Premessa:
queste osservazioni sono state sollecitate dalla lettura del contributo di
Gianni Giovannelli, pubblicato su Effimera a inizio maggio 2019
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Secondo i
dati del governo e dell’Inps, al 1 maggio 2019, sono 1.016.000 i cittadini
che hanno presentato la richiesta del cosiddetto Reddito di Cittadinanza
(RdC), tra quelle compilate on line, sul sito governativo dedicato, e
quelle presentate alle Poste o ai Caf. Ricordiamo che il Governo ha previsto
stanziamenti per un totale di 1.300.000 domande. Secondo le stime dei tecnici
le domande accolte saranno attorno al 70%, quindi 700 mila (poco più della
meta, dunque) il che prevedrebbe un esborso complessivo minore di circa due
miliardi di euro rispetto a quanto stanziato dal Governo.
Nella
conversione del decreto n. 4-2019 nella legge 26-2019, 28 marzo 2019, nuovi
vincoli si sono aggiunti. E ciò può spiegare al momento il minor numero di
domande rispetto a quelle attese. Essi riguardano, in particolar modo, gli
stranieri. Gli immigrati che vorranno accedere al RdC avranno ancora più
ostacoli di quanto già previsto in sede di approvazione del Decreto-Legge.
Costoro, infatti, dovranno certificare tramite la competente autorità dello
Stato estero, il requisito reddituale e patrimoniale e la composizione del
proprio nucleo familiare. La certificazione inoltre dovrà essere tradotta in
lingua italiana e legalizzata dall’autorità consolare italiana (che ne attesta
la conformità all’originale). Sono esclusi da questo adempimento esclusivamente
i soggetti aventi lo status di rifugiato politico.
Inoltre, si
è sancito che il RdC non potrà essere erogato alle persone condannate in via
definitiva; è prevista inoltre la revoca retroattiva, con obbligo di restituzione
delle somme indebitamente percepite, nel caso di successiva condanna. Il RdC
non potrà inoltre essere richiesto prima che siano passati dieci anni dalla
espiazione della condanna, una misura paradossale di natura punitiva, in
contrasto con lo scopo di rieducazione che il carcere dovrebbe avere, secondo
il dettame costituzionale (art. 27).
Infine,
all’articolo 1, il comma 3 è sostituito dal seguente:
“Non ha
diritto al Rdc il componente del nucleo familiare disoccupato a seguito di
dimissioni volontarie, nei dodici mesi successivi alla data delle dimissioni,
fatte salve le dimissioni per giusta causa”.
Tale nuovo
vincolo è stato reso necessario dopo che, in modo inaspettato, nella
commissione Lavoro del Senato, era stato approvato un emendamento (a prima firma
Matrisciano, M5s) che introduceva l’obbligo di accettare una qualunque
offerta di lavoro (pena la decadenza del sussidio), se la sua retribuzione era
come minimo pari a 780 euro (l’ammontare massimo del RdC) accresciuta del 10%,
per un totale di 858 euro.
Apriti
cielo!
Si è fatto
immediatamente notare che un numero non piccolo di lavoratori e lavoratrici,
inquadrati con contratti di lavoro stabile (non consideriamo il “nero”), già
oggi prendono buste paga inferiori. L’Inps e l’Istat convergono nell’affermare
che vi sono ben circa 4,2 milioni di persone che ricevono salari più bassi!
Ciò ha
allarmato soprattutto le imprese e gli amanti dell’etica del lavoro (dalle
associazioni padronali, al Sole 24ore, ai maggiori quotidiani nazionali)
denunciando la pericolosità di un tale provvedimento che incentiverebbe l’uso
del “divano” e non la partecipazione al mercato del lavoro. Tale dibattito
infatti si è incentrato sulla natura da “fannulloni” soprattutto dei giovani e
non ha per nulla sfiorato invece il livello indegno dei salari italiani, tra i
più bassi d’Europa. Si è preferito guadare al dito, invece che alla luna!
Da qui le
preoccupazioni di molte associazioni di categoria che intravedono la
difficoltà, d’ora in poi, di reclutare personale con gli “stipendi” di
prima. Un esempio lampante è quello dell’apprendistato dove le
retribuzioni sono assai basse. Ad esempio, un’apprendista parrucchiere al primo
anno, in base ai trattamenti attuali, percepisce circa 825 euro per 40 ore
settimanali. E lo stesso può dirsi a maggior ragione in caso dilavori
stagionali, part-time, a chiamata, di lavori nell’artigianato, nel commercio o
nella ristorazione.
Altre
posizioni esposte al rischio “rifiuto” sono le attività agricole stagionali,
dove per 180 giornate anno, si arriverebbe, col minimo contrattuale, a 505,05
euro al mese. Poi vanno considerati i part-time: un part-time al 50 per cento,
col Ccnl alimentari-industria, di 5° livello, percepirebbe circa 807,41 euro per
20 ore a settimana e un commesso di negozio di 4 livello, nella stessa
situazione, non più di 808,34 euro.
Nelle
imprese di pulizie e dei servizi integrati si stima un 70 per cento di
lavoratori part-time su una platea di 500mila addetti: dai pulitori ai
portinai, dagli addetti mensa ai manutentori. Con queste retribuzioni, il
percettore di reddito potrebbe essere tentato di dire no ai lavori in questione
in caso di trattamento inferiore o equivalente a quello del sussidio. La stessa
situazione potrebbe condizionare i Call center e portare conseguenze in
attività come quelle delle colf o delle badanti.
L’emendamento al
comma 3 dell’articolo 1, prima ricordato, impedisce che ci possa essere un
effetto sostituzione tra chi già lavora e si licenzia per accedere a un RdC
maggiore ma non impedisce tuttavia di esercitare da parte dei percettori
inoccupati del RdC (fino ad un massimo di tre volte) il diritto al rifiuto del
lavoro. Ed è proprio questo l’aspetto “sovversivo” che fa infuriare i
benpensanti dell’etica lavorista che, come sappiamo, in Italia si
distribuiscono trasversalmente tra i diversi schieramenti politici e sindacali.
Due sono le
questioni che al riguardo è necessario evidenziare.
La prima,
ovvia, è prendere atto del problema salariale che investe l’Italia oramai da un
quarto di secolo, da quanto è stata abolita la scala mobile con gli accordi del
1992-93. Tale questione è collegata alla necessità, oramai, inderogabile di
introdurre un salario minimo per coloro che non fanno riferimento ai contratti
collettivi di lavori o hanno tipologie precarie di para-subordinazione e
autonome etero-dirette. Tali realtà sono soprattutto presenti nei settori del
terziario avanzato, nella logistica, nei servizi di welfare tramite il ricorso
a cooperative o a forme di volontariato sussidiario.
La seconda
questione è la seguente: si è più volte sostenuto su queste pagine come la
forte condizionalità della misura porti ad annoverare il RdC targato 5s più
come una misura di workfare che di autodeterminazione. Questo emendamento, così
tanto contestato dal mainstream e dal conservatorismo capitalista, sembra
invece andare in direzione opposta. Potrebbe in teoria incrementare il grado di
rigidità dell’offerta di lavoro soprattutto per quelle occupazioni mal pagate,
favorendo da questo punto di vista la necessità di incrementare i salari. Un
risultato, quest’ultimo, che fa bene anche alla stessa economia italiana anche
da un punto di vista capitalistico e per più di un motivo.
Il primo è
l’effetto moltiplicatore sulla domanda interna (la cui stagnazione è tra le
principali cause della scarsissima crescita del Pil) che si aggiungerebbe a
quello – comunque ridotto – dello stesso RdC.
Il secondo
motivo, insieme ad una maggior continuità di reddito, potrebbe consentire un
miglior sfruttamento di quelle economie di apprendimento e di rete che sono
oggi alla base della crescita della produttività sociale, variabile oggi
nevralgica nella competizione globale e che in Italia è particolarmente
penalizzata dall’esplosione della precarietà del lavoro e di vita: una
precarietà esistenziale che incide negativamente sulla possibilità di aspirare,
se sotto ricatto, al “diritto alla scelta del lavoro” e quindi ad una
maggiore efficienza della prestazione lavorativa stessa. Tuttavia, tale
possibile effetto rischia di essere depotenziato dalla scarsità delle risorse e
dal basso livello medio di erogazione del RdC, che, secondo le parole del neo
presidente Inps, Pasquale Tridico, si dovrebbe attestare in media sui 520 euro
a famiglia (non a persona).
In
conclusione, un maggior livello del reddito di base e l’eliminazione il più
possibile di ogni forma di condizionalità, utilizzando come fonte di
finanziamento un aumento della progressività nel sistema fiscale (in direzione
ostinata e contraria alla flat tax), potrebbe essere un insieme di strumenti,
tra altri, per rilanciare una politica economica più equa e più efficace.
Il rifiuto
del lavoro (mal pagato, in nero, sfruttato, ricattabile) è sempre foriero di
innovazione, crescita e benessere. Ricordiamocelo!
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