L’articolo di Magni
pubblicato di recente su Roars[1] inizia con l’allineare critiche
radicali contro la didattica delle competenze: da quelle di Angelique del Rey,
per cui essa sussume il sapere sotto la categoria totalizzante dell’utile,
disturba la didattica effettiva e trascura i valori dell’educazione del
cittadino, a quelle di Diana Ravitch, per cui frammenta il curricolo scolastico
approfondendo le discriminazioni sociali e abbassando il livello culturale; fa
così credere al lettore distratto che sia stato scritto con l’intenzione di
assestarle il colpo di grazia. È però un’apparenza. Il punto di vista
definitivo di Magni, in sostanziale contrasto con le osservazioni iniziali, è
che “una didattica per competenze dovrebbe affiancare, non sostituire, la
didattica fondata sul postulato della ‘trasmissione’ di conoscenze attualmente
in uso”. Non è vero dunque quanto Angelique del Rey e Diane Ravitch scrivono;
il male sarebbe invece la didattica della trasmissione ancora
in uso e il rimedio sarebbe affiancarla con la didattica delle competenze.
Contraddirsi è
affermare la verità della congiunzione del vero e del falso. Magni sembra
contraddirsi in quanto sembra concepire la didattica delle competenze prima
come indesiderabile poi come desiderabile. Di fatto, però, la critica della
didattica delle competenze è debole già dall’inizio. La contraddizione è dunque
soltanto apparente. Quando Magni, compendiando le critiche di Angelique del
Rey, scrive: “In parole semplici, il sapere viene a identificarsi con l’utile,
e l’educazione con la produzione di ‘capitale umano'”, questa critica è così
innocua da sembrare plausibile solo in una prospettiva idillico-pastorale. Non
è scandaloso, infatti, che il sapere sia finalizzato all’utile economico,
perché l’economia non ha, in sé, nulla di scandaloso; essa è l’indagine sulla
produttività umana; la scienza, la cultura sono una forma di produttività; e
sono anche utili, anzi sono l’utile κατ’ ἐξοχήν; è dunque vano
polemizzare sul concetto di utilità applicato ai prodotti dell’uomo; l’utilità
diventa problematica soltanto se applicata all’uomo stesso.
Se si volesse
veramente criticare la didattica delle competenze, bisognerebbe muoversi con
ben altra impostazione. Si dovrebbe rilevare che la didattica delle competenze
assoggetta la scuola, anziché all’utile economico, alla cattiva economia,
quella costruita su premesse in contrasto con la realtà e che anziché
correggere i difetti dell’economia reale per svilupparla in forme sempre più
umane, si preoccupa soltanto di consolidare il potere brutale dei rentier e
la servitù del lavoratori; − quella che, teorizzando per esempio l’austerità
espansiva, produce il disastro economico e per nasconderlo scatena il
disastro culturale e il disastro didattico. Se veramente avesse voluto
criticare la didattica delle competenze, osservando che le prescrizioni
ministeriali non si amalgamano con la pratica pedagogica, Magni avrebbe colto
l’occasione per sottolineare l’analogia tra la cattiva economia che schiaccia i
popoli nella miseria e la cattiva didattica che schiaccia i giovani nell’ignoranza.
Cattiva economia e
cattiva pedagogia sono ideologia, costruzioni che occultano la controfattualità
delle loro premesse con il gigantismo del loro sviluppo deduttivo. Non è dunque
un caso che la corrosione neoliberale della pedagogia segua la stessa procedura
della corrosione liberale dell’economia. Keynes ha rilevato che l’economia
ortodossa presuppone come data la situazione ottima della
piena occupazione, che invece, nella sconsolata realtà del capitalismo, non si
dà mai o quasi mai, e da questo principio sempre o per lo più falso
sviluppa un esteso corpo teorico, condito di formule matematiche, che però è
non meno falso del suo principio e produce quindi ricette letali; allo stesso
modo la pedagogia neoliberale, presupposta arbitrariamente la situazione
ottima di bambini e giovani già desiderosi di sapere, disciplinati e
capaci di indagine autonoma, ne deduce con facile sillogismo che la didattica
deve limitarsi a far fruttificare con stimoli per quanto possibile discreti
l’albero già rigoglioso. Magni sembra far suo questo presupposto della
pedagogia neoliberale quando scrive che “l’azione pedagogica arriva per
ultima”; e la sua inclinazione ideologica diventa plasticamente evidente nel
fascino che subisce dall’esempio di Jaccotot, i cui studenti hanno imparato il
francese mentre lui insegnava diritto, laddove per sottrarvisi era sufficiente
la riflessione che gli studenti di diritto hanno imparato da soli il francese
soltanto perché erano già, appunto, studenti, perché dalle pratiche
didattiche normali, quelle che Magni squalifica con il nomignolo di
“didattica della trasmissione”, avevano già acquisito sapere, disciplina e
capacità di lavoro autonomo. Sembra che a Magni sfugga il peccato originale
della didattica neoliberale, l’insensibilità al fenomeno originario dell’arte
pedagogica, al fatto che bambini e giovani, fuori dall’influenza
dell’educazione e nella loro naturalità, sono per lo più sventati,
indisciplinati e pigri, e la scuola è appunto il percorso che da quello stato
deve abilitarli alla vita contemplativa e attiva.
Magni sottovaluta il
valore della didattica normale e simpatizza per la didattica delle competenze
contro ogni dato empirico, perché profondamente liberale, quindi profondamente
anarchica, è la sua concezione della libertà. Da questa risulta che apprendere implica
il contrasto tra l’‘agire autonomamente’ e l’‘essere assoggettati’. Agire
autonomamente, però, non significa affatto ‘agire arbitrariamente’, ma,
letteralmente, agire secondo una legge, cioè una
determinazione universale, valida per tutti (νόμος), che il
sé riconosce come propria (αὐτός), significa cioè assoggettarsi a una
legge di cui ci si sente legislatori. L’agire autonomo, di cui fanno parte il
desiderio di sapere e il rispetto della legge, non è dunque già dato con la
naturalità dell’uomo e non può essere attribuito al bambino e al fanciullo;
questi, in quanto tali, sono assoggettati all’arbitrio del loro istinto
naturale, senza il cui assoggettamento non si dà agire autonomo. Poiché non è
riferito all’agire autonomo, ma all’istinto arbitrario, l’assoggettamento
pedagogico non è dunque in contrasto con l’agire autonomo, ma
al suo servizio.
È la sirena liberale
che seduce Magni a credere che la didattica delle competenze possa essere
assolta dal suo peccato perché è nata dall’attivismo pedagogico che sarebbe
nato a sua volta per liberare gli individui. Basta però uno sguardo
rapido a Rousseau per scorgere già alle origini dell’attivismo pedagogico,
accanto all’istinto libertario, una tendenza nichilista nel
disprezzo della civiltà e una tendenza totalitaria nel progetto di trasformare
l’educazione in una pratica di condizionamento occulto. Il nichilismo e il
totalitarismo della didattica delle competenze rilevati da Angelique del Rey
non nascono dunque da una strumentalizzazione, ma sono l’emersione di aspetti
già presenti nella pedagogia attiva, che odia i libri e la scrittura e nel
collocare i suoi alunni tra le cose, le piante e gli animali ne manipola la
spontaneità; quell’odio e questa pratica sono connessi con il rancore nei
confronti dei valori della cultura e con ossessioni di controllo.
L’autorevolezza della
pedagogia attiva ha senz’altro una giustificazione, ma è una
giustificazione storica: i suoi eccessi naturalistici hanno
contrastato gli eccessi di una pedagogia dogmatica irrigidita nella meccanicità
della memoria. Significa però perdere il senso della realtà odierna affermare
che la scuola su cui si è abbattuta la didattica delle competenze fosse la scuola
gesuita del XVI secolo, che vi si studiassero solo regole ed eccezioni
grammaticali fini a sé stesse e senza applicazione. Proprio questo sembra
accadere a Magni alla fine del suo articolo; egli immagina che per molti alunni
“l’apprendimento altro non” sia “se non qualcosa di puramente meccanico”, che
nella scuola attuale “il ‘copiare’” sia “identificato con l’‘imparare’, che “la
‘noia’ e l’‘abbrutimento’ della scuola” dipendano “dal fatto che la sua
metodologia corrente oscura completamente il fatto che la conoscenza
costituisce un ‘fare’ e un ‘costruire’ e non semplicemente un ‘ripetere’”. La
scuola attuale è invece in una situazione affatto opposta a quella immaginata
da Magni: il timore del lato meccanico dell’apprendimento impedisce
l’apprendimento, l’orrore del copiare priva gli alunni perfino della capacità
di scrivere in corsivo, la paura della noia e dell’abbrutimento riduce il
lavoro didattico a una sequenza di sollazzi insulsi, la paura del ripetere
impedisce il fare gli esercizi.
La pedagogia neoliberale,
di cui Magni si rivela sorprendentemente portavoce, fallisce perché disprezza
la didattica normale, l’unica che sviluppa le competenze sulla base
delle conoscenze ed è così in grado di scolarizzare il
fanciullo e di farne uno studente. Poiché la sua sostanza è il disprezzo della
normalità, la pedagogia neoliberale costruisce sul nulla, e la sua stessa
speranza di raggiungere competenze strumentali e servili si riduce a una
velleità, com’è testimoniato da ogni indagine sulla scuola attuale. Questo
fallimento ha una radice profonda. Dal punto di vista logico, infatti, nel
respingere la conoscenza la didattica neoliberale rifiuta senza saperlo la
proposizione, dunque l’alternativa vero/falso, e nel volere la
competenza esalta il sillogismo, cioè la necessità con cui una conclusione
deriva da premesse, dunque l’abilità applicativa. Ma il rifiuto della
proposizione non resta impune; porta con sé il disprezzo della
verità. Così, mentre la scienza unisce verità delle premesse e necessità
delle conclusioni e per questo è utile, l’abilità applicativa senza
verità non è affatto utile, ma può solo suscitare l’accecamento ideologico
di cui è archetipo l’economia neoliberale. Lo spirito della didattica delle
competenze consiste dunque nell’educare i discenti a infischiarsi della verità
delle premesse e a precipitarsi a corpo morto sulle loro conseguenze
applicative. Dalla sua applicazione escono in realtà alunni
del tutto ignoranti − essa costruisce infatti sulla sabbia dell’ignoranza; se
però potesse mantenere la sua promessa, se esistesse la competenza del dedurre
dal nulla, ne uscirebbero soltanto alunni manipolabili: capaci di operare con
strumenti anche raffinati, incapaci di valutare l’opportunità di applicarli,
perché incapaci di verità, cioè di visione della realtà.
[1] Disponibile al seguente
indirizzo: https://www.roars.it/online/lambiguo-impero-delle-competenze.
− Queste mie osservazioni sono state suscitate dagli stimoli e
dall’incoraggiamento di Fausto Di Biase e Marino Badiale, ai quali va il mio
ringraziamento.
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