Si siede davanti alla commissione. Ha lo
sguardo un po’ smarrito, ma non mi preoccupo: le succede. Le sottoponiamo le
tre buste. Sorride, ne sceglie una, l’apre. Sbircio: no, non è stata fortunata.
A qualcuno il meccanismo delle buste ha presentato una poesia, a qualcuno un
articolo della Costituzione, a qualcuno ancora un passo di qualche sociologo o
antropologo. A lei il calcolo di un limite. Il suo smarrimento diventa
desolazione. Le diciamo di prendersi tutto il tempo che le occorre, che non è
necessario calcolare ora il limite, è solo uno stimolo per iniziare la
trattazione, se vuole può calcolarlo alla fine con calma. Niente. Pietrificata.
Suggeriamo: lascia stare la matematica, pensa al concetto di limite. Niente.
Aggiungiamo: limite, confine, dai. Qualcuno azzarda: barriera. Siepe, ecco. La
siepe. Ma sì, Leopardi. E l’esame comincia. Di suggerimento in suggerimento, di
collegamento in collegamento. Con il suo sguardo sempre più smarrito, e gli
occhi che a tratti sembrano pieni di lacrime. E sembra che voglia dire: perché
mi fate questo?
Mentre lei parla ho sotto gli occhi il quaderno che ho usato da registro cartaceo durante l’anno. Non è stato un percorso particolarmente brillante, il suo, anche se non è mai scesa sotto la sufficienza. Ma l’ultimo voto è molto alto. Alla fine dell’anno ho chiesto ad ogni studente di quinta di discutere una ricerca di antropologia o di sociologia. Da un lato mi serviva per capire se si erano impadroniti, almeno nella forma essenziale adatta ad un liceo (approfondiranno poi all’università), della metodologia della ricerca (parliamo di un Liceo Economico Sociale); dall’altro volevo che venissero fuori le loro passioni, gli interessi reali, e che chiudessero il percorso liceale con qualcosa di personale, di sensato: di bello.
Di questi esami di Stato mi resterà soprattutto il suo sguardo. E la sua muta domanda. Una domanda che mi sono posto ogni giorno da membro interno agli esami di Stato. Perché? Perché facciamo questo? Perché facciamo loro questo? Sono convinto da tempo che la crisi della scuola sia una crisi di senso, dalla quale si cerca di uscire con cambiamenti burocratici che non sfiorano minimamente i problemi reali, perché riguardano la ratio, non il logos: la ragione-organizzazione, non la ragione-senso. Ecco, mi pare che da quest’anno la scuola italiana abbia questa novità: il non-senso quotidiano, vissuto e sofferto per anni tra i banchi da milioni di studenti e dietro le cattedre da migliaia di docenti, esplode letteralmente alla conclusione del percorso. Per salutare degnamente i nostri studenti, mettiamo su una vera rappresentazione teatrale il cui unico scopo è suscitare disgusto e incredulità.
Seguo gli studenti che si sono diplomati pochi giorni fa da quattro anni. In quattro anni ho imparato a conoscere ognuno di loro e, come succede, a volergli bene. Ma c’è una cosa più importante del voler bene, a scuola: il rispetto. E rispetto vuol dire in primo luogo una cosa: non ridicolizzare. Mai. Non ridicolizzare mai uno studente. Qualunque cosa faccia o dica. Anche quando non apre bocca all’interrogazione. Mai. Ed ecco che ora agli esami mi ritrovo a far parte di un meccanismo il cui fine non sembra essere altro che quello di deridere lo studente. Non accertare le conoscenze. Che senso avrebbe, del resto? Ognuno di loro è stato sottoposto ad un fuoco di fila di verifiche in tutte le discipline. Nemmeno accertare le competenze. Quali competenze? Parlare a vanvera? Fare collegamenti tra cose che non si collegano? Saltare di palo in frasca? Perché no, nemmeno nella migliore performance lo studente fa un reale discorso pluridisciplinare. Quelle che fa sono semplici associazioni mentali. Ma che senso ha, anche nella migliore delle ipotesi? Che gioco è? In busta avrebbe avuto più senso mettere dei test di Rorschach. Guarda la macchia e dimmi cosa ti fa venire in mente.
Fino allo scorso anno all’esame lo studente portava la tesina o il percorso. Era una cosa poco seria anche quella, i collegamenti erano ridicoli, ma qualcuno – pochi – ne approfittava per approfondire un interesse reale, e capitava anche di sentire qualcosa di intelligente. Ora c’è un meccanismo cialtronesco che ha il solo effetto – o dovrei dire: il solo scopo? – di ridicolizzare lo studente. Come in un circo. Su, in piedi sul filo. Su, fammi la piroetta. Collega questo a quello. Vai da qui a lì. Spazia da Leopardi a Durkheim. E la ridicolizzazione è doppia, perché in questa meschina sceneggiata ministeriale ad essere ridicolizzati siamo anche noi docenti. E’ la nostra cultura, la nostra passione. Sono le discipline. Sono gli autori. Tutto, tutti ridotti a figurine da appiccicare con lo sputo per comporre il quadro della miseria istituzionale della scuola italiana.
Mentre lei parla ho sotto gli occhi il quaderno che ho usato da registro cartaceo durante l’anno. Non è stato un percorso particolarmente brillante, il suo, anche se non è mai scesa sotto la sufficienza. Ma l’ultimo voto è molto alto. Alla fine dell’anno ho chiesto ad ogni studente di quinta di discutere una ricerca di antropologia o di sociologia. Da un lato mi serviva per capire se si erano impadroniti, almeno nella forma essenziale adatta ad un liceo (approfondiranno poi all’università), della metodologia della ricerca (parliamo di un Liceo Economico Sociale); dall’altro volevo che venissero fuori le loro passioni, gli interessi reali, e che chiudessero il percorso liceale con qualcosa di personale, di sensato: di bello.
Di questi esami di Stato mi resterà soprattutto il suo sguardo. E la sua muta domanda. Una domanda che mi sono posto ogni giorno da membro interno agli esami di Stato. Perché? Perché facciamo questo? Perché facciamo loro questo? Sono convinto da tempo che la crisi della scuola sia una crisi di senso, dalla quale si cerca di uscire con cambiamenti burocratici che non sfiorano minimamente i problemi reali, perché riguardano la ratio, non il logos: la ragione-organizzazione, non la ragione-senso. Ecco, mi pare che da quest’anno la scuola italiana abbia questa novità: il non-senso quotidiano, vissuto e sofferto per anni tra i banchi da milioni di studenti e dietro le cattedre da migliaia di docenti, esplode letteralmente alla conclusione del percorso. Per salutare degnamente i nostri studenti, mettiamo su una vera rappresentazione teatrale il cui unico scopo è suscitare disgusto e incredulità.
Seguo gli studenti che si sono diplomati pochi giorni fa da quattro anni. In quattro anni ho imparato a conoscere ognuno di loro e, come succede, a volergli bene. Ma c’è una cosa più importante del voler bene, a scuola: il rispetto. E rispetto vuol dire in primo luogo una cosa: non ridicolizzare. Mai. Non ridicolizzare mai uno studente. Qualunque cosa faccia o dica. Anche quando non apre bocca all’interrogazione. Mai. Ed ecco che ora agli esami mi ritrovo a far parte di un meccanismo il cui fine non sembra essere altro che quello di deridere lo studente. Non accertare le conoscenze. Che senso avrebbe, del resto? Ognuno di loro è stato sottoposto ad un fuoco di fila di verifiche in tutte le discipline. Nemmeno accertare le competenze. Quali competenze? Parlare a vanvera? Fare collegamenti tra cose che non si collegano? Saltare di palo in frasca? Perché no, nemmeno nella migliore performance lo studente fa un reale discorso pluridisciplinare. Quelle che fa sono semplici associazioni mentali. Ma che senso ha, anche nella migliore delle ipotesi? Che gioco è? In busta avrebbe avuto più senso mettere dei test di Rorschach. Guarda la macchia e dimmi cosa ti fa venire in mente.
Fino allo scorso anno all’esame lo studente portava la tesina o il percorso. Era una cosa poco seria anche quella, i collegamenti erano ridicoli, ma qualcuno – pochi – ne approfittava per approfondire un interesse reale, e capitava anche di sentire qualcosa di intelligente. Ora c’è un meccanismo cialtronesco che ha il solo effetto – o dovrei dire: il solo scopo? – di ridicolizzare lo studente. Come in un circo. Su, in piedi sul filo. Su, fammi la piroetta. Collega questo a quello. Vai da qui a lì. Spazia da Leopardi a Durkheim. E la ridicolizzazione è doppia, perché in questa meschina sceneggiata ministeriale ad essere ridicolizzati siamo anche noi docenti. E’ la nostra cultura, la nostra passione. Sono le discipline. Sono gli autori. Tutto, tutti ridotti a figurine da appiccicare con lo sputo per comporre il quadro della miseria istituzionale della scuola italiana.
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