Isolata dalla Cisgiordania e da Gerusalemme est
occupate; sotto assedio da oltre un decennio; sottoposta a discordie politiche
interne, Gaza svolge il più complicato dei ruoli nel conflitto
israelo-palestinese.
La sua posizione, sia come teatro di una catastrofica
crisi umanitaria che come sede del potere di Hamas – l’organizzazione
palestinese di resistenza armata definita organizzazione terroristica da
Israele e dai suoi alleati – ha fatto del destino
di Gaza uno dei nodi centrali di ogni trattativa che cerchi di occuparsi
correttamente del futuro dei palestinesi
Questo articolo fa parte della serie “Done Deal
[accordo fatto]” di Middle East Eye, che indaga su quanti degli aspetti attesi
del cosiddetto “accordo del secolo” del Presidente USA Donald Trump rispecchino
una realtà che già esiste sul terreno.
Prenderà in esame come il territorio palestinese sia
già stato di fatto annesso, perché i rifugiati non abbiano prospettive
realistiche di tornare un giorno nella loro patria, come la Città Vecchia di Gerusalemme
sia sotto dominio israeliano, come vengano usati minacce finanziarie e
incentivi per indebolire l’opposizione allo status quo e come Gaza sia tenuta
in uno stato di assedio permanente.
Ma Gaza è in un vicolo cieco. Il soccorso umanitario, lo sviluppo
economico e l’autodeterminazione palestinese sono considerati troppo spesso nei
piani di pace come incompatibili tra loro – e questo include l’ “accordo del
secolo” del Presidente USA Donald Trump.
Il ruolo dell’Egitto nell’assedio israeliano
Intrappolata tra Egitto e Israele, lo status di Gaza
come enclave fin dalla creazione dello Stato di Israele ha determinato molto
della sua esistenza e anche della posta in gioco.
Nel 1948 la Striscia di Gaza contava circa 80.000
abitanti – ma quel numero arrivò velocemente ad una stima di 200.000, quando i
rifugiati palestinesi fuggirono dalle forze israeliane. Sessant’anni dopo Gaza
ha circa due milioni di abitanti e la reputazione di essere una delle aree più
densamente popolate al mondo.
Alla fine degli anni ’40 Gaza era governata
dall’esercito egiziano, con un breve periodo di autogoverno ampiamente
simbolico, prima di essere occupata da Israele dopo la guerra arabo-israeliana
del 1967.
Come in Cisgiordania e a
Gerusalemme est, Israele creò insediamenti in tutta la Striscia di Gaza
contravvenendo al diritto internazionale. Fu in questo contesto che nel 1987 Hamas si impose
come braccio armato della Fratellanza Musulmana nei primi giorni della prima
Intifada.
Mentre nel 1993 gli Accordi
di Oslo prevedevano un completo ritiro israeliano da Gaza entro un periodo di
transizione di cinque anni, questa parte dell’accordo di pace – come molte
altre parti – non si realizzò. Fu solo dopo la seconda Intifada, terminata nel 2005, che Israele
evacuò le sue 25 colonie da Gaza: alla fine di quell’anno furono trasferiti
9.000 coloni.
Hamas vinse le elezioni legislative del 2006, ma
subito dopo scoppiò il conflitto con Fatah, il partito dominante dell’Autorità
Nazionale Palestinese (ANP). La faida di fatto lasciò Gaza sotto un’ amministrazione
guidata da Hamas, separata dall’ANP guidata da Fatah nella Cisgiordania
occupata.
Quando Hamas ottenne il
controllo della Striscia, Israele impose un rigido assedio a Gaza, sostenuto
anche dall’Egitto sul confine meridionale dell’enclave.
Israele non ha più una
presenza militare permanente a Gaza, ma continua ad esercitare il controllo. L’accesso all’elettricità si
aggira tra le 3 e le 12 ore al giorno. Le riduzioni di combustibile mettono a
rischio il funzionamento di vitali infrastrutture sanitarie. L’acqua pulita è
diventata una merce rara. Oltre un milione di persone vive con 3,50 dollari, o
meno, al giorno. Il mare, un tempo vitale fonte di reddito per gli abitanti di
Gaza, è sottoposto a restrizioni dei diritti di navigazione e pesca che
cambiano continuamente.
Dodici anni di assedio, unitamente a tre guerre,
innumerevoli scoppi di violenze e la repressione di un movimento di protesta di
massa dal 2018 hanno portato le Nazioni Unite a denunciare ripetutamente che
Gaza è di fatto diventata “invivibile”.
L’unità dei palestinesi è andata in pezzi
A partire dalle elezioni palestinesi del 2006 Gaza è
stata intrappolata tra due conflitti probabilmente irrisolvibili: quello tra
palestinesi ed israeliani e quello fra gli stessi palestinesi.
L’ANP vuole consolidare il proprio potere nei
territori occupati, ma Hamas teme di venire emarginata sotto un governo
unificato. Vi è disaccordo tra Fatah e Hamas anche sull’atteggiamento da
adottare verso Israele, soprattutto riguardo al futuro del braccio militare di
Hamas.
La rottura politica che dura
ormai da 13 anni ha anche impedito qualunque attività diplomatica credibile tra
Israele e Palestina. Come
potrebbe realizzarsi un’efficace discussione sullo Stato palestinese quando la
stessa dirigenza palestinese è aspramente divisa?
Innumerevoli tentativi di
riconciliazione – promossi da Egitto, Arabia Saudita, Qatar e Siria – sono
falliti. Ma il
fallimento di questi colloqui non è dovuto soltanto ad irreconciliabili
differenze tra i due partiti palestinesi. Israele ha molto da guadagnare dal
continuo dissidio tra palestinesi e spesso ha fatto pressioni militari e
finanziarie quando un riavvicinamento tra le parti palestinesi sembrava alla
portata.
Nel 2011 il Primo Ministro israeliano Benjamin
Netanyahu ha reagito ad un accordo di unificazione, firmato dal Presidente
dell’ANP Mahmoud Abbas e dall’allora capo dell’ufficio politico di Hamas Khaled
Meshaal, definendolo “un colpo mortale alla pace e un grande regalo al
terrorismo.” Israele ha quindi sospeso il trasferimento di 80 milioni di
dollari di tasse che esso raccoglie per conto dell’ANP.
Il 2 giugno 2014 Abbas promise un governo tecnocratico
di unità palestinese guidato dal Primo Ministro Rami Abdallah. Dieci giorni
dopo tre adolescenti israeliani furono rapiti in Cisgiordania. Le forze
israeliane lanciarono una feroce caccia all’uomo, accusando Hamas del
rapimento: i loro corpi furono trovati due settimane dopo.
Alla fine di luglio la polizia israeliana disse che il
rapimento e le uccisioni erano opera di una “cellula isolata” – ma a quel punto
Israele e Hamas da tre settimane erano coinvolti in una devastante guerra a
Gaza, che causò la morte di oltre 2.000 palestinesi e 70 israeliani.
Alcuni osservatori ritengono che la ricerca dei
ragazzi e il conseguente attacco ad Hamas fossero meri pretesti per vanificare
gli sforzi di unificazione palestinese e, di conseguenza, la creazione di uno
Stato palestinese.
Un futuro nel Sinai?
Non vi sono segnali di una duratura riconciliazione
tra Fatah e Hamas – quindi questo dove condurrà Gaza?
Lo status particolarmente delicato dell’enclave –
isolata tra i due governi ostili di Netanyahu e del Presidente egiziano Abdel
Fattah el-Sisi, e alle prese con una crisi umanitaria di proporzioni
catastrofiche – ha spinto molti mediatori a cercare di affrontare le sue
questioni separatamente da più ampie discussioni sull’autodeterminazione
palestinese.
Nel 2015 l’ex Primo Ministro britannico Tony Blair
incontrò in diverse occasioni Meshaal – la prima volta in cui Hamas fu il
principale rappresentante palestinese in sede di colloqui.
Pare che Blair abbia offerto a Hamas una completa
eliminazione del blocco di Gaza, aiuti per la ricostruzione dopo la guerra del
2014 e la possibilità di un porto marittimo e di un aeroporto. In cambio Hamas
avrebbe dovuto accettare un cessate il fuoco illimitato con Israele. Alla fine
tuttavia Blair non riuscì ad ottenere l’appoggio israeliano ed egiziano al suo
piano.
Alla fine del 2018 sono
emerse informazioni secondo cui, come parte dell’“accordo del secolo”,
Washington ed Israele stavano facendo pressioni sull’Egitto perché trasformasse
parti della regione del Sinai settentrionale in una zona industriale e di
infrastrutture per dare lavoro ai palestinesi e aiutare Gaza.
L’amministrazione Trump ha negato il piano, ma non
sarebbe la prima volta che è stata suggerita questa idea.
Negli anni ’50 l’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite
per i rifugiati palestinesi, propose che la sovrappopolazione di Gaza potesse
essere alleggerita espandendo il territorio verso sud lungo la costa tra le
città egiziane di al-Arish e Port Said – un piano che all’epoca fu
categoricamente respinto dai rifugiati palestinesi.
Il giornalista e ricercatore palestinese Adnan Abu
Amer ha detto a Middle East Eye che vent’anni dopo, facendo seguito alla guerra
arabo-israeliana del 1973, Israele tentò di convincere il Presidente egiziano
Anwar al-Sadat ad annettere totalmente Gaza all’Egitto.
Per quanto storico, l’ approccio a Gaza come questione
a parte durante colloqui non è piaciuto a tutti. Per Saeb Erekat, il segretario
generale dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), gli
sforzi per negoziare una tregua tra Hamas e Israele proprio mentre Israele
applica misure punitive contro l’ANP stavano deliberatamente “accentuando la separazione
(tra palestinesi) con tutti i mezzi possibili” nel tentativo di “distruggere il
progetto nazionale palestinese consistente nella creazione dello Stato
palestinese indipendente e sovrano.”
I piani finanziari falliscono
Intanto l’urgente bisogno di Gaza di soccorso
economico ed umanitario è stato a lungo al centro di conferenze e colloqui di
pace – ma raramente messo in pratica.
Secondo Abu Amer, nel 1991
durante la conferenza di pace di Madrid furono avanzati piani per lo sviluppo
economico di Gaza. Gli
Accordi di Oslo del 1993 auspicarono una cooperazione su petrolio e gas tra
israeliani e palestinesi per sostenere l’industria di Gaza. Abu Amer ha detto a
MEE che i progetti per un’azienda petrolifera a Gaza furono visti come un
elemento centrale nella costruzione del futuro economico di un previsto Stato
palestinese.
Nel corso degli Accordi di Oslo furono proposti
progetti per una fabbrica, un porto marittimo ed un aeroporto a Gaza: di essi,
solo l’aeroporto divenne realtà. Inaugurato
dall’allora Presidente USA Bill Clinton nel 1998, l’aeroporto internazionale
Yasser Arafat ebbe vita breve: nel 2000 venne distrutto dalle forze israeliane
durante la seconda Intifada.
Progetti per un porto
marittimo sono stati regolarmente suggeriti, anche da politici israeliani. Ma finché permane l’assedio
israeliano, compreso il divieto di importazione a Gaza di prodotti “a doppio
uso”, come i materiali da costruzione, le iniziative economiche possono essere
solo teoriche.
Mentre Israele è stato il principale responsabile nel
mantenere Gaza in condizioni di crisi umanitaria, persino personaggi israeliani
hanno visto il pericolo creato da un territorio palestinese sempre più
impoverito e non in grado di sopravvivere.
È stato rivelato che a
settembre ufficiali della sicurezza israeliana hanno fatto pressione sul loro
governo perché trovasse una fonte alternativa di aiuti per Gaza. Si temeva che la decisione di
Trump di interrompere i finanziamenti all’UNRWA potesse peggiorare la
situazione umanitaria dell’enclave, che poteva degenerare in una vera e propria
guerra.
Intanto in Israele i politici di estrema destra, che
negli ultimi anni hanno accresciuto la propria influenza nel panorama
israeliano, hanno auspicato un “duro e sproporzionato” intervento militare
contro Hamas.
In condizioni giudicate invivibili dalle
organizzazioni internazionali e con uno stallo nei colloqui tra ANP e Israele,
il futuro di Gaza e dei suoi due milioni di abitanti appare fosco.
(Motasem Dalloul ha inviato
corrispondenze dalla Striscia di Gaza.
Traduzione di Cristina Cavagna pubblicata
originariamente su Zeitun)
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