Il trattamento riservato dalla Gran Bretagna a Julian
Assange dimostra in maniera indiscutibile come il governo di Londra stia sempre
più agendo senza nemmeno la pretesa di rispettare le norme democratiche del
diritto internazionale. Questa conclusione, tutt’altro che sorprendente, è
stata confermata nei giorni scorsi dalla reazione degli ambienti conservatori
di potere alla pesantissima accusa rivolta dalle Nazioni Unite ai carnefici del
fondatore di WikiLeaks. Lunedì, intanto, un tribunale svedese ha
deliberato parzialmente a favore di Assange, riducendo le possibilità di una
sua prossima estradizione in Svezia.
Com’è noto, il “relatore speciale” ONU sulla Tortura,
l’autorevole docente svizzero Nils Melzer, aveva espresso durissime parole di
condanna per “la continua campagna di soffocamento, intimidazione e
diffamazione” condotta contro Assange, “non solo negli Stati Uniti, ma anche
nel Regno Unito, in Svezia e, più recentemente, in Ecuador”. Melzer assicurava
di non avere mai assistito, “in vent’anni di lavoro con vittime di guerre,
violenze e persecuzioni politiche”, a un complotto come quello in atto contro
il giornalista australiano.
Un complotto orchestrato e condotto da “un gruppo di paesi
democratici”, intenti “deliberatamente a isolare, demonizzare e abusare di un
singolo individuo per un periodo così lungo e con così poco interesse per il
diritto e la dignità umana”. A congiurare contro Assange, ha spiegato ancora il
rappresentante delle Nazioni Unite, non sono soltanto i governi citati, assieme
a quello australiano, disinteressato a difendere i diritti di un proprio
cittadino, ma anche la stampa ufficiale – dal Guardian al New
York Times – e addirittura i giudici coinvolti nel procedimento
legale.
Melzer aveva visitato Assange nella prigione di massima
sicurezza in cui è “ospitato” e ha concluso che quest’ultimo mostra “tutti i
sintomi tipici di una prolungata esposizione a tortura psicologica”, fatti tra
l’altro di “stress estremo, ansia cronica, intenso trauma psicologico” e “un
senso di minaccia proveniente da ogni parte”. Il rapido deterioramento delle
condizioni di salute di Assange era stato reso noto settimana scorsa da
esponenti di WikiLeaks, i quali avevano diffuso la notizia del
suo trasferimento al reparto medico del carcere di Belmarsh, comunemente noto
come la “Guantanamo britannica”.
Del disfacimento avanzato della democrazia in Gran Bretagna
si è avuto un altro assaggio con la risposta al relatore ONU sulla Tortura da
parte del ministro degli Esteri di Londra, Jeremy Hunt. Su Twitter,
Hunt ha definito “sbagliate” le accuse di Nils Melzer, visto che Assange aveva
“scelto di nascondersi nell’ambasciata [dell’Ecuador]” ed era “sempre stato
libero di andarsene e affrontare la giustizia”. Per il capo della diplomazia
britannica, l’intervento dell’ONU comprometterebbe perciò la libertà e
l’imparzialità della giustizia nel considerare il caso Assange.
La valanga di menzogne di Jeremy Hunt non è rimasta senza
risposta. Melzer ha infatti scritto a sua volta sul profilo Twitter del
ministro conservatore, affermando correttamente che Assange era libero di
lasciare l’ambasciata ecuadoriana a Londra esattamente come “qualcuno che si
trovi su un gommone in una vasca di squali”. I timori del numero uno di WikiLeaks di
essere estradato negli USA, che lo spinsero appunto a chiedere asilo al governo
di Quito, sono stati definitivamente confermati qualche settimana fa, quando il
dipartimento di Giustizia americano ha reso noti 17 capi d’accusa nei suoi
confronti in accordo con il cosiddetto “Espionage Act” del 1917, mettendolo a
rischio di una condanna fino a 170 anni di carcere sostanzialmente per avere
praticato la professione del giornalista.
Sempre Melzer ha poi ricordato di avere descritto nel dettaglio
il comportamento tutt’altro che imparziale e obiettivo dei tribunali britannici
in una lettera indirizzata al governo di Theresa May. La persecuzione di
Assange è stata evidente non solo dall’atteggiamento arrogante e intimidatorio
dei giudici che hanno valutato la sua situazione, ma anche e soprattutto dalla
sentenza sommaria emessa nei suoi confronti poco dopo l’arresto illegale della
polizia di Londra all’interno dell’ambasciata ecuadoriana lo scorso 11 aprile.
Assange era stato condannato a una pena senza precedenti di
50 settimane di detenzione solo per avere violato i termini della libertà
vigilata, oltretutto per sfuggire alla concreta minaccia di estradizione negli
Stati Uniti. Non solo, il verdetto era stato formulato letteralmente poche ore
dopo il suo rapimento per mano della polizia. Per il relatore ONU sulla
Tortura, ciò è incredibilmente insolito, poiché, “secondo le consuete norme di
legge, ci si aspetta che a un arrestato vengano concesse almeno un paio di
settimane di tempo per preparare la propria difesa”. Il meccanismo della
vendetta politica contro Assange si è infine concretizzato con la detenzione
nella prigione di Belmarsh, solitamente destinata a ospitare terroristi e
pericolosi assassini.
Nella vicenda di Julian Assange è così in gioco il
principio stesso della libertà di stampa e il diritto di pubblicare documenti
anche riservati che rivelino i crimini di un determinato governo. Parecchi
media “mainstream” sembrano perciò avere riconosciuto, sia pure tardivamente,
la minaccia rappresentata dalle accuse mosse contro il fondatore di WikiLeaks da
parte dell’amministrazione Trump. A parte alcuni editoriali dai toni più o meno
allarmati, non vi è tuttavia traccia di una mobilitazione a favore di Assange,
mentre gli attacchi personali contro quest’ultimo sono continuati anche nelle
settimane seguite al suo arresto illegale.
In definitiva, i media ufficiali in tutto l’Occidente
continuano a essere sostanzialmente disinteressati alla sorte di Assange perché
il suo lavoro e quello di tutti i membri di WikiLeaks rappresentano
un esempio dell’integrità e dell’impegno giornalistico che la stampa odierna ha
in larga misura abbandonato, essendo ormai controllata in buona parte da grandi
interessi privati e ridotta a poco più di una cassa di risonanza della
propaganda governativa.
Il caso Assange ha dunque accentuato le tendenze
autoritarie di governi come quello di Londra, non a caso in perenne crisi
politica e di legittimità. L’ex diplomatico britannico e commentatore
indipendente, Craig Murray, ha sostenuto che la classe dirigente d’oltremanica
“semplicemente si rifiuta di riconoscere le preoccupazioni sollevate dalle
Nazioni Unite su Assange” e si affida “allegramente alla bolla di pregiudizi
creata dalle élites politiche e mediatiche”.
Lo stesso ex ambasciatore britannico ricorda opportunamente
come l’indifferenza di Downing Street per i richiami dell’ONU, oggettivamente
umilianti per una presunta democrazia, non sia un fatto isolato, ma faccia
parte di una deriva in atto da tempo che ha portato il Regno Unito a
comportarsi da vero e proprio “stato canaglia”. In quanto tale, il governo di
Londra “ha abbandonato il proprio appoggio”, anche formale, “al sistema basato
sul diritto internazionale che, in buona parte, la Gran Bretagna stessa ha
contribuito a creare”.
Se ciò è vero per questo paese, lo è evidentemente ancora
di più anche per gli Stati Uniti, e vale anche per la Svezia, dove è stato
riaperto il procedimento di estradizione in base alle vecchie e
ultra-screditate accuse di stupro nei confronti di Assange, e l’Australia,
paese di cui quest’ultimo è cittadino e che ha di fatto collaborato con Londra
e Washington nella sua persecuzione. Per quanto riguarda la Svezia, lunedì un
giudice di Uppsala ha respinto la richiesta di arresto presentata dai
procuratori incaricati del caso Assange. Questi ultimi dovranno perciò
limitarsi a interrogare il fondatore di WikiLeaks in
Inghilterra, rinunciando invece all’estradizione.
L’accanimento contro Assange continua ad accompagnarsi a
una condotta pubblica all’insegna della massima ipocrisia, necessaria a
mostrare un’apparente aderenza ai principi democratici, senza la quale la vera
natura di politici moralmente insignificanti come Jeremy Hunt sarebbe
clamorosamente smascherata. A riprova di ciò, mentre Assange languiva nel lager
di Belmarsh in condizioni di salute sempre più precarie, nei giorni scorsi lo
stesso ministro degli Esteri britannico ha partecipato a un evento organizzato
a Glasgow, in Scozia, per celebrare pubblicamente l’importanza della libertà di
stampa e del lavoro dei giornalisti indipendenti, chiamati a rivelare i fatti
sgraditi ai potenti.
In realtà, come dimostra il trattamento riservato a Julian
Assange, l’unica forma di libertà di stampa tollerata dai governi di Londra o
Washington è quella che si adegua alla linea ufficiale e le uniche voci del
giornalismo “indipendente” che essi intendono sostenere sono eventualmente
quelle che risultano convenienti alla promozione dei propri interessi in paesi
rivali dal punto di vista strategico, come Russia, Cina o Iran.
La condotta del governo britannico nel caso Assange è
notoriamente da collegare al servilismo nei confronti di Washington e, ancora
una volta, a confermare questa realtà è stato in questi giorni lo stesso
ministro degli Esteri di Londra, con un atto pubblico di vigliaccheria e di
totale sottomissione agli interessi americani difficilmente eguagliabile.
Intervistato domenica da CBS News sulla
sua candidatura alla successione di Theresa May alla guida dei “Tories” e del
governo britannico, Hunt ha affermato falsamente che i “crimini” di Assange
hanno causato la morte di numerose persone e che, in caso di successo
nell’imminente voto interno al suo partito, non si opporrebbe alle richieste
che intendono costringerlo ad “affrontare la giustizia” negli Stati Uniti. Ciò
che l’aspirante leader conservatore intende per “giustizia” significa in realtà
consegnare un autentico giornalista alla vendetta del governo USA ed esporlo
alla minaccia concretissima di passare il resto della propria vita in un
carcere americano.
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