Pur di devastare impunemente paesaggio e patrimonio culturale, la Lega
nordista cerca ispirazione nel già vituperato Sud. E infatti le richieste di
“autonomia” avanzate da Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna (nella quale ultima
le istanze leghiste sono targate Pd) ricalcano l’autonomia speciale di cui gode
la Regione Sicilia. Il 16 maggio le intese fra il presidente del Consiglio e le
tre regioni sono state siglate, e prontamente occultate. Possiamo leggerle, con
due mesi di ritardo, solo grazie al sito Roars.
Scopriamo così che l’Italia che ci attende si appresta a ridurre in polvere
la scuola, sminuzzata secondo immaginarie sotto-varietà regionali, riducendo la
storia italiana a una congerie di dialetti. Scopriamo che si porrà fine alla
“tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione”
prevista dalla Costituzione, cancellando manu militari l’articolo 9 della
Costituzione.
Su questo punto, la Sicilia è il precedente. Ci provò nel primissimo
statuto regionale, sanzionato con Regio decreto 15 maggio 1946 e dunque
anteriore alla stessa Costituzione, ma ottenne piena autonomia solo con due
decreti di un governo “balneare”, emanati il 30 agosto 1975. Una data che fa
riflettere, perché solo otto mesi prima era nato il ministero dei Beni
culturali, il cui titolare Spadolini subì senza fiatare la mutilazione della
Sicilia, la più grande regione d’Italia e, quanto a paesaggio e patrimonio
culturale, non certo l’ultima. Misteri dei ministeri: il coltissimo Spadolini,
nella prefazione a un volume del 1976 che celebra la nascita del ministero di cui
era titolare, ricorda le leggi di tutela del 1902 e 1909 come le sole “su cui
riposa ancora quel che è stato fatto nel trentennio della Repubblica”,
dimenticando non solo la legge Croce sul paesaggio (1920) e le leggi Bottai
(1939), ma lo stesso art. 9 della Costituzione, peraltro ignorato anche nella
legge istitutiva del ministero. Così dal 1975 la tutela dell’Isola è distaccata
da quella del resto d’Italia e nulla può, varcato lo Stretto, il ministero dei
Beni culturali. Il qual ministero non ha mai studiato le conseguenze di tale
autonomia: funzionari sottomessi alla politica assai più che “sul continente”,
sprechi inauditi e degrado del paesaggio, abusivismo dilagante, sconsiderata
gestione del territorio, amministrazione del personale non comunicante con il
resto d’Italia (un archeologo in forza a Messina non può spostarsi a Reggio
Calabria, e viceversa).
Che simili appetiti si destassero nel resto d’Italia non è una sorpresa, e
ne creò le premesse la sciagurata riforma del Titolo V della Costituzione
voluta nel 2001 dal centrosinistra in risposta al federalismo sbandierato dalla
Lega di Bossi. Quella riforma rispondeva al disegno fallimentare di arginare la
Lega Nord con una devoluzione ‘leggera’. Al contrario, inseguendo la Lega sul
suo stesso terreno si allargarono le competenze delle Regioni a detrimento di
quelle dello Stato. L’autonomia sui beni culturali fu quindi chiesta nel 2003
dalla Toscana, nel 2007 dalla Lombardia e dal Veneto: in ambo i casi, da
regioni governate da una coalizione politica diversa da quella del governo
nazionale del momento. Ma solo oggi la Lega, fiancheggiata in Emilia dal Pd, va
all’incasso di quel che già aveva ottenuto con la riforma del 2001. Era facile
profezia (ne ho scritto su questo giornale lo scorso 18 ottobre): infatti le
intese del governo con le tre regioni assegnano a esse, fra l’altro, la “tutela
dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”. Le altre regioni
fatalmente seguiranno, trasformando l’Italia in un arcipelago di staterelli.
Questa devoluzione annunciata è contraria alla Costituzione. Prima di tutto
perché l’Italia non è uno Stato federale, formato (come gli Stati Uniti) per
aggregazione di entità pre-esistenti. Il federalismo all’italiana, al
contrario, sarebbe un “federalismo dissociativo” come quello della defunta
Cecoslovacchia, dove la dissociazione “federale” portò (1992) alla secessione
in due distinte Repubbliche. Sul fronte dell’articolo 9 della Costituzione,
poi, i casi sono due: o si intende abolirlo, secondo la procedura
costituzionale prevista dall’art. 138, o lo si deve rispettare. Quell’articolo
disegna il nostro diritto alla cultura, ingrediente essenziale della “pari
dignità sociale” dei cittadini, del “pieno sviluppo della persona umana”,
dell’uguaglianza e della libertà (art. 3), dei “doveri inderogabili di
solidarietà politica, economica e sociale” (art. 2).
“La Repubblica promuove la cultura e la ricerca scientifica e tecnica.
Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”: questo
dice l’art. 9. Cultura, ricerca, tutela formano una triade inscindibile, che si
aggancia alla libertà di pensiero (art. 21) e al diritto all’istruzione (art.
33). In questo articolo, la parola più importante è “Nazione”, che nella
Costituzione torna pochissime volte: all’art. 67 (“Ogni membro del Parlamento
rappresenta la Nazione”, all’art. 98 (“I pubblici impiegati sono al servizio
della Nazione”) e nella disposizione XV, secondo cui ministri e sottosegretari
“giurano sul loro onore di esercitare la loro funzione nell’interesse supremo
della Nazione”. “Nazione” nella Carta è sempre e solo l’Italia nel suo insieme.
Corrisponde al “territorio nazionale” degli artt. 16 (libertà di circolazione
dei cittadini in qualsiasi parte del territorio nazionale), 117 m (diritti
civili e sociali garantiti su tutto il territorio nazionale) e 120 (diritto al
lavoro in qualunque parte del territorio nazionale), e all’“unità nazionale”
rappresentata dal capo dello Stato (art. 87), nonché alla “Repubblica una e
indivisibile” di cui all’art. 5. Il riferimento alla Nazione comporta che la
tutela debba essere identicamente esercitata in tutta Italia e non segmentata
per regioni. E dato che i principi fondamentali (tra cui l’art. 9) sono
sovraordinati alle altre parti della Costituzione, le pretese ora avanzate dal
secessionismo strisciante di tre regioni sono in sostanza incostituzionali.
Le devoluzioni in arrivo non hanno nulla a che vedere con i diritti dei
cittadini e la funzionalità delle istituzioni. Puntano solo alla spartizione
del potere, a prezzo di disperdere il patrimonio civile e la memoria culturale
in favore di una brutale lottizzazione. La recente riforma Bonisoli, per quanto
timida, ha fatto un passo avanti nella direzione giusta riportando a una
miglior distribuzione delle competenze fra centro e periferia. Ma il M5S si
ricorderà, in questo frangente assai rischioso, di essere il partito di maggioranza
relativa? O vorrà affiancare la Lega puntando su un cambiamento a ogni costo,
anche per il peggio?
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