Un quarto di secolo dopo gli accordi di
pace di Oslo, alcuni giovani scrittori palestinesi espongono il loro punto
di vista sulla soluzione dei due stati.
Mai come oggi la validità del modello dei
due stati è stata messa in dubbio. Una delle cause determinanti è senz’altro la
comparsa sulla scena di una amministrazione americana che mostra un
allineamento senza precedenti con l’ideologia della Grande Israele tipica
dell’estrema destra israeliana. Tuttavia, già prima dell’elezione di Donald
Trump, il modello dei due stati presentava segni di logoramento. A ciò hanno
contribuito non poco lo stallo interminabile del processo di pace in Medio
Oriente e l’impegno deliberato dei governi israeliani per ostacolare il processo
di crescita dello stato palestinese, mentre consolidavano il loro controllo su
Gerusalemme Est e sulla Cisgiordania. Un altro fattore determinante è stata
senz’altro l’incapacità dell’Unione Europea di mettere in atto azioni
conseguenti alla propria fervente presa di posizione in favore della soluzione
dei due stati.
È difficile dire se la prospettiva dei due
stati andrà avanti e la situazione attuale non depone certo a favore della sua
futura realizzazione. Quello che tuttavia sembra più che certo oggi è che le
misure politiche di USA e Israele stanno consolidando una realtà fatta di un
solo stato senza uguali diritti per i Palestinesi. Il modo in cui il movimento
di liberazione palestinese risponderà a questa sfida sarà cruciale. Se un
cambio di strategia da parte dei leader palestinesi più anziani pare
improbabile, i giovani attivisti della Cisgiordania, di Gaza, di Israele e
della diaspora stanno già sviluppando un approccio diverso.
Questa serie di brevi saggi scritti da
giovani intellettuali costituisce una rassegna parziale del dibattito sulla
validità attuale del modello dei due stati e su cosa chiedere all’Unione
Europea in questo momento critico.
Le opinioni espresse di seguito non
rappresentano certo la totalità delle posizioni palestinesi e senz’altro
mancano alcune voci, quali quelle degli Islamisti e dei rifugiati nei paesi
limitrofi. Tuttavia questi brevi contributi riflettono le posizioni di molti
giovani palestinesi sulla situazione attuale e danno un’indicazione sulla
direzione in cui si svilupperà il futuro movimento nazionale palestinese. Per
questo motivo dovrebbero essere presi in seria considerazione dai responsabili
politici.
Yasmeen Al Khodary, scrittrice e
ricercatrice. Londra/Gaza
La domanda se si debba o no lasciar cadere
la soluzione dei due stati è obsoleta. È difficile pensare che la gente la
creda ancora possibile: siamo nel 2019 e non nel 1995 e molte cose sono
cambiate in peggio. E poi, come sarebbe una soluzione a due stati?
La gente che quotidianamente subisce le
conseguenze di questo progetto –i Palestinesi di Gaza e della Cisgiordania–
hanno problemi ben più importanti, quali la sopravvivenza. Le conseguenze
devastanti dell’occupazione israeliana hanno gradualmente trasformato i
Palestinesi in popolazioni divise, che non godono dei diritti fondamentali e
sono senza alcun sostegno, costrette ogni giorno a fronteggiare difficoltà
sempre diverse: sono assediati, attaccati militarmente, circondati dagli
insediamenti, bloccati da strade con divieto di transito, sottoposti a coprifuoco,
arresti e prigione, per nominarne solo alcune. Provate a chiedere a un
Palestinese che sta soffocando a Gaza a causa di un blocco che va avanti da 12
anni che cosa pensa della soluzione dei due stati. Molto probabilmente non
otterrete risposta. La gente non ne po’ più di discorsi, non ne può più di
ripetere sempre la stessa richiesta: ponete fine all’occupazione. Questo è il
solo modello che possiamo portare avanti ora.
Yasmeen Al-Khoudary è una scrittrice e
ricercatrice indipendente, è specializzata in archeologia e patrimonio e
culturale palestinese dell’area di Gaza. Ha co-fondato Diwan Ghazza e scritto
per numerose testate fra cui il Guardian, CNN, Al Jazeera English. Account
twitter @yelkhoudary
Zaha Hassan, avvocata esperta in diritti
umani e visiting fellow presso il Carnegie Endowment for International Peace di
Washington.
Venticinque anni di trattato di pace di
Oslo hanno confinato i Palestinesi in un buco nero politico e legale. Nella
realtà attuale i Palestinesi sono privi del diritto all’autodeterminazione in
quello che dovrebbe essere il loro stato sovrano e sono privi di uguali diritti
di cittadinanza nello stato di Israele. Benjamin Netanyahu lo chiama lo ‘stato
ridotto (state minus)’ palestinese.
Attualmente la scelta fra un unico stato
binazionale e due stati è quindi illusoria. Entrambe queste soluzioni sono
impraticabili in questo momento e lo saranno anche in futuro, per quanto è dato
prevedere. La necessità più urgente è quella di definire con precisione la
natura del conflitto attuale e quale dovrebbe essere la risposta a livello
internazionale e dell’Europa in particolare.
I Palestinesi subiscono da oltre
settant’anni un colonialismo insediativo che li costringe ad abbandonare i loro
territori. Ridefinire il conflitto in questi termini non significa che il
quadro del diritto internazionale, entro cui sono definiti gli obblighi di
Israele quale forza occupante dal 1967, diventi inapplicabile o impraticabile.
Il diritto umanitario internazionale non viene disatteso quando si chiede il
rispetto delle norme internazionali sui diritti umani. I due quadri normativi
si completano a vicenda e forniscono un orientamento per gli stati terzi su
come inquadrare e che risposta dare alle azioni di Israele contro i
Palestinesi.
Nel passato l’Europa è stata pioniera nel
riconoscimento dell’OLP e del diritto all’autodeterminazione del popolo
palestinese. L’Unione Europea è particolarmente impegnata nel rispetto della
legge e dei diritti umani; per questo l’Europa, in accordo con l’ONU, può agire
come baluardo nella protezione dei diritti del popolo palestinese e condurre un
dibattito che individui una soluzione durevole del conflitto, rispettosa delle
richieste individuali e collettive dei Palestinesi.
Ma prima di tutto la UE e i suoi stati
membri devono riconoscere la realtà attuale per quella che è, ossia che Israele
impone oggi ai Palestinesi un solo stato con un’occupazione e un conflitto
perenne che non prevedono uguali diritti.
Zaha Hassan è avvocata specializzata in
diritti umani e visiting fellow alla Carnegie Endowment for International
Peace. È stata coordinatrice e senior legal advisor del team palestinese di
negoziazione durante la richiesta della Palestina di ammissione all’ONU come
stato membro, ha fatto parte della delegazione palestinese nei colloqui
esplorativi sponsorizzati dal ‘quartetto per la pace’ nel 2011/2012. Account
twitter: @zahahassan
Yara Hawari, policy fellow
di Al-Shabaka: The Palestinian Policy Network, Ramallah
Molti stati dell’Unione Europea temono che
l’annessione formale della Cisgiordania da parte di Israele sia imminente e
metta così l’ultima pietra sulla tomba degli accordi di pace di Oslo e della
soluzione dei due stati. Se questa preoccupazione include un interesse nella
difesa dei diritti dei Palestinesi, essa però non riconosce che gli accordi di
Oslo e il modello dei due stati hanno fornito, nei 26 anni trascorsi, una
complice copertura all’imposizione di un regime di apartheid che si estende
dalla valle del Giordano al Mediterraneo e istituisce un controllo assoluto di
Israele sulla vita dei Palestinesi.
Israele accusa continuamente i Palestinesi
di non volere la pace e allo stesso tempo colonizza le loro terre costringendoli
in ‘bantustan’ sempre più ristretti. La leadership palestinese, ostaggio del
dibattito sul processo di pace di Oslo, ha fallito nel proprio progetto
democratico e rivoluzionario e di conseguenza il popolo palestinese, con i suoi
diritti e le sue aspirazioni all’autodeterminazione, non è mai stato così
vulnerabile come in questo momento.
È necessario che gli stati dell’Unione
Europea compiano un atto di umiltà e di onestà e riconoscano che un progetto in
cui essi avevano investito tempo, denaro e energie non ha avuto gli esiti
sperati né ha ottenuto risultati concreti.
Anziché impegnarsi in negoziati che ormai
avvengono in un contesto e all’interno di una cornice politica ormai
impraticabili, l’UE dovrebbe impegnarsi a far rispettare i diritti internazionalmente
riconosciuti ai Palestinesi, ovunque essi si trovino, e garantire
l’applicazione del diritto umanitario internazionale. Usando i propri canali
diplomatici e di scambio, l’UE dovrebbe chiedere conto a Israele delle
violazioni compiute, creando così un ambito più equo di discussione.
Contestualmente, abbandonato il sostegno
caparbio alla politica dei due stati, l’Unione Europea potrà contribuire a
creare spazi e opportunità anche per i Palestinesi, perché essi possano
elaborare altre soluzioni al di fuori dal contesto della divisione in due stati
che li ha paralizzati per tutto questo tempo.
Yara Hawari è Palestine policy fellow per
Al-Shabaka: The Palestinian Policy Network. Ha tenuto diversi corsi alla
Università di Exeter; come giornalista free-lance collabora con diverse testate
fra cui Al Jazeera English, Middle East Eye, e Independent. Account twitter:@yarahawari
Amjad Iraqi, scrittore, +972 Magazine,
Haifa
Una regola elementare della politica ci
insegna che se un piano non produce gli esiti desiderati, allora va rivisto.
Purtroppo i governi europei, quando si tratta del processo di pace in Medio
Oriente
prefigurato degli accordi Oslo, ignorano
questo principio.
Per anni l’Europa ha creduto che l’occupazione
fosse insostenibile e indesiderabile tanto per gli Israeliani quanto per i
Palestinesi. Questa idea si è rivelata fatalmente sbagliata. Nella situazione
attuale gli Israeliani possono permettersi di abitare in ‘Giudea e Samaria’,
godersi le risorse naturali del territorio sentendosi sicuri perché sanno che i
loro ‘nemici’ a Gaza sono tenuti a bada dall’occhio vigile dell’esercito. La
maggioranza delle forze politiche di Israele non considera più l’occupazione
una situazione transitoria, ma una soluzione permanente del ‘problema’
palestinese.
L’incapacità dell’Europa di comprendere
questa situazione la colloca dieci passi indietro rispetto alla realtà odierna.
Sebbene la Green Line compaia come una linea tratteggiata in Google Maps, nella
realtà essa non esiste più e di certo non esiste nella mente della potenza
occupante. Anche quando il governo israeliano palesa apertamente i propri
obiettivi –incluse le leggi sull’annessione di terre e la legge sullo Stato
Nazione– le autorità europee continuano a negare le intenzioni di Israele, si
dicono preoccupate, ma non sanzionano questa deliberata cancellazione della
soluzione dei due stati.
Perciò questo modello non solo è
liquidato, ma risulta addirittura deleterio. L’Europa deve aggiornarsi su una
situazione di cui i Palestinesi sono ormai consci da decenni: che la realtà in
cui viviamo è quella di un solo stato, in cui siamo governati da un regime
complesso, ma comunque gestito da uno stato unico, di apartheid. Finché
l’Europa non giocherà le proprie carte contro questo sistema, Israele riterrà
logico insistere nel mantenimento di questo stato di cose.
Amjad Iraqi è un palestinese
con cittadinanza israeliana e attualmente risiede a Haifa. È advocacy
coordinator al Centro Legale Hadala, scrive su + 972 Magazine ed è analista
politico per Al-Shabaka. Account twitter: @aj_iraqi
Inès Abdel Razek, consulente free-lance,
ha lavorato come consulente per l’Ufficio del Primo Ministro Palestinese,
Ramallah.
Dobbiamo prendere le distanze dai
fallimenti dal processo di pace in Medio Oriente (PPME) gestito dagli USA e
dalla soluzione dei due stati, che sono diventati esercizi interconnessi di
retorica politica e non tengono conto della realtà. Dobbiamo liberarcene sia
perché Israele non ha mai riconosciuto i parametri internazionalmente fissati
per la soluzione dei due stati, sia soprattutto se vediamo i passi compiuti
dall’amministrazione Trump per porre fine all’autodeterminazione e al diritto
al ritorno del popolo palestinese e la sua aperta adesione al punto di vista
israeliano.
Bisogna articolare un nuovo modello
politico basato sul diritto internazionale, che adotti una strategia imperniata
sulle persone, tesa a promuovere uguali diritti e uguale libertà di
autodeterminazione per Palestinesi e Israeliani. A prescindere dal fatto che
ciò venga realizzato da un unico stato o da due stati, un nuovo modello deve
prima di tutto sconfiggere la realtà di un unico stato che espande
continuamente gli insediamenti coloniali, e deve contrastare ogni
discriminazione su base etnica. La pace non può venire prima della libertà.
Questo nuovo modello politico dovrà quindi
controllare che l’abbandono dei parametri tradizionali previsti ad Oslo per il
Processo di Pace in Medio Oriente (PPME) non lasci spazio a interpretazioni
ambigue e che il governo di Israele non sfrutti eventuali ambiguità per
consolidare l’attuale situazione di un solo stato con un regime di apartheid.
Il movimento nazionale palestinese deve
impegnarsi a questo cambio di metodo, abbandonare le tattiche usate da Oslo in
poi e fare un uso strategico del diritto al ritorno e all’auto-determinazione
come vengono riconosciuti a livello internazionale, senza cadere nella trappola
della sovranità nazionale. Dal punto di vista della diplomazia, occorreranno
una serie di sforzi multilaterali che facilitino questa nuova strategia, mentre
gli attori geopolitici fondamentali del Sud globale e dell’Europa dovranno
assumere un ruolo determinante e cambiare la deleteria agenda politica ora
dominata dagli USA.
Inès Abdel Razek è consulente diplomatica
e per la cooperazione internazionale in Palestina e nell’area del Mediterraneo.
Attualmente collabora con il Palestinian Institute for Public Diplomacy e si
occupa di advocacy internazionale. Account twitter: @InesAbdelrazek
(https://www.ecfr.eu/article/commentary_the_future_of_palestine_youth_views_on_the_two_state_paradigm
Traduzione di Nara Ronchetti A cura di
AssopacePalestina)
Nessun commento:
Posta un commento