroso, quello che odia i migranti in balìa del mare o quello che si addolora per loro, e magari li salva? Se foste in grave difficoltà, secondo voi, su quale di queste due categorie di persone avreste qualche possibilità di fare affidamento?

C’è un altro dettaglio curioso. Come è noto, Salvini insiste in modo martellante sul fatto che da quando lui è ministro dell’Interno gli sbarchi in Italia sono diminuiti di oltre l’ottanta per cento.
All’inizio questo dato non era tanto vero. Cioè, erano diminuiti del 77% già quando c’era Minniti, e con Salvini erano ancora diminuiti fino all’82%. Adesso effettivamente hanno continuato a diminuire. Non solo in Italia, però. Per una serie di ragioni sono diminuiti nelle stesse percentuali in tutta Europa.
Ora, non so cosa voi pensiate di Salvini. Ma sono certo che, a maggior ragione se parteggiate per lui, dovreste riconoscere che ha una certa attenzione a parlare ed agire in maniere che non interferiscano negativamente sul consenso. Se uno dicesse a Salvini: guarda Matteo, la devi smettere di fare tutto quel che ti passa per la testa, smetti di farti vedere sui social mentre sei in giro, di vantarti per i tuoi risultati e di prendertela per qualsiasi cosa con i migranti perché perdi voti, lui vi guarderebbe torvo. Vi scambierebbe per dei cretini. Ma mi avete preso per uno stupido, direbbe. Io ho una squadra che misura queste cose, e so perfettamente che attualmente aumentano il mio consenso.

Allora uno dovrebbe domandarsi: ma che interesse ha nel fare, ciclicamente, tutto questo casino per una manciata di persone che, se sbarcassero per motivi umanitari, nessuno se ne accorgerebbe (e in effetti, senza le navi ONG, ne sbarcano diversi, e i soggetti pericolosi di solito stanno lì in mezzo)? Non gli verrebbe più comodo ignorarli per convincere il suo elettorato che non sta sbarcando più nessuno?
Il fatto è che Salvini ha allevato il suo elettorato facendolo passare dal desiderio che non sbarchino al desiderio di vederli respinti quando vogliono sbarcare. Come ogni demagogo, ha bisogno di mostrare continuamente se stesso in azione, e di trasmettere ai sudditi l’elettricità di quest’azione per mobilitarli a loro volta. Se non arrivassero quella cinquantina di migranti ogni tot, se li andrebbe a cercare. Vieterebbe a un bagnante di colore che sta rientrando da un giretto al largo di tornare sulla spiaggia.
Questo spiega perché l’esercizio (improprio) di una forma di deterrenza si accompagni a tanta ferocia. Perché è un rito sacrificale, dietro il quale si compatta la tribù. Altro che modernità. Stiamo viaggiando indietro nella storia. Tanto, tanto indietro.


CON LA FORZA DEL DIGIUNO PER SALVARE VITE UMANE. UN'INSURREZIONE NONVIOLENTA CONTRO LA FOLLE DECISIONE GOVERNATIVA DI CONDANNARE A MORTE I NAUFRAGHI




Ho espresso la solidarietà e il sostegno mio personale e del "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a Petrie Drummond, Manfred Bergmann e Mauro Carlo Zanella che da oggi sono impegnati in un digiuno nonviolento contro la conversione in legge dell'illegale, delirante e disumano "decreto sicurezza della razza bis", decreto che sabotando e perseguitando i soccorritori volontari che salvano vite umane nel Mediterraneo ha come effetto reale la morte dei naufraghi che potevano e dovevano essere soccorsi ed invece cosi' verranno lasciati morire.
Omettere di soccorrere una persona in pericolo di morte equivale a lasciarla morire.
Chi impedisce di salvare le vite, quelle vite contribuisce a sopprimere.
Il cosiddetto "decreto sicurezza della razza bis" si configura come una condanna a morte di vittime innocenti, come una strage degli innocenti.
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E' evidente che il governo italiano non ha il diritto di condannare a morte naufraghi innocenti ed inermi, ed ha anzi il dovere di salvarli.
E' evidente che il governo italiano non ha il diritto di condannare a morte i superstiti dei lager libici, ed ha anzi il dovere di salvarli.
E' evidente che il governo italiano non ha il diritto di condannare a morte esseri umani in fuga da guerre e fame, da dittature e schiavitù, ed ha anzi il dovere di salvarli.
Ma il governo italiano persevera nel male: negando ai naufraghi approdo in porto sicuro in Italia, ed inoltre sabotando e perseguitando i soccorritori, commette il delitto di omissione di soccorso, e lascia morire, fa morire degli esseri umani innocenti ed inermi.
Ogni persona ragionevole prova orrore e sdegno di questa condotta mortifera.
*
Di qui gli appelli al Parlamento ed al Presidente della Repubblica affinché impediscano che il governo italiano perseveri in un così abominevole crimine.
Di qui l'esortazione a tutte le persone di volontà buona a far sentire la propria voce affinché il Senato della Repubblica che si pronuncerà' in merito tra pochi giorni respinga quel decreto razzista e assassino che la Camera dei deputati ha follemente, scelleratamente avallato.
Occorre insorgere nonviolentemente per salvare le vite.
Occorre insorgere nonviolentemente per difendere la legalità che salva le vite.
Occorre insorgere nonviolentemente per contrastare la violenza razzista e la follia omicida.
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Credo che occorra intraprendere varie iniziative, e tra esse:
a) scrivere alle senatrici ed ai senatori affinché respingano il decreto mortifero;
b) scrivere al Presidente della Repubblica affinché intervenga in difesa del diritto, della civiltà, dell'umanità;
c) rendere visibile la volontà del popolo italiano di difendere i diritti umani di tutti gli esseri umani così come stabilisce la Costituzione della Repubblica italiana, ed in primo luogo il diritto alla vita, al soccorso, all'asilo.
*
Il digiuno nonviolento dei tre amici cui ho espresso il mio sostegno credo sia una forma di impegno che può anche contribuire a suscitare altre testimonianze, altre iniziative in tutta Italia. E ve ne e' grande, urgente bisogno.
Ovviamente ho espresso a questi amici anche la mia preoccupazione se il loro digiuno si prolungasse e la mia esortazione ad interromperlo prima di provocare ai loro corpi danni irreparabili. La nostra lotta è per salvare le vite, non per metterne in pericolo delle altre.
Ed ho espresso anch'io la mia disponibilità a partecipare al digiuno per un limitato lasso di tempo in una sorta di ideale staffetta.
Che adesso ed ovunque si esprima l'impegno corale del popolo italiano in difesa delle vite umane in pericolo.
Che adesso ed ovunque si esprima l'impegno corale del popolo italiano contro l'illegale e folle decisione governativa che ha come effetto di lasciar morire degli esseri umani, di provocare una strage degli innocenti.
*
Ci tengo ad insistere sul punto cruciale: il cosiddetto "decreto sicurezza della razza bis" ha come effetto reale la morte dei naufraghi che non verranno più soccorsi. Questo è l'elemento decisivo.
Non ci si lasci distrarre dai sofismi della propaganda degli ebbri e callidi seminatori di odio ed adoratori della violenza: il nocciolo della questione è che quel decreto fa morire degli esseri umani.
E noi sappiamo almeno questo: che provocare la morte di un essere umano non è ammissibile, ne' per la legge ne' per la morale.
Si può discutere di tutto, ma non di questo: che ogni essere umano ha diritto alla vita, alla dignità, alla solidarietà.
Si può discutere di tutto, ma non di questo: che vi è una sola umanità in un unico mondo vivente casa comune dell'umanità intera; e quindi tutti gli esseri umani sono uniti tra loro da un dovere di solidarietà attiva e di mutuo soccorso, come argomentò una volta per sempre Giacomo Leopardi.
Si può discutere di tutto, ma non di questo: che uccidere è il peggiore dei crimini.
Si può discutere di tutto, ma non di questo: che salvare le vite è il primo dovere.
Ogni vittima ha il voto di Abele.
Salvare le vite è il primo dovere.
*
Allego in calce a questa lettera:
1. L'appello di Petrie Drummond, Manfred Bergmann e Mauro Carlo Zanella;
2. Un appello alle senatrici ed ai senatori;
3. l'appello al Presidente della Repubblica promosso da Lidia Menapace, padre Alex Zanotilli e tante altre persone di volonta' buona.

Peppe Sini, responsabile del "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo

Viterbo, 27 luglio 2019

Mittente: "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo, strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: 
centropacevt@gmail.com
Il "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo e' una struttura nonviolenta attiva dagli anni '70 del secolo scorso che ha sostenuto, promosso e coordinato varie campagne per il bene comune, locali, nazionali ed internazionali. E' la struttura nonviolenta che oltre trent'anni fa ha coordinato per l'Italia la piu' ampia campagna di solidarieta' con Nelson Mandela, allora detenuto nelle prigioni del regime razzista sudafricano. Nel 1987 ha promosso il primo convegno nazionale di studi dedicato a Primo Levi. Dal 2000 pubblica il notiziario telematico quotidiano "La nonviolenza e' in cammino" che e' possibile ricevere gratuitamente abbonandosi attraverso il sito 
www.peacelink.it

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Allegato 1. La solidarieta' non e' un reato. Un digiuno e un appello
La solidarieta' non e' un reato
Dalle ore 0.00 di oggi noi, Petrie Drummond, Manfred Bergmann e Mauro Carlo Zanella, abbiamo iniziato uno sciopero della fame, o digiuno di dialogo ed ascolto a tempo non determinato, contro la conversione in legge del cosiddetto Decreto Sicurezza Due, che criminalizza coloro che, salvate in mare le vite di profughi, rifiutano di sbarcarli in un porto non sicuro come quelli della Libia sconvolta dalla guerra e costellata di veri lager per i migranti. Portarli, come impongono le convenzioni internazionali in un porto sicuro italiano comporta ora pesantissime sanzioni atte ad impedire le attivita' di ricerca e soccorso in mare delle Organizzazioni Non Governative.
Oltre alle scellerate norme disumane, prima ricordate, che causano stragi quotidiane inaccettabili ed intollerabili: cosi' contestualmente il decreto non dimentica gli italiani, i piu' poveri ed emarginati ovviamente, e si criminalizzano le lotte sociali con pesantissime sanzioni che possono riguardare chi accende un fumogeno o attua un blocco stradale per reclamare diritti costituzionalmente garantiti come la casa, il lavoro, l'istruzione, la salute, la tutela dell'ambiente.
Nella nostra azione siamo sostenuti e incoraggiati dalle compagne e dai compagni del gruppo informale autogestito Mani Rosse Antirazziste di cui noi stessi facciamo parte, di Diamoci Una Mossa, di Digiuno di Giustizia e Solidarieta' con i Migranti, di Kethane - Rom e Sinti per l'Italia, di Grennpeace e del Centro di Ricerca per la Pace di Viterbo. Le compagne, i compagni, le amiche e gli amici tutti ci sosterranno logisticamente e ci supporteranno affiancandosi a noi con digiuni a staffetta.
Dopo la fiducia estorta alla Camera dei Deputati chiediamo ai Senatori di agire in Parlamento come rappresentanti della nazione e del popolo, senza alcun vincolo di mandato ma fedeli alla Costituzione. Respingano la conversione in Legge del cosiddetto Decreto Sicurezza Due, partecipando al voto. Votino contro per fedelta' alla Costituzione della Repubblica Italiana che riconosce, tutela e promuove i diritti universali della persona umana, che protegge lo straniero che fugge da guerre e dittature e da una situazione di violazione dei diritti fondamentali (quale e' quella vissuta nei Paesi travolti dalla miseria e dalla fame o sconvolti dai mutamenti climatici).
Se malauguratamente anche il Senato dovesse votare si' alla nuova legge, che ci porta fuori dalla Legalita' Costituzionale, dallo Stato di Diritto e dalla Umana Civilta', sosterremo il Presidente della Repubblica che, a questo punto, come Garante della Costituzione, altro non potra' fare se non rifiutarsi di promulgare la nuova Legge rinviandola nuovamente al dibattimento parlamentare.
Chiedere al Presidente di firmare questo obbrobrio sarebbe chiedergli di attentare alla Costituzione e di tradire la Repubblica.
Per questa ragione, certi della sua volonta' di essere coerente con i valori della Costituzione in quanto sincero democratico intendiamo sostenerlo in questo difficilissimo momento di profondissima crisi etica della nostra Repubblica Democratica e del nostro amato Paese.
Petrie Drummond, violoncellista di Castel Volturno
Manfred Bergmann, operatore socioculturale, delegato ONG presso il Consiglio Diritti Umani ONU, Roma
Mauro Carlo Zanella, maestro elementare di Lanuvio
Per adesioni:
mauroc.zanella@gmail.com
lelenoferi@gmail.com

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Allegato 2. "Respingete quel decreto. Salvate le vite". Una lettera alle senatrici ed ai senatori
Alle senatrici ed ai senatori della Repubblica italiana
Gentilissime senatrici e gentilissimi senatori,
il primo agosto inizierete l'esame del cosiddetto "decreto sicurezza della razza bis" che la Camera dei deputati ha approvato con un duplice voto: il 24 luglio votando la fiducia posta dal governo con 325 voti favorevoli,  248 contrari e 4 astensioni; e il 25 luglio approvando la conversione in legge del decreto con 322 voti favorevoli, 90 contrari e un'astensione.
Vi scriviamo per chiedervi di respingere il cosiddetto "decreto sicurezza della razza bis", che sabotando e perseguitando i soccorritori volontari che salvano vite umane nel Mediterraneo ha come effetto la morte dei naufraghi che potevano essere soccorsi e salvati ed invece non lo saranno.
Si', l'effetto reale del cosiddetto "decreto sicurezza della razza bis" e' la morte di esseri umani innocenti ed inermi.
Si', quel decreto e' omicida.
Si', quel decreto e' stragista.
Quel decreto e' illegale, e' criminale, e' disumano.
Respingete quel decreto.
Salvate le vite.
*
Gli indirizzi di posta elettronica di tutti i membri del Senato sono reperibili nel sito 
www.senato.it

* * *

Allegato 3. Al Presidente della Repubblica un appello da Lidia Menapace, padre Alex Zanotelli e molte altre persone di volonta' buona
Egregio Presidente della Repubblica,
fermi l'ecatombe in corso nel Mediterraneo richiamando il governo al dovere di soccorrere i naufraghi, di salvare le vite umane in pericolo.
E' il governo italiano, che da un anno sta facendo di tutto per impedire che i naufraghi siano soccorsi e recati in salvo nel nostro paese, il primo responsabile della mattanza di esseri umani nel Mediterraneo: potrebbe salvarli tutti, ed invece decide di farli morire.
Chiunque lo vede, chiunque lo sa. Tacere significa essere complici di un immane massacro.
Lei e' il Presidente della Repubblica, il primo magistrato del nostro paese: nelle forme previste dall'ordinamento, nel pieno adempimento dei suoi doveri istituzionali, intervenga per far cessare la strage, intervenga per impedire altre morti di esseri umani innocenti ed inermi.
Dal profondo del cuore la preghiamo.
*
Per adesioni: 
centropacevt@gmail.com
Per scrivere direttamente al Presidente della Repubblica: dalla home page del sito 
www.quirinale.it cliccare sull'icona della busta postale in alto al centro e successivamente compilare il format. 

lunedì 29 luglio 2019

È Il rifiuto del lavoro che ci salverà! – Andrea Fumagalli



Premessa: queste osservazioni sono state sollecitate dalla lettura del contributo di Gianni Giovannelli, pubblicato su Effimera a inizio maggio 2019
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Secondo i dati del governo e dell’Inps, al 1 maggio 2019, sono 1.016.000 i cittadini che hanno presentato la richiesta del cosiddetto Reddito di Cittadinanza (RdC), tra quelle compilate on line, sul sito governativo dedicato, e quelle presentate alle Poste o ai Caf. Ricordiamo che il Governo ha previsto stanziamenti per un totale di 1.300.000 domande. Secondo le stime dei tecnici le domande accolte saranno attorno al 70%, quindi 700 mila (poco più della meta, dunque) il che prevedrebbe un esborso complessivo minore di circa due miliardi di euro rispetto a quanto stanziato dal Governo.
Nella conversione del decreto n. 4-2019 nella legge 26-2019, 28 marzo 2019, nuovi vincoli si sono aggiunti. E ciò può spiegare al momento il minor numero di domande rispetto a quelle attese. Essi riguardano, in particolar modo, gli stranieri. Gli immigrati che vorranno accedere al RdC avranno ancora più ostacoli di quanto già previsto in sede di approvazione del Decreto-Legge. Costoro, infatti, dovranno certificare tramite la competente autorità dello Stato estero, il requisito reddituale e patrimoniale e la composizione del proprio nucleo familiare. La certificazione inoltre dovrà essere tradotta in lingua italiana e legalizzata dall’autorità consolare italiana (che ne attesta la conformità all’originale). Sono esclusi da questo adempimento esclusivamente i soggetti aventi lo status di rifugiato politico.
Inoltre, si è sancito che il RdC non potrà essere erogato alle persone condannate in via definitiva; è prevista inoltre la revoca retroattiva, con obbligo di restituzione delle somme indebitamente percepite, nel caso di successiva condanna. Il RdC non potrà inoltre essere richiesto prima che siano passati dieci anni dalla espiazione della condanna, una misura paradossale di natura punitiva, in contrasto con lo scopo di rieducazione che il carcere dovrebbe avere, secondo il dettame costituzionale (art. 27).
Infine, all’articolo 1, il comma 3 è sostituito dal seguente:
“Non ha diritto al Rdc il componente del nucleo familiare disoccupato a seguito di dimissioni volontarie, nei dodici mesi successivi alla data delle dimissioni, fatte salve le dimissioni per giusta causa”.
Tale nuovo vincolo è stato reso necessario dopo che, in modo inaspettato, nella commissione Lavoro del Senato, era stato approvato un emendamento (a prima firma Matrisciano, M5s) che introduceva l’obbligo di accettare una qualunque offerta di lavoro (pena la decadenza del sussidio), se la sua retribuzione era come minimo pari a 780 euro (l’ammontare massimo del RdC) accresciuta del 10%, per un totale di 858 euro.
Apriti cielo!
Si è fatto immediatamente notare che un numero non piccolo di lavoratori e lavoratrici, inquadrati con contratti di lavoro stabile (non consideriamo il “nero”), già oggi prendono buste paga inferiori. L’Inps e l’Istat convergono nell’affermare che vi sono ben circa 4,2 milioni di persone che ricevono salari più bassi!
Ciò ha allarmato soprattutto le imprese e gli amanti dell’etica del lavoro (dalle associazioni padronali, al Sole 24ore, ai maggiori quotidiani nazionali) denunciando la pericolosità di un tale provvedimento che incentiverebbe l’uso del “divano” e non la partecipazione al mercato del lavoro. Tale dibattito infatti si è incentrato sulla natura da “fannulloni” soprattutto dei giovani e non ha per nulla sfiorato invece il livello indegno dei salari italiani, tra i più bassi d’Europa. Si è preferito guadare al dito, invece che alla luna!
Da qui le preoccupazioni di molte associazioni di categoria che intravedono la difficoltà, d’ora in poi, di reclutare personale con gli “stipendi” di prima. Un esempio lampante è quello dell’apprendistato dove le retribuzioni sono assai basse. Ad esempio, un’apprendista parrucchiere al primo anno, in base ai trattamenti attuali, percepisce circa 825 euro per 40 ore settimanali. E lo stesso può dirsi a maggior ragione in caso dilavori stagionali, part-time, a chiamata, di lavori nell’artigianato, nel commercio o nella ristorazione.
Altre posizioni esposte al rischio “rifiuto” sono le attività agricole stagionali, dove per 180 giornate anno, si arriverebbe, col minimo contrattuale, a 505,05 euro al mese. Poi vanno considerati i part-time: un part-time al 50 per cento, col Ccnl alimentari-industria, di 5° livello, percepirebbe circa 807,41 euro per 20 ore a settimana e un commesso di negozio di 4 livello, nella stessa situazione, non più di 808,34 euro.
Nelle imprese di pulizie e dei servizi integrati si stima un 70 per cento di lavoratori part-time su una platea di 500mila addetti: dai pulitori ai portinai, dagli addetti mensa ai manutentori. Con queste retribuzioni, il percettore di reddito potrebbe essere tentato di dire no ai lavori in questione in caso di trattamento inferiore o equivalente a quello del sussidio. La stessa situazione potrebbe condizionare i Call center e portare conseguenze in attività come quelle delle colf o delle badanti.
L’emendamento al comma 3 dell’articolo 1, prima ricordato, impedisce che ci possa essere un effetto sostituzione tra chi già lavora e si licenzia per accedere a un RdC maggiore ma non impedisce tuttavia di esercitare da parte dei percettori inoccupati del RdC (fino ad un massimo di tre volte) il diritto al rifiuto del lavoro. Ed è proprio questo l’aspetto “sovversivo” che fa infuriare i benpensanti dell’etica lavorista che, come sappiamo, in Italia si distribuiscono trasversalmente tra i diversi schieramenti politici e sindacali.
Due sono le questioni che al riguardo è necessario evidenziare.
La prima, ovvia, è prendere atto del problema salariale che investe l’Italia oramai da un quarto di secolo, da quanto è stata abolita la scala mobile con gli accordi del 1992-93. Tale questione è collegata alla necessità, oramai, inderogabile di introdurre un salario minimo per coloro che non fanno riferimento ai contratti collettivi di lavori o hanno tipologie precarie di para-subordinazione e autonome etero-dirette. Tali realtà sono soprattutto presenti nei settori del terziario avanzato, nella logistica, nei servizi di welfare tramite il ricorso a cooperative o a forme di volontariato sussidiario.
La seconda questione è la seguente: si è più volte sostenuto su queste pagine come la forte condizionalità della misura porti ad annoverare il RdC targato 5s più come una misura di workfare che di autodeterminazione. Questo emendamento, così tanto contestato dal mainstream e dal conservatorismo capitalista, sembra invece andare in direzione opposta. Potrebbe in teoria incrementare il grado di rigidità dell’offerta di lavoro soprattutto per quelle occupazioni mal pagate, favorendo da questo punto di vista la necessità di incrementare i salari. Un risultato, quest’ultimo, che fa bene anche alla stessa economia italiana anche da un punto di vista capitalistico e per più di un motivo.
Il primo è l’effetto moltiplicatore sulla domanda interna (la cui stagnazione è tra le principali cause della scarsissima crescita del Pil) che si aggiungerebbe a quello – comunque ridotto – dello stesso RdC.
Il secondo motivo, insieme ad una maggior continuità di reddito, potrebbe consentire un miglior sfruttamento di quelle economie di apprendimento e di rete che sono oggi alla base della crescita della produttività sociale, variabile oggi nevralgica nella competizione globale e che in Italia è particolarmente penalizzata dall’esplosione della precarietà del lavoro e di vita: una precarietà esistenziale che incide negativamente sulla possibilità di aspirare, se sotto ricatto, al “diritto alla scelta del lavoro” e quindi ad una maggiore efficienza della prestazione lavorativa stessa. Tuttavia, tale possibile effetto rischia di essere depotenziato dalla scarsità delle risorse e dal basso livello medio di erogazione del RdC, che, secondo le parole del neo presidente Inps, Pasquale Tridico, si dovrebbe attestare in media sui 520 euro a famiglia (non a persona).
In conclusione, un maggior livello del reddito di base e l’eliminazione il più possibile di ogni forma di condizionalità, utilizzando come fonte di finanziamento un aumento della progressività nel sistema fiscale (in direzione ostinata e contraria alla flat tax), potrebbe essere un insieme di strumenti, tra altri, per rilanciare una politica economica più equa e più efficace.
Il rifiuto del lavoro (mal pagato, in nero, sfruttato, ricattabile) è sempre foriero di innovazione, crescita e benessere. Ricordiamocelo!

un concerto di Thom Yorke

domenica 28 luglio 2019

Il socialismo non compra il capitalismo per chiuderlo - Marco Bertorello



La discussione intorno al Memorandum italo-cinese è apparsa piuttosto curiosa sia nei contenuti sia negli schieramenti che l’hanno animata. Da un lato si sosteneva che era a rischio l’indipendenza nazionale e lo storico rapporto privilegiato con l’Occidente, dall’altro che finalmente si affermava un principio di autonomia e di sovranità nazionale. Lega, Pd e buona parte di Confindustria sollevavano preoccupazioni varie, M5S e Autorità portuali facevano i sostenitori, mentre Prodi e Mattarella non drammatizzavano. Anche sul piano internazionale la polemica ha seguito un copione incentrato su forti polarità tra preoccupati, o esplicitamente ostili, e favorevoli. Nei primi c’erano innanzitutto gli Usa, seguiti da importanti esponenti dei principali paesi europei, tra i secondi esponenti di paesi periferici. Complessivamente un gioco fatto di intrecci raramente coerenti, ancor meno disinteressati.

A che punto sono le relazioni tra Occidente e Cina?
Iniziamo dalle preoccupazioni sui rischi per l’indipendenza nazionale, continentale e, persino, dell’intero Occidente. L’accordo tra Italia e Cina sarebbe un accordo unico nel suo genere, una testa di ponte per l’approfondimento del ruolo cinese all’interno del Vecchio Continente, che porterebbe allo sgretolamento degli interessi e degli assetti del mondo liberal-democratico. Una sorta di salto di campo per l’Italia, un tradimento in buona misura. Per sollevare tali obiezioni in maniera così perentoria bisogna aver rimosso i processi sovranazionali in corso da tempo in quasi tutti i paesi occidentali, che hanno rimescolato parecchio le carte degli assetti geopolitici ed economici.
La globalizzazione affermatasi a partire dagli anni Settanta è stata un combinato di tendenze innovatrici sul piano tecnico e politico-economico che ha consentito ai paesi più ricchi di superare l’impasse del modello fordista-keynesiano, creando condizioni produttive per poter ridurre i redditi medio-bassi senza deprimerne i consumi, per sconfiggere politicamente il lavoro rendendo sopportabile la precarietà. Con il risultato di ristabilizzare l’economia di mercato e al contempo far ripartire i profitti. Da qui l’aumento di investimenti esteri che nel tempo hanno avuto come eterogenesi dei fini la creazione di una crescente autonomia economico-politica dei paesi emergenti coinvolti in tali processi.
La Cina costituisce il caso più evidente e avanzato. A partire dalla fine dei Settanta il Partito Comunista Cinese abbraccia la tendenziale apertura dell’economia, basandosi su un mercantilismo sempre più spinto e orientato prevalentemente alle esportazioni. Lo sviluppo dell’economia non si esaurisce sotto l’impulso di interessi stranieri, il governo cinese riesce a cambiar di segno agli investimenti esteri, rendendoli un volano per la crescita del paese. Da piattaforma dei capitalismi occidentali la Cina diventa un propulsore a spinta autonoma. Il modello che in un relativo breve lasso di tempo si afferma è un modello capace di incrinare l’egemonia mondiale della potenza statunitense. La crisi del 2007-08, inoltre, permette un’accelerazione di queste tendenze, consentendo di rafforzare investimenti e acquisizioni non solo nei paesi emergenti, ma anche in quelli occidentali. Dai beni nei settori strategici, quali infrastrutture ed energia, ai titoli di Stato, dalla tecnologia a elevato valore aggiunto fino alle aziende in bancarotta. In molti di questi casi la Cina si è esposta finanziariamente in maniera ingente, proprio perché la scommessa era quella di porre le basi per diventare una potenza industriale ed economica di prim’ordine a livello mondiale.
Negli Usa l’acquisto di attori economico-produttivo strategici da parte dei cinesi è stato in vario modo ostacolato, ma al contempo è stato concesso l’acquisto di una marea di Treasuries (bond governativi), tant’è che insieme al Giappone la Cina rappresenta il paese che ne detiene di più per una quota pari all’8%. L’interconnessione finanziaria tra i due potentati è piuttosto avanzata, dato che dei 3.100 miliardi di dollari di riserve valutarie cinesi circa un terzo è denominato in dollari. In Europa, invece, l’accortezza sulla cessione di asset strategici è stata più blanda fino a ora, sebbene il Vecchio Continente fosse combattuto tra tradizione democratica e rispetto dei diritti umani da un lato e tradizionale apertura commerciale dall’altro. La Cina ha fatto incetta di quote di società di energia portoghesi e italiane, ha acquisito il principale porto dell’area orientale del Vecchio continente, il Pireo, con l’ambizione di farne un trampolino per le proprie merci in tutta l’area centro-orientale. Ma lo shopping non si esaurisce ai soli paesi periferici. In Germania è in corso l’acquisto di imprese medio-piccole ad alta tecnologia oppure della catena di distribuzione tedesca. Cioè produzione di qualità e beni strumentali di cui le fabbriche cinesi hanno bisogno e consumi teutonici. E quando si parla di consumi si parla anche di modalità di marketing, di uso dei brand tedeschi, insomma di come adottare le tecniche con le quali la Germania mantiene la gestione delle principali quote di esportazione nell’Europa. Un’azienda statale cinese ha acquisito il 14% della francese Peugeot, eguagliando le quote della originaria famiglia titolare e quelle dello Stato transalpino, un’altra ha acquisito il 49,9% del principale aeroporto meridionale, quello di Tolosa. Infine arrivano investimenti e acquisizioni nel settore del vino, di cui la Cina ormai costituisce uno dei principali importatori a livello mondiale, e principalmente nella regione di Bordeaux, quella con il più elevato valore dei terreni per vigneti. Complessivamente negli ultimi quarant’anni il commercio di beni tra Cina e Unione europea è passato da meno di 4 miliardi di dollari a oltre 600, il commercio di servizi è cresciuto da 0 a oltre 100 miliardi e la quota di investimenti è passata da 0 a quasi 200 miliardi.

Preoccupazioni tardive
Questi numeri forniscono il profilo di un processo che da tempo sta modificando in profondità le relazioni internazionali, che scompagina vecchi schieramenti e i cui fattori propulsivi non risiedono certo esclusivamente nell’estremo oriente.
Il grado di interdipendenza è aumentato a causa dei reciproci vantaggi che comportava per le classi dominanti dei paesi coinvolti. Sotto la retorica della trionfante globalizzazione i processi avvenuti apparivano win win, nessuno sembrava perderci. Tranne i lavoratori e le lavoratrici dei paesi sviluppati che in tale consesso erano diventati le vittime sacrificali per il rilancio di un ciclo globale. È solo negli ultimi anni che tali fenomeni sembrano rimettere in discussione qualcosa di più degli interessi della vecchia classe operaia occidentale: l’affermazione dei paesi emergenti, e in particolare della Cina, incrina le tradizionali gerarchie di potenza e ricchezza, dando vita a smottamenti sociali che hanno finito per risucchiare le classi medie dei paesi occidentali. Persino una parte significativa della piccola e media impresa di questi paesi, abituata a vivere prevalentemente di domanda interna, è stata sacrificata sull’altare della competizione multinazionale. Ecco allora la critica degli effetti della globalizzazione, l’affermarsi di crescenti politiche sovraniste, fino a giungere alle guerre commerciali di Trump. Anche in Europa sono stati approvati diversi documenti che sottolineano come vi sia l’esigenza di un «multilateralismo efficace» al momento messa in forse dalla tendenza cinese a negare relazioni equilibrate e improntate alla reciprocità.
L’Europa per ora gioca ancora di fioretto con la Cina, in considerazione dei rapporti commerciali esistenti, denunciando un’apertura selettiva dei mercati cinesi, che protegge le proprie imprese pubbliche e private e limita l’accesso ai programmi finanziati dallo Stato per le aziende straniere. In buona misura per ora l’Europa si è limitata a sollevare il problema che la collaborazione cino-europea non si stia svolgendo ad armi pari. Ma ecco che le critiche all’Italia, responsabile di aver firmato il Memorandum con la Cina, sembrerebbero costituire una levata di scudi inedita. Come se tale passaggio rappresentasse una fuoriuscita dagli schemi di gioco fin qui adottati. Un eccesso di collaborazione.
Indubbiamente le relazioni di un paese come la Germania con la Cina appaiono più bilanciate e reciproche, ma persino lì vi è una preoccupazione crescente per le concessioni fatte negli ultimi decenni, foriere di possibili squilibri e asimmetrie. È pensabile che la media impresa teutonica non costituisca un asset strategico nazionale da tutelare quando viene venduta massicciamente a soggetti stranieri? Da un lato, dunque, i paesi centro-europei e anglosassoni hanno promosso questo grande processo che è stato la globalizzazione, dall’altro ora provano a frenarne le controindicazioni più pericolose. Controindicazioni che ricadono direttamente a casa loro, ma che vedono anche protagonisti quei paesi periferici occidentali che meno hanno goduto degli effetti positivi dei commerci internazionali e che ora provano, in maniera magari scomposta e un po’ disinvolta, a torcere a loro parziale vantaggio gli appetiti cinesi.
Il quadro ipercompetitivo determina reazioni automatiche incentrate sull’autodifesa, dove le catene del valore che ruotano intorno al Centro-Europa stigmatizzano un atteggiamento arrendevole nei confronti della Cina. I soggetti legati alla logistica mediterranea o al mondo dell’impresa dei periferici da parte loro rilanciano un ruolo di sub-protagonisti tra i nuovi flussi di investimenti asiatici. Un’apparente confusione, fatta di veti incomprensibili sennonché spiegabili sotto il segno di un regime internazionale ipercompetitivo, dove ogni paese e ogni impresa si posizionano sulla base delle proprie convenienze.
In tale contesto non c’è Occidente o Europa che tenga. Gli Usa giocano la propria partita come i Paesi europei più importanti, gli altri giocano di rimessa. Nella partita i più potenti non tendono allo sfascio e neppure alla rottura irreparabile con la Cina, nessuno potrebbe permetterselo in una fase così stagnante, ma tutti provano a ritagliarsi i migliori spazi di convivenza con l’Impero Celeste, anche a danno dei vicini, cioè inibendo quelle ipotesi altrui che come effetto collaterale hanno il proprio indebolimento. Nessuno fa sconti a nessuno.
Da questo punto di vista, senza eccessiva malizia si potrebbe ritenere che le critiche al Memorandum abbiamo anche come retroscena la preoccupazione per gli investimenti cinesi nei porti di Genova e Trieste, i quali potrebbero, almeno in parte, contendere la scena internazionale ai tradizionali porti del nord-Europa, abituati a essere i campioni incontrastati a livello continentale.

Il modello cinese e le speranze di autonomia nostrana
Detto ciò, si potrebbe restare affascinati da una prospettiva di recupero di autonomia, se non addirittura d’indipendenza, dei paesi periferici e, nella fattispecie, dell’Italia. Quest’ultima potrebbe rilanciare un proprio ruolo nello scacchiere internazionale in considerazione della propria posizione geografica. È credibile tale prospettiva nell’attuale contesto? Ogni fascinazione o, perlomeno, approccio pragmatico sul tema passa attraverso un giudizio in qualche misura benevolo o di sottovalutazione del ruolo della Cina. Difficile, però, non cogliere la dinamica interna e di conseguenza internazionale cinese. C’è chi riprende la definizione del Partito comunista di «socialismo con caratteristiche cinesi», che mette in evidenza come quel paese gigantesco sia ancora incentrato su un’economia pianificata, dove il mercato svolge un ruolo subordinato alla logica di socializzazione. Una visione che ancora sottolinea i 90 milioni di iscritti al partito, il ruolo delle assemblee nelle campagne, l’uso alternativo delle nuove tecnologie sottratte alle centrali internazionali come Amazon, Google, Facebook, e così via. Le gradazioni nei giudizi positivi sono varie e vanno dai nostalgici tout court a coloro i quali trovano nel modello cinese una maggiore efficacia nel gestire l’economia di mercato. Quest’ultimi sono, secondo me, i più interessanti poiché mettono in evidenza le novità intervenute negli ultimi decenni in Cina.
Possiamo chiamarlo capitalismo di Stato o capitalismo autoritario, le definizioni si sprecano, ma è certo che per la capacità di penetrazione in campo internazionale quello cinese non è più un sistema economico a trazione socialista, checché ne dica l’ideologia di partito. Il socialismo, persino nella sua variante stalinista (quella del socialismo in un  paese solo), non ha mai ipotizzato una strisciante penetrazione economica nel campo avverso fatta di acquisizioni e investimenti esteri. Il socialismo non ha mai inteso comprare il capitalismo per chiuderlo o per farlo fallire. Semmai solitamente è accaduto che quest’ultimo progressivamente fosse riuscito a sedurre il primo, finendo per snaturarlo. Sia dove le forze socialiste governavano sia dove riuscivano solo a fare opposizione.
Il caso cinese, però, ha una marcia in più nel suo genere. Il partito non perde il controllo e fin dai tempi di Deng Xiaoping lancia le parole d’ordine «diventare ricchi è glorioso» oppure «facciamo diventare ricco qualcuno, per prima cosa» che costituiscono un obiettivo cambio di passo, dando crescenti spazi al mercato e riducendo enormemente la povertà (paradossalmente i calcoli tesi a dimostrare la riduzione della povertà globale sono principalmente debitori del grande balzo cinese). Ciò avviene all’insegna di nuovi squilibri: la formazione di classi sociali fondate sul loro ruolo nel mercato e un partito che gestisce la società sempre in maniera autoritaria. Qualcuno in questi ultimi decenni ha iniziato a diventare ricco, ma non si è fermato lì, ha iniziato a esportare le proprie ricchezze nei paradisi fiscali, a svolgere una funzione economico-finanziaria sia a livello nazionale sia globale, a godere della pace sociale interna garantita non solo dalla crescita economica, ma da un controllo verticistico della piramide sociale sedimentatasi negli anni. Lo studioso della Cina Simone Pieranni individua in un discorso del 2013 di Xi Jinping, recentemente pubblicato nella rivista teorica del partito, il momento in cui si ponevano le basi «dell’ipercontrollo e della totale centralità del Pcc». L’intreccio tra economia e politica rende difficile segnare un confine netto tra le due sfere, ma è indubbio che vadano affermandosi nuove classi sociali che, nonostante non godano di una garanzia completa per la proprietà privata, compongono nuovi tasselli nelle divisioni sociali. Non a caso vi è una crescente attenzione internazionale all’efficienza cinese nella gestione della propria economia di mercato. A volte viene proprio presentato come un modello alternativo a quello anglosassone di stampo liberista.
Nel 2017 a Davos è apparso curioso lo scontro tra gli Stati Uniti trumpiani, imbevuti di istanze protezionistiche e sovraniste, e la Cina di Xi Jinping, convintamente globalista, seppur con in mente una globalizzazione confacente alle caratteristiche del proprio Paese. Quello avvenuto nella rinomata località svizzera non è stato certo la rappresentazione di uno scontro tra capitalismo e socialismo, quanto tra due approcci opposti su come gestire l’economia di mercato, cioè un’economia dove la competizione resta al centro, ma che i principali attori planetari vogliono dispiegare su scale territoriali differenti, partendo dai reciproci punti di forza. La logica competitiva, dunque, resta inesorabile. Parafrasando Humphrey Bogart, si potrebbe dire «è il mercato bellezza e tu non ci puoi far niente. Niente».
All’interno di un quadro internazionale in cui l’economia stenta a crescere, ognuno mette in campo le sue migliori armate per vincere quella che resta una guerra economica, fatta di dazi da un lato e prodotti a minor costo dall’altro. Non solo, ormai la Cina ha assunto un ruolo di potenza mondiale grazie alla qualificazione delle proprie produzioni, riuscendo a competere anche sui segmenti tecnologicamente avanzati. La contesa è sempre più senza esclusione di colpi.
Val la pena, infine, sottolineare due aspetti dal carattere strutturale che contribuiscono a focalizzare il profilo economico della Cina contemporanea. Il primo è dato dalla sua capacità di penetrazione, una forza principalmente commerciale che sembra aver reso più coerenti i principi dell’economia dominante, come se fosse in corso una lotta egemonica in cui anziché con le guerre i territori si conquistano attraverso il potere di seduzione del mercato. Qualcuno potrebbe leggere in ciò il carattere più evoluto del modello cinese, ma altrettanto coerentemente si può mettere in luce la messa in pratica della funzione del denaro in una economia di mercato. Cos’è il denaro se non potere di fascinazione e di egemonia? La quintessenza del capitalismo. Ecco dimostrata la superiorità cinese nel conquistare in maniera raffinata nuovi mercati al servizio dell’economia di mercato.
Il secondo aspetto è la rapidità con cui l’uso dell’economia a debito, prerogativa dei paesi a economia matura, sia penetrata nell’Impero Celeste. In pochi decenni quella che con qualche nostalgia della presunta separazione tra sfera finanziaria e dell’economia reale si potrebbe considerare «fabbrica del mondo» ha fatto ricorso al debito per stare al passo con i tempi. Un ricorso non accessorio, se si considera che il debito complessivo è passato nel solo lasso di tempo dal 2008 al 2017 dal 140 al 220% del Pil. Un processo di omologazione realizzatosi a tappe forzate, nonostante il prevalente ruolo di un’economia produttiva sottostante.
È socialismo questo? È un modo diverso di intendere l’economia rispetto a quello dominante? Oppure è la dimostrazione che il terreno privilegiato in cui la Cina ha deciso di competere con l’Occidente è quello di un’economia di mercato avviata addirittura verso la finanziarizzazione, per riuscire a superare i propri limiti? E che tale modello fondato sui debiti potrebbe anche essere almeno una parte della chiave del suo successo? Oppure si può ritenere che anche il socialismo abbia necessità della droga monetaria per svilupparsi?
Se questo è il profilo della Cina, pensare di ritagliarsi un ruolo autonomo è illusorio oppure risponde a una logica di corto respiro di cui è imbevuta la nostra attuale cultura. Una logica, questa sì, molto lontana da quella cinese in cui permane l’ambizione a pianificare e possedere una visione. La veduta corta è prerogativa dell’attuale capitalismo onnivoro, ma non è sempre stato così. La pianificazione negli investimenti e la progettualità non sono estranei a un orizzonte innervato di profitti e capitali. Anche in questo caso c’è chi vede in Cina un recupero di energie per l’economia di mercato e non certo una loro negazione.

La Nuova Via della Seta
Arriviamo così al progetto soprannominato Nuova Via della Seta, considerato il più grande progetto di opere infrastrutturali della storia, inteso come veicolo per l’espansione geopolitica della Cina, che a malapena nasconde l’ambizione di costruire in prospettiva un’unica area sul terreno delle alleanze economiche. Si parla di oltre mille miliardi di dollari che la Cina dovrebbe investire lungo molteplici corridoi, terrestri e marittimi, per avvicinare la Cina a buona parte dell’Asia e dell’Europa, passando per Medio-oriente e Africa. Quest’opera, sottolinea Danilo Taino in un recente testo che riflette sulla guerra fredda tra Usa e Cina, è la scommessa dell’Impero Celeste di «costruire attorno a sé un nuovo ordine internazionale, fisico e politico. Un’Eurasia da tenere assieme con infrastrutture, legami commerciali e relazioni diplomatiche, qualche volta vassallaggi, e con al centro Pechino». Un progetto che la Cina ipotizza di realizzare grazie ai suoi ormai potenti «muscoli industriali e finanziari». Come detto, il progetto sottende una sofisticata funzione politico-economica cinese a livello internazionale, sorretta proprio dal ruolo seduttivo di capitali e commerci. Una funzione che risponde non semplicemente a necessità geopolitiche quanto all’edificio economico cinese, fatto di esportazioni e sovracapacità produttiva. La Cina, per quanto abbia ridotto e riorientato la propria crescita sul versante interno, abbisogna comunque di una grande domanda estera per reggere i propri ritmi di sviluppo.
Che la portata della Nuova via della Seta sia enorme lo dimostra il fatto che il coinvolgimento dei partner è iniziato anche sul piano finanziario con la costituzione della Asian Infrastructure Investiment Bank (Aiib) con sede proprio a Pechino. Tra i soci di questo istituto ci sono paesi come la Corea del Sud e l’Australia, tradizionali alleati Usa. Persino la Gran Bretagna partecipa con un’intesa per la City di Londra come centro regolatore internazionale dei contratti stipulati in renminbi, la valuta cinese. Nell’arco di pochi anni l’Aiib ha raggiunto i 68 soci membri e la gran parte delle quote azionarie non fanno capo alla Cina. Partecipano anche Germania e India, in ordine come secondi e terzi azionisti. La natura di questo ambizioso progetto è una grande convergenza di molteplici interessi su scala internazionale, in quanto la Cina costituisce un immenso mercato di sbocco e al contempo una piattaforma produttiva unica. Convergenza che finisce per contraddire gli interessi del rivale principale, gli Usa. Il potere di attrazione di questo progetto è tale che anche i principali alleati degli Usa non disdegnano di parteciparvi, creando continue tensioni diplomatiche e commerciali.
Era pensabile che l’Italia, con le sue debolezze, restasse estranea a tale orbita d’interessi? Il Memorandum costituisce uno dei passaggi del coinvolgimento italiano. È evidente che il confronto non avviene alla pari, anzi si può affermare che, stante il quadro ipercompetitivo, la debolezza di un paese nei confronti della Cina è direttamente proporzionale alla sua funzione subalterna negli accordi. Il problema, dunque, è nel manico. È nell’impostazione generale delle relazioni internazionali. Il profilo a elevata concorrenza endogena dell’Europa rafforza la tendenza a rendere subalterni i paesi più deboli. La Nuova Via della Seta fagocita lungo il proprio percorso ideale di costruzione tutti i paesi che la Cina incontra. Non a caso recentemente il Partito Comunista ha lanciato la parola d’ordine del «ribilanciamento» per circoscrivere le accuse che giungono al governo cinese sui rischi di poca trasparenza nella costruzione delle opere e sul dare vita a una trappola del debito per i paesi coinvolti, i quali patiscono la sfasatura tra l’investimento finanziario richiesto e le possibili ricadute benefiche all’economia interna, finendo per esporsi ai prestiti cinesi. Uno dei principali paesi vittima di questi meccanismi è il Pakistan.Detto ciò, colpisce come emergano segnali di sudditanza o di poca trasparenza nel gestire perlomeno parti del Memorandum con l’Italia. Gli accordi tra Autorità portuale genovese e la China communications construction company (Cccc), una delle principali al mondo nel settore delle costruzioni, appaiono poco chiari. Inizialmente l’intento sembrava una collaborazione in cui il gigante delle costruzioni cinese fornisse assistenza tecnica nella formulazione dei bandi di gara per le opere di implementazione dello scalo ligure, come se in questo vi fosse bisogno di un know howcinese, poi si è scoperto che dove la società cinese intenderà partecipare ai bandi di gara non parteciperà alla loro formulazione. Insomma una fumosità preoccupante su regole e ruoli che non lascia tranquilli già in partenza e che rischia di marginalizzare la funzione di garante della proprietà pubblica e dell’interesse generale. Finendo per confermare che, da qualunque punto si guardi, il rischio di peggiorare il contesto sia molto concreto.
*Marco Bertorello collabora con il Manifesto ed è autore di volumi e saggi su economia, moneta e debito fra cui Non c’è euro che tenga (Alegre) e, con Danilo Corradi, Capitalismo tossico(Alegre).