È un giorno
come un altro, nello scorrere lineare del tempo, quando la madre anziana
telefona al figlio e chiede di essere riportata a casa sua. Perché quella in
cui abita, da quaranta e passa anni, non la riconosce più. Non sa di essere a
Torino, crede di trovarsi a Savona, ma vuole andarsene per tornare a Roaschia,
il paese dove è nata e dove è rimasto il suo mondo bambino. Dove sua madre
ancora l’aspetta.
La vita di
Gina alla moviola è ritornata al suo inizio. Il mondo esterno è sempre quello.
La casa gli oggetti i parenti non sono cambiati, ma è lei, Gina, che si è
trasformata, è diventata una donna senza identità. In affanno, con l’urgenza di
fare, di muoversi, andare lontano dal qui, dove non si raccapezza più. Così “È
ancora lì, tra il già e il non ancora. Un limbo sconosciuto”.
La donna che
è stata moglie e madre, e adesso è nonna, ha perso il filo, le connessioni con
la sua esistenza, il significato e il significante si sono scompaginati, le
parole sono suoni che non corrispondono più al mondo esterno. La realtà, ora,
si è spostata, è tutta nella sua testa che produce emersioni, bizzarri
capovolgimenti, accostamenti sorprendenti.
In Gina.
Diario di un addio (Ponte alle Grazie, 2019), Marco Aime ricostruisce
il mutare degli stati d’animo − dallo stupore alla rabbia, dall’accettazione
alla tenerezza –, con i quali lui e suo fratello e la peruviana Carolina
accompagnano sua madre in questa nuova dimensione. Sostenuta dall’amore
filiale, affinata dallo sguardo da antropologo, nasce una scrittura che
permette di mettere di nuovo in fila la storia di un’esistenza che la malattia,
azzerate le coordinate del tempo e dello spazio, ha privato del suo
orientamento. “Pasticcio, pasticcio, non fa che ripetere questa parola. Tutte
le sue storie, i suoi racconti finiscono in un pasticcio. Il suo orizzonte si è
allontanato, nessun segno ne interrompe l’infinito. Senza una fine ogni storia
rimane lì, sospesa, con il capo, ma senza coda. Un pasticcio, insomma”.
Il logico è
diventato illogico, l’andirivieni di Gina crea situazioni che muovono al riso e
al pianto, le sue espressioni verbali poggiano su una grammatica straniera. Ma
è la forma del diario che riesce a contenere l’insensato, che permette il
ricordo, che dà la possibilità di rappresentare quell’io della madre che può
ancora dialogare con il tu del figlio.
Perché
quello che sconvolge è l’assenza in presenza, l’impossibilità di una relazione,
svanita insieme alla vita passata con gli altri. Gina non riconosce la foto del
marito, non ricorda nulla della sua vita matrimoniale – come nel film La
ragazza del lago, dove il commissario Giovanni Sanzio (Toni Servillo) va a
trovare la moglie nella casa di riposo, ma lei non lo saluta, e sorride
contenta a braccetto di un altro.
I due figli
sono diventati i fratelli della sua infanzia, “ma papà e mamma dove sono?”.
“Non ci sono più, hai ottantacinque anni, mamma, come fanno a essere vivi?” “Io
però non ho saputo niente, nessuno mi ha detto che sono morti. Me lo dici
adesso tu”. Ripetere, insistere, per spiegare e razionalizzare non serve, non
riguarda Gina, smarrita, in perenne attesa: “ogni mattina tutto è da rimettere
in ordine per Gina. Il suo oggi non è la successione del suo ieri, ma qualcosa
di assolutamente nuovo. Nulla la lega al vissuto precedente”. In certi giorni è
il corpo che funziona come allora, “quello stesso cuore e quegli stessi polmoni
sembrano trovare un accordo, riconoscere una memoria perduta. I muscoli fanno per
un attimo quello che la mente non sa più fare. Gina allora esce e scende a
cercare casa sua”.
È rimasto il
dialetto. “Ora l’unico sentiero che sembra non essersi perso nei rovi della
memoria è quello della lingua. Gina l’ha seguito a ritroso, in salita, verso il
paese, verso la sua famiglia, verso l’infanzia. È ritornata lì, da dove è
partita, è con sua mamma, con i suoi fratelli e parla come loro. Non è stato
rapido quel cammino”. Il torinese l’ha scordato insieme alla parte di vita
vissuta con il marito, il savonese è scivolato via, “solo il roaschino è
rimasto a dare voce ai suoi pensieri scardinati”.
Chi
l’osserva e la cura, si interroga sul rapporto tra quel prima e questo poi. Il
caratteraccio pare sempre il suo, poche carezze e nessuna smanceria, di gente
dura fuggita dalla miseria dell’entroterra ligure verso la periferia ponentina
che sbucava sull’Aurelia. E poi Torino, cambi di quartieri che indicavano un
progresso sociale. Ma ora è una bambina spaesata finita in una prigione dalla
quale non sa uscire.
Si sta al
gioco, si asseconda, nella ripetizione di un eterno presente che snerva chi ci
passa la giornata, a un certo punto si inizia a dubitare di tutto, anche
l’ascoltatore si trova immerso in queste “Metastasi impazzite di una storia
venuta da chissà dove”. Poi, in questi giorni tutti ammucchiati, improvviso,
ecco un sorriso. Gina sente il contatto di una mano, ritrova “la felicità di
essere”.
La madre
diventa uno scricciolo. Nella casa di riposo, dove si è dovuto ricoverarla,
tutto si riduce all’essenziale. In ascensore, c’è un grande specchio. “Guarda
fisso il suo volto riflesso, poi sorride e saluta. Certo che ne ha di anni
quella donna! Dice voltandosi”.
Gina. Diario
di un addio non è
un libro sulla vecchiaia, ogni suo frammento tocca un aspetto di una condizione
umana estrema sempre più diffusa, eppure ancora poco indagata. Una collettività
che vive molto a più lungo − in Italia 13,5 milioni hanno più di 65 anni, gli
over 80 sono 4,1 – interroga gli studiosi, ma ci coinvolge tutti. Perché non
abbiamo il controllo sul nostro futuro da vecchi, perché già oggi ci capita di
essere caregiver impotenti. Perché si può cercare di essere dolcissimi e
affettuosi, severi e ironici, rimproveranti e spronanti, in queste situazioni,
però il risultato non dipende da noi, ma dalla chimica di un cervello che i
medici spiegano a noi profani definendolo un emmenthal con i pieni e i vuoti
distribuiti a casaccio. Con un altro linguaggio, Alberto Spagnoli in “…
divento sempre più vecchio”. Jung, Freud, la psicologia del profondo e
l’invecchiamento (Bollati Boringhieri), un testo utile per una
riflessione sul tema, parla di una “corteccia cerebrale che a poco a poco
sparisce, si spengono gradualmente le funzioni di adattamento e di orientamento
della coscienza, mentre emergono contenuti psichici arcaici in forma di
confabulazioni, deliri e immagini allucinatorie”.
Ma è forse
ancora e soprattutto Freud che riesce a descrivere una condizione umana che
appartiene alla sfera dello spaventoso. “La parola tedesca unheimlich (perturbante)
è evidentemente l’antitesi di heimlich (confortevole, tranquillo, da Heim,
casa), heimisch (patrio, nativo), e quindi familiare,
abituale, ed è ovvio dedurre che se qualcosa suscita spavento è proprio perché
non è noto e familiare”. Unheimlich è tutto ciò che avrebbe
dovuto rimanere segreto, nascosto, e che è invece affiorato. Significati
opposti che però si possono anche incontrare.
In una nota
a Il perturbante Freud racconta una sua esperienza: “Ero
seduto, solo, nello scompartimento del vagone-letto quando per una scossa più
violenta del treno la porta che dava sulla toeletta attigua si aprì e un
signore piuttosto anziano, in veste da camera, con un berretto da viaggio in
testa, entrò nel mio scompartimento. Supposi che avesse sbagliato direzione nel
venir via dal gabinetto che si trovava tra i due scompartimenti, e che fosse
entrato da me per errore; saltai su per spiegarglielo ma mi accorsi subito, con
grande sgomento, che l’intruso era la mia stessa immagine riflessa dallo
specchio fissato sulla porta di comunicazione. Ricordo tuttora che
l’apparizione non mi piacque affatto”.
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