C’è una
sottile linea rossa che unisce Alessandro Leogrande e Aboubakar Soumahoro. Un linea
che ha inizio nell’ottobre del 2008, quando il compianto scrittore e
giornalista tarantino, mette nero su bianco il suo viaggio tra i nuovi schiavi
nelle campagne del sud, dando vita al suo “Uomini e Caporali” (Mondadori).
Pietra miliare del giornalismo d’inchiesta nell’ambito dello sfruttamento
lavorativo. E, prosegue undici anni dopo con il sindacalista italiano nato in
Costa D’Avorio, che mette insieme la sua esperienza di vita, le sue battaglie
giornaliere nel volume “Umanità in Rivolta. La nostra lotta per il lavoro e il
diritto alla felicità” (Feltrinelli).
Sfruttati,
dimenticati e abbandonati al loro destino. Al massimo vengono utilizzati e
strumentalizzati a fini di propaganda politica o trovano spazio sulle prime
pagine dei giornali quando vengono uccisi o trovano il coraggio di denunciare
la loro situazione lavorativa e sociale. Gli sfruttati, specie se stranieri di
colore altro non sono che un pericolo alla sera e una risorsa, braccia forti da
sfruttare al mattino per pochi soldi. Alessandro Leogrande e Aboubakar
Soumahoro, con i loro due lavori letterari, sono riusciti a chiudere un
primo cerchio iniziato 11 anni fa con il libro denuncia del giornalista
pugliese e chiusosi con il manifesto alla felicità del sindacalista di origini
africane: “La perdita di diritti deve fermarsi.
E la lotta contro lo sfruttamento deve cominciare”.
E la lotta contro lo sfruttamento deve cominciare”.
“Gli schiavi
di Puglia parlano di una degradazione dell’uomo, dei corpi e delle speranze” scriveva Leogrande descrivendo
la Capitanata: “Raccogliere l’oro rosso è un lavoro durissimo che
spezza la schiena e le braccia, ma viene pagato pochissimo. Sono lavoratori
inquadrati in situazioni di vita e di lavoro addirittura precapitalistiche:
alloggiati in ruderi fatiscenti, sono anche sottoposti alle vessazioni, spesso
sadiche, dei caporali, che offrono il loro lavoro a un mondo delle imprese che
se ne serve per comprimere i costi. Talvolta, questi nuovi cafoni, così diversi
dai cafoni di ieri, hanno anche difficoltà ad avere pagato quel poco che era
stato pattuito. E alle proteste non di rado ci scappa il morto. Una situazione
barbarica che flagella come un tumore sociale vaste aree dell’Italia, dove
sembra essere del tutto assente lo stato di diritto, e dove vale la sola legge
dell’esercizio della violenza bruta”.
Il giornalista
pugliese prendeva spunto dalle prime denunce dei braccianti sfruttati, per lo
più uomini dell’est Europa arrivati, e ingannati in Italia, con la prospettiva
di un lavoro dignitoso per scrivere il suo saggio inchiesta. Aboubakar
Soumahoro, invece, parte da una posizione di privilegio (se così si può dire)
essendo un sindacalista di base (Usb) e, dunque, affrontando giornalmente le
vicissitudini dei braccianti agricoli stranieri, nordafricani e non.
Laureato in
sociologia, Abu ha fatto il bracciante e il muratore, quando viveva dalle
parti di Napoli. L’episodio scatenante, che lo ha fatto salire alla ribalta
delle cronache nazionali, avviene il 2 giugno 2018, proprio nel giorno della
Festa della Repubblica, quando Soumayla Sacko viene ucciso durante una
sparatoria nella zona di Vibo Valentia, in Calabria, riaccendendo i riflettori
e l’attenzione sulle condizioni dei migranti (anche quelli regolari) costretti
a vivere in condizioni disumane e sottostare a trattamenti lavorativi più
vicini all’idea di schiavitù (12 ore per meno di 25 euro senza nessuna tutela e
diritto lavorativo per mandare avanti la filiera dell’agricoltura che permette
di avere prodotti tutto l’anno a prezzi bassissimi.
Aboubakar
Soumahoro difende i diritti dei lavoratori. Conosce da vicino le insidie di un
tessuto civile sempre più logoro e incapace di garantire i diritti minimi di
ogni essere umano. Probabilmente dietro “i mestieri che gli italiani non
vogliono più fare” si nasconde il degrado delle condizioni generali di lavoro,
che chi arriva in Italia sprovvisto di tutele e di diritti è costretto ad
accettare per sopravvivere. È così che si spiega il gran ritorno della retorica
del “prima gli italiani” e della “razza: uno stratagemma per abbassare il costo
del lavoro e per ridurre drasticamente la distanza tra dignità e sfruttamento”.
“Umanità in
rivolta” è un manifesto, che si aggiunge alla denuncia fatta oltre un decennio
addietro da Leogrande, e va a riempire il dibattito politico italiano in tema
di lavoro, diritti e sfruttamento. Nelle pagine del libro viene detto chiaro e
forte che per non rinunciare al diritto alla felicità “il nostro
paradigma economico deve cambiare”. Una nuova solidarietà deve nascere, così ha
scritto Albert Camus, dalla rivolta di chi dice no a una condizione inumana di
schiavitù. Aboubakar Soumahoro sa cosa significa essere privati di un diritto e
per questo sa anche cosa significa lottare per conquistarlo. “Possiamo essere
poveri, sfruttati e precari, ma non importa: usciremo dall’angolo.”
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