Con lo sguardo perso nello strappo striato
di un vecchio manifesto del circo ormai quasi distrutto, il protagonista abita
la pensilina dimenticata torturandosi le dita. Sotto il circo si
sovrappongono strati di colla copiosa e feste patronali, offerte sulle
automobili, vacanze in crociera, stagioni dei saldi. Il fondo di latta è
deformato dal caldo. Sull’altro lato volgarità sgrammaticate e numeri di
telefono come vendette e scherzi perfidi, gomme da masticare indurite,
ossidazioni irregolari.
La fermata è un parallelepipedo di vuoto
con lo scheletro di metallo. La panchina sverniciata ha un posto soltanto. Il
protagonista resta là e fissa intontito le stratificazioni di carta. È nel
periodo della calma fiduciosa. Ogni dettaglio cela una storia, un fascino nel
quale perdersi, una linea da ridisegnare mentalmente, come ricalcare il
personaggio di un faccione dei fumetti. L’esterno è tutto pervaso da
un’irrinunciabile attrattività, una forza magnetica distraente e bellissima.
Tutto è carismatico, ogni cosa merita di essere guardata, e quella forza
debella la necessità della riflessione. Perciò l’alone scuro sul laccio della
scarpa bianca è tollerato e perdonato, elevato a oggetto di studio e quasi a
culto. Il protagonista si interroga. Come ha fatto quella macchia ad arrivare
fin lì? Dove ho posato i miei passi per arrivare fino a questa pensilina? Lo
stesso sono le mani sudate, giallastre sulle nocche e arrossate per il resto,
inumidite di freddo. Uno sbuffo d’inchiostro blu sul polpastrello dell’indice.
Quand’è l’ultima volta che ho preso in mano una penna a sfera? Come ho potuto
macchiarmi? Ho perso del tutto la mia confidenza con un oggetto così semplice?
Si chiede aprendo i palmi verso l’alto, come se pregasse una divinità del tempo
e degli inconvenienti. Dall’osservazione ravvicinata degli insignificanti, il
protagonista in un attimo varca la soglia dell’angoscia. Abbandona i poster
promozionali e si volta da una parte e dall’altra. Se non arriva, è forse
perché sono nel posto sbagliato. O in anticipo, o in ritardo – si dice senza
muovere le labbra o fare rumore. I suoni turberebbero il clima profondamente
concentrato e profondamente severo in cui galleggia. La strada è piatta e
larga, senza orizzonti. Più che concludersi sfuma, dissolta in una nebbia avida
che la inghiotte e la porta con sé. A un certo punto, dal fondo del grigiore
nebuloso, qualcosa emergerà e verrà fin qua davanti e si fermerà e aprirà le
porte e io salirò a bordo e mi porterà dove dovrò – si ripete il protagonista.
Però mentre si rassicura in parte trema, dubita e freme. Non ha memoria del suo
arrivo, non c’è un testimone ad averlo salutato, accolto, nessuno che gli abbia
proposto di sedersi al posto dei propri bagagli. È solo, ha un biglietto
stropicciato sul fondo della tasca destra, ormai usurato dal sudore freddo
della mano che costantemente ne ha verificato la presenza e l’effettiva
concretezza. E non ha che vaga speranza per il futuro, promesse di destinazione
senza luogo, idealizzazione di stati d’animo, possibilità sorridenti. Prendere
posto sui sedili dell’immaginazione è il passaggio verso l’autogratificazione.
Proietta se stesso oltre lo spazio, la pensilina è un pretesto e un simbolo,
una necessità da studiare e da vivere, la condizione necessaria dell’arrivo, la
meta prima della meta, il rituale. Niente ha importanza se non ciò che sta per
cominciare. Ora non ci sono dettagli da memorizzare, faccende da sbrigare,
concretezze da constatare. Tutto è nel fra poco. Monta dal fondo dello stomaco
un calore profondo, capace di deformare la curva della bocca – la curva interna
della bocca – in un sorriso – un sorriso interno – e diventare consolazione.
Essere arrivato fin lì è già abbastanza, perché è quello il vero partire:
arrivare alla pensilina del domani. Che non arriva, non dà cenni, non fa
rumore, non appare. L’autogratificazione è finita. Ora il panico. L’epifania
del destino è oltre la curvatura sinistra dell’orizzonte, tarda e sonda la
pazienza. Il protagonista si domanda se ne valga la pena, guarda indietro ai
suoi stati mentali, gli sembra di essere sdraiato sul tavolo della tortura e
vedere se stesso con le pinze arroventate, non riesce a lasciarle cadere e non
riesce ad alzarsi. Supplica il treno, l’autobus, la corriera, il carro,
l’automobile, il taxi, qualunque cosa debba arrivare, di arrivare. Non ce la fa
più, non sa dare un nome al supplizio, gli manca l’aria, vuole volare e lasciar
stare, andare da solo dove deve e dove vuole, ti prego arriva, arriva, arriva.
Vienimi a prendere. Scuote la testa e ricomincia. Il poster del circo annuncia
spettacoli per l’aprile di qualche anno fa. Studia daccapo, piega le dita
ancora, ricontrolla il biglietto, soppesa il bagaglio, si sporge verso sinistra
e poi verso destra. Percepisce una frenesia sottocutanea viva, lo scuote e dai
piedi risale per le gambe e fino all’inguine. Si piega, inarca la schiena, è
contorto dai brividi indolori e incontrollabili. Allora si alza. Cammina
ricalcando la larghezza precisa della pensilina con passi ampi, sempre più
frenetici. Gli pare di sentirlo arrivare, fa uno scatto e si volge. La nebbia
lo guarda come una sfinge imperscrutabile, muta e spietata. Niente. Ancora
niente. Il protagonista allora corre – se due passi possono dirsi corsa – ad
afferrare la valigia, ne issa il manico, lo stringe e lo trascina via, e le
rotelle piene rombano di una specie di gorgoglio meccanico sulla quadrettatura
del marciapiede infinito. È la rassegnazione. Avanza deciso nella direzione alla
quale ambisce da mesi, da anni, da sempre. Attorno il nulla lo avvolge, è un
ambiente impalpabile. Da quando è così? Da quando ho smesso di guardare?
Quand’è arrivata la nebbia? La maniglia del trolley è umida e scivola sotto la
presa. Per quanto tempo sono rimasto seduto? Procede sicuro, guarda le scarpe
bianche scorrere sotto il suo sguardo accigliato, ascolta le ruote accompagnare
il peso della valigia.
Senza avvisaglie, dal fondo della strada,
alle sue spalle, arriva un pullman enorme, lucido, comodo, nuovo. Fa un suono
preciso e mansueto. La pensilina è lontanissima, impossibile tornare indietro e
cercare di fermarlo. Il protagonista non lo sa, si volta e corre a perdifiato.
A metà strada abbandona il bagaglio. Corre più forte. La nebbia si dirada e
appaiono i profili delle case, degli alberi, dei passanti. Il pullman rallenta
di fronte alla fermata. Si ferma. Il conducente apre lo sportello e guarda
fuori. Non si cura del protagonista, che corre senza quasi respirare nella sua
direzione, gli va quasi addosso. Le sue scarpe sono una tempesta di schizzi di
fango e terra. Aspetti, arrivo – grida per quanto riesce. Tende le braccia in
avanti e si agita. C’è il sole, è una bella giornata di primavera e la gente
passeggia mangiando i primi gelati della stagione. Il protagonista corre
sempre, infila una mano in tasca ed estrae il biglietto consunto, lo sventola
di fronte al parabrezza limpido. Il conducente non lo vede, ha occhi solo per
la pensilina, e non c’è nessuno. Allora preme il pulsante rosso del cruscotto e
i pistoni idraulici dello sportello si azionano e lo sportello si richiude con
uno sbuffo. Il protagonista sente di piangere, come il crollo di una
cristalleria al centro del cuore. Manca pochissimo, adesso lo raggiungerò,
busserò sul faro e si accorgerà di me, mi scuserò, riaprirà, prenderò posto,
andrò dove devo e pazienza per la mia valigia nuova, comprata per questo
viaggio. Il pullman intanto è in marcia, si avvia lungo la strada, il
protagonista è a due passi dalla fermata, a una distanza incolmabile dal suo
sedile. Ha il suo biglietto in mano, il fiatone, il volto paonazzo e gli occhi
lucidi. È tornata la nebbia, il mondo è scomparso, il bagaglio è lontano ma chi
se ne importa. Ne arriverà un altro, prenderò il prossimo – prova a suggerirsi
per calmarsi. Si siede, tiene la testa fra le mani, lascia che il grigiore
ingoi il paesaggio. Guarda alla sua destra, sulla parete di latta. Il pullman è
lontano. Con lo sguardo perso nello strappo striato di un vecchio manifesto del
circo ormai quasi distrutto, ricomincia daccapo lo strazio dell’attesa.
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