1. Del buon uso dello sciacquone (ovvero: se proprio
devo, faccio prima a parlare coi miei)
Giovanni De Mauro [Sciacquone, in Internazionale, 19/25 luglio 2019, p. 3] ci ricorda uno
studio condotto dall’università di Yale, nel quale è stato chiesto a un gruppo
di studenti «di scrivere una spiegazione dettagliata del funzionamento di
alcuni oggetti d’uso quotidiano, tra cui lo sciacquone del bagno», e di
valutare il proprio livello di conoscenza: «lo sforzo di spiegare rivelava agli
studenti quanto poco ne sapessero». In psicologia cognitiva, questo meccanismo
si chiama “Illusione della profondità esplicativa”: pensando di sapere più di
quello che effettivamente sappiamo, «ci sentiamo autorizzati a esprimere delle
opinioni più o meno su ogni cosa». Laddove, conclude De Mauro, «non c’è nulla
di male a dire “non lo so”: spesso è la posizione più onesta e corretta».
Perché, in definitiva, «possiamo scegliere di accettare e diffondere bugie,
voci e interpretazioni, oppure possiamo rifiutarci di farlo, e ammettere che
spesso non sappiamo».
La rubrica di Giovanni De Mauro cade giusto al termine di una decade nella quale si è letto di tutto e di più sul Rapporto Invalsi 2019 [⇒ qui]. Le “grandi firme” dei “quotidiani nazionali” si sono scatenati nell’illustrare lo stato non della scuola, ma dei discorsi sulla scuola (una cosa molto à la Laclau-Mouffe – ma questa è un’altra storia). And the winner is Silvia Ronchey, Perché siamo tornati analfabeti, Repubblica, 11 luglio 2019, con questo attacco fulminante:
La rubrica di Giovanni De Mauro cade giusto al termine di una decade nella quale si è letto di tutto e di più sul Rapporto Invalsi 2019 [⇒ qui]. Le “grandi firme” dei “quotidiani nazionali” si sono scatenati nell’illustrare lo stato non della scuola, ma dei discorsi sulla scuola (una cosa molto à la Laclau-Mouffe – ma questa è un’altra storia). And the winner is Silvia Ronchey, Perché siamo tornati analfabeti, Repubblica, 11 luglio 2019, con questo attacco fulminante:
Il 35 per cento degli adolescenti che hanno appena
affrontato la maturità, uscendo quindi da un più che decennale cursus studiorum, non riesce a comprendere un testo di
media complessità: leggono, ma non capiscono.
Massimiliano Manganelli, che ha editato un’edizione
annotata del papello di Ronchey, commenta:
Se ne deduce che sono in ottima compagnia, giacché
evidentemente l’autrice non conosce la differenza tra la maturità (che peraltro
non ha più questo nome soltanto da diciannove anni) e l’esame di Stato
conclusivo del primo ciclo, che si affronta al termine del primo ciclo di
istruzione, ossia dopo un percorso di istruzione obbligatoria di otto anni.
Sono comunque dettagli insignificanti, perché ciò che conta è la straordinaria
catena di pensieri che scaturisce da questo piccolo fraintendimento.
L’integrale del testo glossati lo lascio al lettore [⇒ qui], con
l’avvertenza che si raggiungono vette di rara comicità (che è un buon modo per
ricordare, con una lacrima sincera e un sorriso, Mattia Torre). Del genere
comico, però involontario, è la risposta di Repubblica, qui a
destra.
Due giorni dopo Corrado Augias non riesce a
trattenersi, e interviene anche lui su Repubblica,
con Il tramonto della scuola un disastro per i giovani, in
risposta alla lettera di una lettrice amareggiata che si definisce “figlia di
insegnante” (nota personale: io ne ho due, di genitori insegnanti: il mio
parere varrà il doppio?). Dopo aver citato D’Annunzio, mettendo le
mani avanti (si cita un reazionario per non apparire reazionari, mentre in
realtà si è reazionari), Augias affonda il colpo: «Un professore mio amico mi
diceva che alle medie non si studia più analisi logica e grammaticale che è
l’abc per cominciare a capire un testo». Di nuovo cedo la parola al glossatore
Manganelli:
L’autore è sicuramente più democratico di Ronchey: ha
persino un amico professore, non si sa di quale ordine di scuola. L’amico
professore è di grande utilità: è come una sorta di coccarda da appuntarsi al
petto per mostrare la propria convinzione democratica (“eh, ma io ho un amico
professore!”), può fornirti dati e notizie sulla scuola, a volte magari ti può
anche tinteggiare casa, durante i mesi estivi, naturalmente. Questa
affermazione fa pensare che l’amico professore – il professore è il migliore
amico del giornalista, dice il detto popolare – lavori in un liceo. È davvero
notevole l’uso delle fonti: si utilizzano giustamente anche quelle orali,
soprattutto per un’affermazione così importante. Dati, statistiche, indicazioni
nazionali, libri, convegni, anni e anni di lavoro di docenti ed esperti di
didattica sintetizzati in una sola frase: “alle medie non si studia più analisi
logica e grammaticale”. Davvero mirabile.
L’integrale glossato è ⇒ qui (valgono
le stesse avvertenze del precedente).
Ringraziando Manganelli, passo a un terzo papello, che in ordine cronologico è primo: Daniele Manca, La priorità negata: studiare (davvero), sul Corriere della sera (di cui è vicedirettore, non l’addetto alle fotocopie) del 9 luglio [⇒ qui]. In apertura tre squilli di tromba:
Ringraziando Manganelli, passo a un terzo papello, che in ordine cronologico è primo: Daniele Manca, La priorità negata: studiare (davvero), sul Corriere della sera (di cui è vicedirettore, non l’addetto alle fotocopie) del 9 luglio [⇒ qui]. In apertura tre squilli di tromba:
[a] Quasi la metà dei maturandi è “analfabeta” in
matematica. [b] Un bambino su due in
Calabria fa fatica a comprendere un testo in italiano. [c] Solo il 35% dei ragazzi che frequentavano il
quinto anno delle superiori ha superato pienamente la prova d’ascolto
dell’inglese.
La conclusione, regolando vecchi conti, si abbatte sul
nemico, identificandolo in chi ha criticato e boicottato i test Invalsi (anche
questa è un’operazione molto à la Laclau:
creazione escludente del nemico a partire dalla totalizzazione discorsiva
parziale):
Boicottaggio che continua ancora oggi e che è il
simbolo di quell’Italia che non ama il merito, che non capisce come una sana
competizione e concorrenza siano vitali per la crescita. Che è pronta persino a
non riconoscere e valorizzare le sue eccellenze pur di crogiolarsi nella sua
continua fuga dalla realtà alla ricerca perenne di alibi per poter non agire.
Ho letto commenti entusiastici a questo papello. Poi
sono andato a vedere cosa dice il Rapporto:
·
[a] Solo il 20% dei maturandi si colloca al livello
1, il più basso. Il 60% raggiunge, o supera, il livello 3 «corrispondente a un
adeguato raggiungimento dei traguardi delle Indicazioni Nazionali» (vedi
grafico a p. 76 del Rapporto Invalsi 2019);
·
[b] Il 49% cui Manca si riferisce sono gli studenti
che, in uscita dalla secondaria di primo grado (la vecchia terza media), non
raggiungono il livello 3. Di questi, solo del 20% circa può esser detto che
faticano a comprendere un testo, conseguendo il livello più basso del punteggio
(vedi grafico a p. 47 del Rapporto Invalsi 2019);
·
[c] Il 35% dei ragazzi delle superiori cui si
riferisce Manca ha superato non una generica prova d’ascolto (listening), ma ha raggiunto il livello B2; del restante
65%, il 40% ha raggiunto il livello B1. Nota bene: sul reading, il B2 è conseguito dal 51%, e quasi il 40%
raggiunge il B1: ma citare questo dato avrebbe indebolito l’intento polemico di
Manca, che nell’argomentare la propria tesi deve aver pensato “tanto peggio per
i fatti”.
Per chi non li conoscesse, ecco a cosa corrispondono i
livelli B1 e B2, conseguiti dal
75% (listening) e 90% (reading):
B1 – Comprende i punti chiave di argomenti
familiari che riguardano la scuola, il tempo libero ecc. Sa muoversi con
disinvoltura in situazioni che possono verificarsi mentre viaggia nel paese di
cui parla la lingua. È in grado di produrre un testo semplice relativo ad
argomenti che siano familiari o di interesse personale. È in grado di esprimere
esperienze ed avvenimenti, sogni, speranze e ambizioni e di spiegare brevemente
le ragioni delle sue opinioni e dei suoi progetti.
B2 – Comprende le idee principali di testi complessi su argomenti sia concreti che astratti, comprese le discussioni tecniche sul suo campo di specializzazione. È in grado di interagire con una certa scioltezza e spontaneità che rendono possibile una interazione naturale con i parlanti nativi senza sforzo per l’interlocutore. Sa produrre un testo chiaro e dettagliato su un’ampia gamma di argomenti e spiegare un punto di vista su un argomento fornendo i pro e i contro delle varie opzioni.
B2 – Comprende le idee principali di testi complessi su argomenti sia concreti che astratti, comprese le discussioni tecniche sul suo campo di specializzazione. È in grado di interagire con una certa scioltezza e spontaneità che rendono possibile una interazione naturale con i parlanti nativi senza sforzo per l’interlocutore. Sa produrre un testo chiaro e dettagliato su un’ampia gamma di argomenti e spiegare un punto di vista su un argomento fornendo i pro e i contro delle varie opzioni.
Insomma, fra un livello B1 e il non comprendere “the cat is on the table” c’è una bella differenza.
Non è chiaro se Manca appartenga alla categoria di quelli che pensano di sapere più di quello che effettivamente sanno, o a quel novero di analfabeti funzionali che faticano a comprendere un testo complesso nel quale ci sono contemporaneamente parole e grafici.
Rimane il fatto che Ronchey, Augias, Manca, nello loro ansia di rincorrere Galli Della Loggia, confermano la veridicità delle parole di Tullio De Mauro citate sul manifesto da Vanessa Roghi [La lingua italiana non è perduta, 20 luglio 2019, ⇒ qui], una che ha tardato a intervenire – essendo di formazione storica, è ancora convinta che si debba leggere e studiare ciò di cui si parla (cosa di cui era convinto anche Lenin, per dire):
Non è chiaro se Manca appartenga alla categoria di quelli che pensano di sapere più di quello che effettivamente sanno, o a quel novero di analfabeti funzionali che faticano a comprendere un testo complesso nel quale ci sono contemporaneamente parole e grafici.
Rimane il fatto che Ronchey, Augias, Manca, nello loro ansia di rincorrere Galli Della Loggia, confermano la veridicità delle parole di Tullio De Mauro citate sul manifesto da Vanessa Roghi [La lingua italiana non è perduta, 20 luglio 2019, ⇒ qui], una che ha tardato a intervenire – essendo di formazione storica, è ancora convinta che si debba leggere e studiare ciò di cui si parla (cosa di cui era convinto anche Lenin, per dire):
Dobbiamo uscire dall’innocenza e farci capaci di una
valutazione critica di tutta l’informazione. Dobbiamo tenere conto del fatto
che in materia di scuola e di lingua molti intellettuali e politici, dato che
sono andati a scuola e a scuola ci va la sorellina o la nipotina, e dato che
parlano, si sentono autorizzati a sparare panzane a ruota libera. Come se, per
il fatto di vivere nel sistema solare, ci sentissimo autorizzati a dare pareri
di astrofisica o, causa raffreddore, in materia di batteriologia e virologia.
In ogni caso: viste le basi dei loro papelli, di che stiamo a parlare? Non c’è bisogno di essere
laureati a Yale, e neanche di essere idraulici, per sapere almeno una cosa
sulla funzione dello sciacquone.
2. L’ordine del discorso statistico
Spoiler: “puoi disinteressarti dei
numeri, ma non sperare che loro si disinteressino di te” (Éric-Emmanuel
Schmitt)
Chi ha letto finora potrebbe avere l’impressione che,
in ogni caso, i Rapporti Invalsi abbiano
solide fondamenta: insomma, non è colpa loro se c’è chi parla di cose che non
conosce – ma i dati sono fondati su certezze matematiche, sono una fotografia,
o forse un termometro – comunque sono numeri, e i numeri NON SONO INTERPRETABILI.
Davvero?
Faccio finta di credere che la statistica sia applicabile ai contesti dinamici (su questo rimando ad Angelique Del Rey, ⇒ qui), e mi limito al solo modello statistico adottato dall’Invalsi: il “modello di Rasch”, dal nome del matematico danese Georg Rasch. Questo modello ha un indubbio vantaggio: la sua oscurità. È stato definito “una scatola nera in una scatola nera”: però, col tempo (il modello è del 1977, anno che peraltro ha visto anche cose buone), qualcosa dalla black box è filtrato.
In primo luogo, come riassume David Lognoli su ROARS [⇒ qui]:
Davvero?
Faccio finta di credere che la statistica sia applicabile ai contesti dinamici (su questo rimando ad Angelique Del Rey, ⇒ qui), e mi limito al solo modello statistico adottato dall’Invalsi: il “modello di Rasch”, dal nome del matematico danese Georg Rasch. Questo modello ha un indubbio vantaggio: la sua oscurità. È stato definito “una scatola nera in una scatola nera”: però, col tempo (il modello è del 1977, anno che peraltro ha visto anche cose buone), qualcosa dalla black box è filtrato.
In primo luogo, come riassume David Lognoli su ROARS [⇒ qui]:
Il sistema di valutazione dell’INVALSI è realizzato
seguendo il modello di Rasch, un modello di psicometria per il quale,
necessariamente, 1/3 delle prove è sotto un valore “soglia”. Per alcuni aspetti
è come il modello dei percentili, insomma necessariamente il 50% degli infanti
sarà sotto il 50esimo percentile, proprio perché la definizione di percentile è
quella del valore sotto cui vi è la percentuale indicata. Nel caso delle prove
INVALSI le domande sono selezionate ed adattate in tutto il processo di
pre-test in modo che appunto l’esito dei test segua questa distribuzione.
Questa selezione è pure una procedura costosa, oltre 20 milioni di Euro secondo
alcune fonti. Dunque poiché il sistema di valutazione INVALSI è costruito in
questo modo, 1/3 degli studenti non può che avere i suddetti risultati. Si
verifica ciò che ci si aspetta si debba verificare. Pertanto non vi è alcuno
scoop.
La prima cosa da tenere a mente è che 200 non è un
valore assoluto ma convenzionale (“la media dell’Italia”) e che anche l’unità
di misura dei punti non è assoluta ma è definita in modo che 40 punti
corrispondano a una “deviazione standard”, ovvero è agganciata alla variabilità
dei punteggi ottenuti dagli alunni. Avere agganciato l’unità di misura alla
variabilità nella popolazione degli alunni significa che, se i punteggi si
distribuiscono secondo una campana gaussiana, il 35% degli alunni è destinato a
finire sotto 184 punti. Infatti, se X è una variabile casuale gaussiana con
deviazione standard SD, si ha che Pr(X< MEDIA – 0.4 SD) = 0.35. Dato che
MEDIA – 0.4 SD = 200 – 0.4×40 = 184, risulterà Pr(X<184)=0.35.
E infatti nel 2018 la “soglia di analfabetismo”
corrisponde a 185. Conclude Lognoli:
Portando il sistema agli estremi, se applichiamo tutta
la metodologia INVALSI a un corpo di studenti che sono tutti premi Nobel
comunque 1/3 risulterà sotto soglia e similmente se l’applichiamo a un corpo di
veri e propri “somari” 2/3 risulteranno sufficienti anche se, magari, sanno a
malapena leggere un testo lungo tre pagine.
Scoop? Manco per niente! Sono anni che gli stessi
statistici mettono in discussione l’utilizzabilità di questo modello. Ad
esempio, David Spiegelhalter, professore a Cambridge e statistico di fama mondiale
[⇒ qui]; ad
esempio, un’ottantina di accademici firmatari dell’appello OECD and PISA tests are damaging education worldwide [⇒ qui]. Ad
esempio, Svend Kreiner dell’Università di Copenhagen, allievo di Rasch, che ha
studiato l’applicazione di questo modello nei test OCSE-PISA – non ci facciamo
mancare niente. In effetti, chi ha buona memoria ricorderà che i test INVALSI
furono “venduti” (lo affermava il Quaderno bianco sulla scuola pubblicato
nel settembre 2007 dai ministri Padoa-Schioppa e Fioroni) come metodo
alternativo ai test internazionali non «in grado di cogliere i particolari
profili della scuola italiana» (ib. p. 147): però il metodo è lo stesso.
Torniamo a Kreiner. Che ha dimostrato come i risultati dei test PISA, e le
posizioni in classifica (ranking) che ne
scaturiscono, dipendono dal tipo di domanda somministrata allo studente testato
[⇒ qui].
Sbavature? Giuseppe De Nicolao, nella nota introduttiva al saggio di Enrico
Rogora Il modello di Rasch, cui rimando [⇒ qui],
spiega:
Kreiner ha provato a fare dei calcoli per quantificare
gli effetti di queste “sbavature”: la posizione del Regno Unito nel “Reading
Test” 2006 oscillerebbe tra 14 e 30, quella della Danimarca tra 5 e 37, quella
del Canada tra 2 e 25 e quella del Giappone tra 8 e 40. Se si trattasse di un
termometro, ci sarebbe il rischio di confondere una febbre da cavallo con un
congelamento. “The best we can say about Pisa rankings is
that they are useless” conclude Kreiner.
Con buona pace di chi sostiene che il modello di Rasch
sarebbe in grado di rispettare – unico fra i modelli statistici – la “proprietà
dell’invarianza della misurazione”, che rappresenterebbe «una forma di
“misurazione oggettiva”» (Giuseppe Giampaglia, Il
modello di Rasch: potenzialità e limiti per le prove INVALSI, ⇒ qui).
Lascio a Enrico Rogora la conclusione:
Il protocollo utilizzato dall’INVALSI per costruire un
test definisce la variabile che si intende misurare.In altre
parole, e questo è necessaria conseguenza del modello di Rasch, l’abilità matematica testata dall’INVALSI è l’abilità di
risolvere i test INVALSI. Non voglio entrare nel merito se questo
sia giusto o sbagliato, voglio solo osservare che necessariamente questo non è modificabile.
Lo stesso Giuseppe Giampaglia, nella conferenza
nazionale per il decennale delle prove INVALSI (le cui slide sono pubblicate
sul sito dell’INVALSI) ammette che c’è un ulteriore limite (rispetto a quelli
già esaminati, che bypassa con disinvoltura):
Contrariamente a quanto si verifica nelle indagini
empiriche, nelle applicazioni col modello di Rasch un campione piccolo è preferibile a un campione grande. Con
campioni molto grandi o popolazioni (è il caso dell’INVALSI) migliora la
precisione della stima dei parametri, ma, proprio a causa di questa maggior
precisione, peggiora la congruenza tra modello e dati. Di conseguenza, per
stimare abilità e difficoltà occorrerebbe impiegare campioni
con ampiezza piccola, compresa tra i 400 e gli 800 casi(regola
empirica). E non è sostenibile la tesi secondo cui questo problema dipende dal
tipo di software utilizzato. È l’architettura del modello
che purtroppo mostra questo limite [sottolineato mio].
Di nuovo: se queste sono le basi oggettive non
interpretabili, di che stiamo parlando?
3. Governo disciplinare dell’istruzione e uso
governamentale dell’ignoranza: stiamo parlando di questo
A giusta ragione, Vanessa Roghi confuta la metafora
della fotografia (a quella del termometro abbiamo già provveduto):
Invalsi usa questa metafora da anni: il rapporto
fotografa. L’idea è che la fotografia sia uno strumento neutro di lettura della
realtà, neutro e incontrovertibile: se invalsi disegna un paese diviso in due,
il paese è diviso in due. Non tireremo in ballo la filosofia per denunciare la
prima deformazione prospettica: la fotografia sceglie il punto di vista, lo
stesso oggetto, la stessa persona, lo stesso evento storico possono essere
rappresentati in modi diametralmente opposti. Prendere per buona la metafora della
fotografia è il primo grande errore. Invalsi non fotografa bensì racconta e lo
fa in base a criteri del tutto opinabili: come è stato messo in luce da
Cristiano Corsini [⇒ qui] fra gli
altri, pretendere di valutare un sistema di competenze a partire da un sistema
di misurazione che si fonda sull’accumulo di informazioni è in sé sbagliato.
E sottolinea che, a focalizzare la differenza nord-sud,
si perdono di vista altre, più sottili differenze che segmentano la scuola
italiana: città-campagna, ad esempio. Aggiungo: piccoli centri urbani-grandi
città; centro-periferia; indigeni-migranti. Cose che c’erano già in Gramsci, e
su cui hanno lavorato Luciano Ferrari Bravo e Alessandro Serafini. Insomma, la
narrazione che si spaccia per fotografia distorce e falsifica la
rappresentazione della realtà, dunque distorce e falsifica la realtà stessa.
A che scopo? Beh, qualche indizio già lo abbiamo, fra le righe.
Commentando «il responso da nonno in ciabatte davanti al camino di Augias», il gruppo Laudes, in un testo di grande spessore, Di nuovo sulla decadenza della scuola italiana [⇒ qui], individua tre «caratteri prototipici del discorso sulla decadenza della scuola»:
A che scopo? Beh, qualche indizio già lo abbiamo, fra le righe.
Commentando «il responso da nonno in ciabatte davanti al camino di Augias», il gruppo Laudes, in un testo di grande spessore, Di nuovo sulla decadenza della scuola italiana [⇒ qui], individua tre «caratteri prototipici del discorso sulla decadenza della scuola»:
·
l’idealizzazione
del passato e la convinzione di un’età dell’oro della scuola italiana
·
l’idealizzazione
del topos imperituro della disciplina impartita un tempo da docenti e famiglie
·
l’idealizzazione
della didattica tradizionale, vale a dire mnemotecnica grammaticale,
nozionismo, tassonomie vetuste, categorie storiche con un certo sentore di
colonialismo.
In sintesi, la costruzione di un passato immaginario
cui fare ritorno, dal momento che l’ordine del discorso neo-liberale presuppone
che all’attuale presente non c’è alternativa (There Is No Alternative):
è il realismo capitalista di cui ha scritto Mark
Fisher, che genera un uso del passato come nostalgia di un futuro perduto, e
una generalizzata “retromania”, cioè lo sguardo rivolto a un passato nostalgico
e retrò nell’immaginario sociale. In questo caso, c’è un passato remoto cui
ritornare, oltrepassando all’indietro quel cattivo passato che viene incarnato
dagli spettri (non per caso l’ontologia di Fisher si configura come Hauntology, spettrologia) di don Milani e Tullio De
Mauro. Sia chiaro: non si tratta di fare l’apologia acritica di De Mauro e don
Milani, che, come tutti, hanno anche detto e/o fatto cose non condivisibili
(rimando all’intervento di Giovanni Carosotti Competenze e sinistra? Contro
il facile gioco degli opposti estremismi, ⇒ qui). Ma
di cogliere il cuore del loro ordine del discorso educativo: la
democratizzazione della lingua e dell’istruzione, del loro apprendimento e del
loro uso in favore di un tempo futuro, nel quale le condizioni materiali delle
disuguaglianze e delle segmentazioni saranno abolite.
Di cosa stiamo parlando, allora? Di due immagini.
La prima è un – absit iniuria verbis – grafico (qui sotto),
che dimostrerebbe il rapporto fra la
proliferazione dei negozi IKEA e l’adozione dei cambi monetari fissi (non è uno
scherzo, giuro: vedi ⇒ qui). Non
serve almanaccare quante regole dell’analitica e del buon senso siano state
infrante in questo disegnetto: serve ricordare che il suo autore è presidente
della Commissione Bilancio, Tesoro e Programmazione della camera dei Deputati.
C’è bisogno di spiegare il nesso fra il terrapiattismo pseudo-economico di cui
l’autore è uno degli esponenti di punta, e il pluridecennale attacco al diritto
all’istruzione?
La prima è un – absit iniuria verbis – grafico (qui sotto),
La seconda, è l’immagine che ho posto in testa a
questo intervento. Quello storytelling che
dice non solo la condizione del bambino migrante sgomberato da una casa (ex
scuola, fra l’altro) nella quale era probabilmente nato, e nella quale – lo
attestano i libri che si porta dietro – pratiche sociali e solidali gli
garantivano il diritto all’istruzione; che dice il nulla verso cui è diretto,
senza una destinazione garantita, senza alcun impegno per la continuità
scolastica. Nella Roma il cui ministro dell’interno è il leghista Salvini, la
cui sindaca è la pentastellata Raggi, il cui presidente della regione è il
piddino Zingaretti.
Se avete bisogno di aiuto per unite i puntini rappresentati da queste due immagini e il discorso del Rapporto INVALSI 2019, vuol dire che siete parte del problema. E che, per quanto vi crediate assolti, siete lo stesso coinvolti.
Se avete bisogno di aiuto per unite i puntini rappresentati da queste due immagini e il discorso del Rapporto INVALSI 2019, vuol dire che siete parte del problema. E che, per quanto vi crediate assolti, siete lo stesso coinvolti.
Illuminante. Grazie.
RispondiEliminai numeri non imbrogliano.
Eliminal'uso e l'interpretazione sono l'imbroglio.