martedì 16 luglio 2019

Con gli occhi di Enea. Profughi di ieri e di oggi - Antonella Tarpino




C’è un libro sicuramente memorabile, con cui credo sia giusto aprire la serie MemorandaHomo sum di Maurizio Bettini (Einaudi 2019) sull’Altro, il Naufrago, il Barbaro nelle società antiche. Memorabile in sé, questo libro, anche perché riporta alla nostra memoria, come in uno specchio (lo specchio per meglio dire del Mediterraneo) l’idea che gli antichi avevano di ciò che oggi noi chiamiamo “diritti umani”. Lo fa con un espediente di forte impatto emotivo rileggendo il trauma del naufrago attraverso i versi dell’Eneide, il libro che fonda in un certo senso la nostra identità culturale. Con i Troiani in fuga verso l’Italia come fossero i Siriani o i Tunisini di oggi (non poi così lontani tra l’altro geograficamente dalle coste del Medio Oriente contemporaneo). Sono infatti troppi i dispersi nel mare che fu di Virgilio, i cadaveri che fluttuano a mezz’acqua, perché quei versi si possano ancora leggere solo come poesia. Immaginiamo allora per un momento, come fa Bettini, che lo sguardo di Enea si posi su ciò che dagli schermi delle nostre televisioni rinviano alle innumerevoli guerre che insanguinano il presente. Che cosa vedrebbe Enea in queste circostanze? Una bambola strappata, magari sulla battigia, una scarpa spaiata…Gli scenari sarebbero altri, ma la reazione dell’eroe sarebbe la stessa. Evocherebbe con un’espressione straordinaria, piena di pietas, le “lacrime delle cose”: le scene che suscitano lacrime e nello stesso tempo ne sono bagnate. Forse basta posare gli occhi su quella bambola strappata – momenti in cui il lontano si fa improvvisamente vicino e l’anonimo diventa familiare – per comprendere quanto la violenza del naufrago e la costruzione dell’umano siano legati fra di loro fin dai tempi più lontani. Con la differenza che ora le “cose “, gli eventi tragici, la fuga dalla guerra, suscitano sempre meno lacrime, e le “cose” stesse non piangono più.  Possiamo allora dire – sotto la guida di Bettini – che per duemila anni Didone, Enea, Ilioneo, non hanno semplicemente interpretato uno degli episodi più belli del poema. Hanno continuato a trasmetterci i principî secondo cui un popolo che non sia barbaro – ma rispetti i buoni costumi, l’umanità – deve comportarsi quando un gruppo di naufraghi, fuggendo da una guerra spaventosa, approda sulle “nostre” coste. Un lungo cammino al termine del quale, come recita il Preambolo della Dichiarazione dei diritti umani, 1948, si è stabilito che «i diritti umani siano protetti da norme giuridiche». Proviamo anche a immaginare come reagirebbero Enea e i suoi amici, vedendo l’atteggiamento che non solo un buon numero di Italiani, ma purtroppo anche chi li governa, sta sviluppando nei confronti dei profughi e dei naufraghi che tentano di raggiungere le nostre coste. «Quale mai tanto barbara patria permette questi usi?» tornerebbe a esclamare Ilioneo con le parole di Virgilio quando temeva d’incontrare l’ostilità dei Cartaginesi «Ci nega accoglienza alla riva… e ci scaccia dal margine estremo del lido». Eppure Virgilio – fa notare Bettini – non poteva certo conoscere l’Articolo 10 della nostra Costituzione che recita: «Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge».Ed ecco allora quanto il momento storico in cui viviamo sia malauguratamente propizio per tornare a farci riflettere sulla nostra memoria più lontana e su che cosa abbia significato fin dai secoli più antichi “essere uomini”. In particolare richiamandoci alle origini di ciò che noi chiamiamo diritti umani e che invece per i Greci oltre che per i Romani – imparo – erano i doveri degli uomini verso gli uomini. Il naufrago nel Mare Nostrum si aggrappa infatti alla mano che lo salva non perché ne abbia diritto, ma perché chi gliela porge ha il dovere di non farlo annegare. Come ci mostra lo straordinario esempio – che voglio riportare brevemente – dell’eroe attico Bouzýges, colui che «per primo aveva aggiogato i buoi sotto l’aratro» e il suo mitico aratro era conservato sull’Acropoli “a memoria” di tale evento. I sacerdoti che a lui si ispiravano presiedevano annualmente all’avvio del lavoro nei campi ritualizzandoli con un’aratura di carattere sacro. La cosa interessante per il nostro discorso, però, è che nel rito che presiedeva all’inizio dei raccolti  – ancora Bettini – i sacerdoti scagliavano anche una serie di maledizioni contro tre distinte categorie di persone, i cui comportamenti apparivano particolarmente riprovevoli e tali da minacciare il benessere della comunità:  coloro che negavano fuoco o acqua a chi ne faceva richiesta; coloro che si rifiutavano di mostrare la strada agli erranti; e infine coloro che lasciavano insepolto un cadavere. Obblighi assai generali, tali da svelare un carattere consuetudinario.Per avvicinarci geograficamente alla patria degli Italiani e dei presunti diritti di prelazione da invocare, gli stessi obblighi individuati dai Greci li ritroviamo presso i Romani. La societas umana teorizzata da Cicerone sta insieme infatti quando ci si comporta in modo tale da rispettare il principio secondo cui l’usufruire di beni condivisi da tutti – attenzione, beni che la natura ha generato perché fossero a disposizione “degli uomini in quanto tali” – implica sia l’atto di profittarne sia quello di concederne l’uso ad altri uomini. Tanto il ricevere quanto il dare. Da qui, continua Cicerone, derivano quelle prestazioni che vengono indicate appunto come “communia” e che consistono proprio nell’obbligo di concedere l’accesso all’acqua (non prohibere aqua profluente), di permettere che si accenda fuoco da fuoco (pati ab igne ignem capere), di dare un consiglio onesto a chi deve prendere una decisione (consilium fidele). Alla consueta lista di obblighi citati, Seneca aggiunge anche quello di salvare la vita ai naufraghi. Si tratta cioè degli stessi comandamenti di umanità che abbiamo visto invocato fin dai tempi degli eroi dell’Attica e che oggi invece vediamo disattesi dalla politica dei respingimenti nel canale di Sicilia. Ciò che per noi moderni è un diritto che promana dall’interno della persona, in quanto persona umana, per gli antichi è piuttosto un obbligo che viene imposto dall’esterno, sotto l’impulso della divinità che vigila sul buon ordine del mondo per i danni che trasgredire a ciò può comportare.
«Sono uomo – recita il famoso verso di Terenzio – niente di umano ritengo mi sia estraneo». Da interpretare: siamo nati nel vincolo di obblighi reciproci. Questo verso paradigmatico – commenta Bettini – nasce dunque come invito non solo alla comunicazione fra gli uomini, ma piuttosto al suo eccesso, alla indiscrezione: al superamento delle barriere in nome della comune “umanità”. Ancora una volta torna in mente l’esortazione che Ilioneo rivolge a Didone quando ancora teme che lui e i suoi compagni possano venir respinti dalle coste di Cartagine: «guardaci più da vicino, considera chi siamo». Le parole del naufrago esprimono la preghiera a osservare “più da vicino” l’altro, a conoscerlo meglio per superare la barriera delle apparenze o dei pregiudizi, la barriera dell’ignoranza. Una esortazione ad essere “indiscreti”, insomma, verso chi non si conosce.

Qualcosa di molto simile ho sentito dire da Mimmo Lucano quando mi condusse a Riace l’antropologo Vito Teti. Che cosa può esserci sul limite, anche geografico di un paese come Riace? Oltre il mare di cadaveri che insanguinano il Mediterraneo, presentandosi come «una porta aperta ospitale, unico reale antidoto, alla “paura reciproca” – così Lucano – che condividevano gli eterogenei gruppi residenti sulle diverse sponde del Mediterraneo. È dunque da un punto sottile dell’equilibrio (il bilancio tra rischi e occasioni) che l’ospite, o il naufrago, proveniente dal mare, traeva garanzia per la propria sacralità. Nel tempo lungo, fatto di scontri ma anche di incontri fra popolazioni in continuo movimento. È una lezione antica, quella di Riace (ora vergognosamente interrotta) che viene dai secoli lontanissimi quando il Mediterraneo era un crocevia attivo di scambi ma anche di sbarchi incessanti, come insegnano già i poemi epici.
 Naufraghi o ancora profughi, rifugiati nel lessico odierno.
 Leggendo queste pagine di Bettini mi è venuto in mente il libro di Agus Morales il grande reporter spagnolo Non siamo rifugiati (Einaudi 2018); mi ero soffermata su un passaggio (non quello citato in Homo sum) intorno alla figura del profugo. Morales confessa in apertura che voleva scrivere un libro sui rifugiati e l’aveva quasi terminato, quando si sorprese – in un ricordo struggente – a pensare al giovane Ulet: l’aveva visto salire su una nave di soccorso con una canottiera gialla e dei segni neri sul coccige. Non riusciva a camminare da solo: “era un uccello sgraziato con le ali ferite”. «Mamma» e «Coca Cola» erano le uniche parole che era in grado di pronunciare. Era solo. Era un minorenne senza famiglia né amici. I somali che viaggiavano insieme a lui dicevano che era stato torturato in un centro di detenzione in Libia, che lì lo costringevano a lavorare, che non gli davano né acqua né cibo. Il suo ultimo atto di libertà fu guardare il mar Mediterraneo. E si rese conto che Ulet non era un rifugiato.  Come i molti che aveva incontrato. Tanto più che per la popolazione rifugiata è un insulto che le venga chiesto cosa fa fuori dal proprio paese. Se ne sono andati perché c’è la guerra.  La popolazione espatriata – ci spiega il reporter – cresce nel nostro tempo perché gli esodi generati dalle nuove guerre, come quella in Siria, si vanno a sommare all’incessante stillicidio di conflitti ristagnanti, come quelli in Afghanistan o in Somalia, che affondano le loro radici nella Guerra fredda o nei primi anni del nuovo ordine mondiale. Più che un mondo in cui trionfa la guerra, conclude “è un mondo dove la pace fallisce”.

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