Pino Nicolosi ha scritto un testo che illumina la questione. Ve lo
propongo:
La proprietà aperta e i suoi nemici: suicidi
eccellenti nella Silicon Valley
Di Rattus Norvegicus
Considero il recente (presunto) suicidio del programmatore indiano
ventiseienne Suchir Balaji, un giovane che aveva alle spalle quattro anni di
lavoro presso il centro di ricerca di OpenAI, un evento di una tale gravità da
richiedere un ripensamento in merito al ruolo svolto dalla proprietà intellettuale negli ultimi quarant’anni,
sia all’interno della produzione informatica e di rete sia, più in generale,
nell’ambito dei complessi rapporti che questa peculiare forma di proprietà
privata ha stabilito con la libertà di opinione, con il diritto di accesso
all’educazione e alla formazione, con la cooperazione internazionale allo
sviluppo e, per estensione, con tutti i principali pilastri del diritto nelle
democrazie liberali, quelli che i paladini del libero mercato continuano a
invocare nei loro discorsi pubblici sebbene nelle realtà non se ne veda più
traccia da moltissimo tempo.
Partendo dalle
prime proteste dei movimenti "no copyright" degli anni Novanta, fino
ad arrivare alle attuali rimostranze contro la violazione, da parte
dell'intelligenza artificiale generativa (LLM), delle leggi americane sul fair
use, abbiamo assistito a un progressivo attenuarsi dei motivi polemici
contro queste leggi. Da posizioni che si schieravano radicalmente contro la
proprietà intellettuale, siamo passati a un atteggiamento sostanzialmente
inverso: un pieno riconoscimento delle leggi di tutela del copyright,
accompagnato dalla veemente denuncia delle loro violazioni effettuate dalle Big
Tech. Come vedremo alla fine dell’articolo, è da quest’ultima posizione che
Balaji aveva mosso la sua critica, rigorosa e puntuale, nei confronti di
OpenAI.
Per una serie di strane e tristi coincidenze, ci è dato ripercorrere
brevemente l'itinerario di queste oscillazioni in materia di proprietà
intellettuale degli ultimi quarant'anni, a partire dalle morti di altri due
autorevolissimi ricercatori informatici che, come nel caso Balaji, sono state
archiviate come suicidi dall'autorità giudiziaria statunitense. Qui però non ci
dedicheremo a dietrologie: il filo rosso che tiene insieme le vicende di questi
tre programmatori non passa per gli eventuali (legittimi) dubbi sulle cause
della loro morte, ma per il contributo che ciascuno di loro ha dato al
dibattito in merito allo scopo e al senso della proprietà intellettuale
nell'epoca del capitalismo delle piattaforme.
Ian Murdock (la cooperazione)
Iniziamo da Ian Murdock, 42 anni, trovato morto nel suo appartamento il 28
Dicembre del 2015 a San Francisco. Era stato arrestato due giorni prima del
tragico ritrovamento, per aver dato violentemente in escandescenze contro la
porta di un'abitazione privata. L'inchiesta e l’autopsia hanno accertato che,
prima e dopo l’arresto, c’erano state colluttazioni tra Murdock e gli agenti di
polizia che lo avevano arrestato. Dopo i due giorni di carcere è stato
rilasciato su cauzione. Si è ucciso la notte successiva al suo rilascio.
Murdock viene ricordato soprattutto per essere stato l'ideatore e il
fondatore, nei primi anni Novanta, di una delle più celebri distribuzioni del
sistema operativo GNU/Linux. La distro, che si chiama Debian (da
Ian, il suo nome, unito a quello di Debra, la sua compagna di allora), è ancora
molto attiva ed è probabilmente l'unica rimasta fedele ai principi originali
del software libero. Lo scopo di Murdock era quello di «creare una
distribuzione non commerciale che sia in grado di competere effettivamente sul
libero mercato.» Obiettivo raggiunto, anche grazie alla stretta collaborazione
che Debian stabilì con la Free Software Foundation. (La citazione tra
virgolette è tratta dal "manifesto Debian" scritto da Ian Murdock nel
1994).
A rileggere oggi il manifesto di Ian, torna alla mente uno degli
interrogativi più stimolanti dell'informatica di quegli anni: è possibile
almeno in linea di principio, raggiungere con il software libero una qualità
paragonabile a quella dei software commerciali, come conseguenza di un modello
di organizzazione del lavoro più aperto ? Il successo della distro di Ian
Murdock suggerisce una risposta positiva. In realtà, l’intera vicenda del
software libero, con i suoi complessi risvolti legali e di mercato, costituisce
uno snodo importante e irrisolto rispetto al tema della proprietà intellettuale
e dei suoi rapporti con il lavoro informatico. Sebbene, a partire dai primi
anni del nuovo secolo, le libertà che il “Pinguino” garantiva a programmatori e
utenti siano state progressivamente ristrette e asservite agli scopi del
capitalismo globalizzato, queste domande restano centrali e dovrebbero
costituire le fondamenta di un antagonismo digitale nell’epoca del dominio
delle grandi piattaforme digitali.
Mi si conceda una nota occasionale a questo riguardo: sebbene nessuno tra i
fondatori e i pionieri del software libero avrebbe accettato di buon grado di
essere definito un "comunista", è altrettanto vero che nelle
posizioni originarie di questo movimento si coglieva distintamente la eco di un
celebre passo di un altro "manifesto", quello di Marx ed Engels:
«il comunismo non toglie a nessuno la facoltà di appropriarsi dei prodotti
sociali; toglie soltanto la facoltà di valersi di tale appropriazione per asservire
lavoro altrui.»
Nella filosofia originaria del software libero ad asservire lavoro
altrui sono tutti coloro che congelano a scopo di lucro un software
all’interno di una licenza chiusa, impedendo in questo modo che circoli
liberamente e che altri programmatori possano migliorarlo e modificarlo per i
loro scopi. Questo il senso generale del cosiddetto “copyleft”, la licenza
ideata da Richard Stallman in cui, contrariamente a quanto avviene nel
copyright, solo alcuni dei diritti degli autori restano riservati, mentre
vengono garantiti nuovi diritti alla circolazione del software.
La nota marxiana che alcuni avvertivano nelle regole legali del software
libero, non solo sfuggiva del tutto ai suoi fondatori, ma veniva spesso
ignorata anche dai marxisti che, per lo più, se ne sono rimasti “in finestra” a
guardare lo spettacolo. A cogliere immediatamente la sua eco furono invece
i robber baron del digitale, che non tardarono ad accusare di
comunismo l'intera comunità di Gnu/Linux. Basti ricordare le celebri parole
pronunciate nel 2000 da Steve Ballmer, all'epoca braccio destro di Bill Gates:
«Linux è un competitor agguerrito. Non c’è alcuna azienda che si chiama
Linux, e a malapena Linux ha una road map. Eppure Linux sembra sprigionarsi
naturalmente dalla Terra. E ha le caratteristiche del comunismo che alla gente
piacciono moltissimo, cioè è gratuito. Per noi è un fronte di competizione
vero».
In realtà il software libero, pur ammettendo pienamente il diritto dei
programmatori a ricavare denaro dalle loro attività, riusciva a contenere
notevolmente i profitti parossistici che le grandi holding avevano iniziato ad
accumulare a danno del loro lavoro. Svolgeva, insomma, sia pure indirettamente
e in modo molto originale, una funzione di carattere “sindacale”. L’esistenza
di organizzazioni informatiche non ossessionate, nel loro lavoro, dai diritti
di proprietà sui propri prodotti, scatenava in Ballmer e negli altri gigacapitalisti, il
terrore di una continua critica politica al loro operato, oltre a quello di una
caduta dei profitti provocata dalla circolazione di prodotti in larga parte
gratuiti e di libero accesso. Soprattutto, nel caso delle prime licenze
copyleft, creava una serie di delicati problemi al "controllo"
dell'innovazione informatica esercitato dai potentati dell’informatica
proprietaria. Problemi “salutari” perché aprivano spazi di innovazione fino a
quel momento impensabili per le società a capitalismo avanzato. Concepire
un'informatica sociale, finalizzata a scopi alternativi rispetto a quelli del
profitto, è stato possibile soltanto nel periodo "aureo" del software
libero, nella seconda metà degli anni Novanta, quando le licenze di Richard
Stallman lasciavano ampi margini di possibilità all’ipotesi che programmi
informatici finalizzati a scopi alternativi a quelli della filosofia
neo-liberale, fossero non solo perfettamente concepibili, ma del tutto alla
portata dell'intelligenza collettiva. Oggi, la Microsoft è diventata
proprietaria dei principali siti di scambio di software open source e
ogni velleità in direzione di un’informatica alternativa nei contenuti e negli
obiettivi, sembra essersi infranta davanti al muro dell’interesse privato. I
marxisti alla finestra ne sono quasi compiaciuti: “Avete visto?” ci gridano
sventolando in aria Miseria della filosofia, “il vostro
cooperativismo proudhoniano ha fatto la fine che meritava”.
Il fatto che nel suo "manifesto Debian" Ian Murdock avesse
sottolineato i vantaggi del metodo cooperativo nello sviluppo del sistema,
denunciando come le avventure commerciali in solitaria di alcune delle prime
distribuzioni rischiassero di danneggiare l'immagine e la qualità di GNU/Linux,
aiuta a comprendere quanto delicato fosse quel passaggio. Nell'approccio di
Murdock l'indipendenza e l'autonomia economica dei programmatori era un
pre-requisito essenziale per ottenere prodotti di livello tale a da poter
competere con quelli di carattere commerciale. Era una scommessa difficile e
non sorprende che, sul piano politico, sia stata persa, probabilmente in modo
definitivo. Né stupisce che l’unica area di ispirazione marxiana che seppe
cogliere alcuni elementi delle potenzialità di conflitto inscritte nel software
libero sia stata quella operaista. Non solo perché attenta al lavoro cognitivo
e ai processi di estrazione del suo valore, ma anche perché memore delle sette
tesi sul controllo operaio di Panzieri e Libertini e, più in generale,
del ruolo dei consigli operai nelle esperienze di
autogestione del lavoro di fabbrica degli anni Cinquanta e Sessanta del
Novecento italiano. Quell’antica ricerca di autonomia dei lavoratori oggi
traspare, nell’ambito del cosiddetto neo-operaismo italiano, nella richiesta
politica di un reddito di base universale e incondizionato, pensato anche come
una forma di “liberazione” del lavoro cognitivo, inteso come intelligenza
“libera” non asservita ai diktat delle necessità di sopravvivenza.
Intermezzo
Sarà senz’altro utile, a questo punto, avventurarsi in una breve
digressione filosofica. Nel suo celebre libello Miseria dello
storicismo il filosofo della scienza Karl Popper rimproverò
esplicitamente ai marxisti di essersi illusi che la storia fosse
scientificamente prevedibile. Una critica che, personalmente, ho sempre
condiviso, almeno nelle sue linee generali, senza per questo diminuire di un
solo punto la mia devozione nei confronti dell’opera di Marx. Ma quando
entriamo nella più importante argomentazione di Popper a sostegno di questa
tesi, ci rendiamo immediatamente conto di come egli considerasse la crescita
della conoscenza scientifica come la più importante delle variabili in gioco,
l’unica che rende veramente imprevedibile il processo storico: non potendo in
alcun modo essere informati sullo stato della conoscenza scientifica tra dieci
o vent’anni, noi non possiamo avere un'idea, neanche approssimativa, di quella
che sarà la società del futuro. Deriva principalmente da questa osservazione la
convinzione di Popper secondo la quale lo storicismo è destinato a fallire
regolarmente nelle sue previsioni. Il mio parere, per quel che vale, è che su questo
aveva perfettamente ragione: non esistono leggi generali della storia.
L'imbarazzante corollario politico di un siffatto argomento, tuttavia, è quello
che la modalità più importante di esercizio del potere, nella nostra epoca,
consiste nel controllo assoluto della produzione scientifica, tecnica e
culturale. Solo gestendo dall’alto e con polso fermo la ricerca scientifica,
l’innovazione tecnologica e la circolazione dei saperi, il capitalismo può
garantire i suoi sviluppi sociali ed economici senza andare incontro a
conseguenze storico-politiche indesiderate. Quello della previsione scientifica
non è, dunque, soltanto un limite dell’utopismo politico, ma anche la
principale ossessione del realismo capitalista. Questo imbarazzante
corollario sir Karl non l’ha discusso nel suo librettino anticomunista, ma
probabilmente lo avrà rivelato in privato al suo amico Von Hayek, grande
teorico e stratega dell’economia neoliberista.
Il controllo dell’accesso alla conoscenza, in questa cornice teorica, è
divenuto immediatamente una faccenda politica e la ricerca di una strategia
adeguata per raggiungerlo si è risolta in una regolamentazione molto rigida
della proprietà intellettuale e in una sua gestione esclusiva da parte delle
principali organizzazioni capitalistiche. La recente notizia che ben due premi
Nobel, nel 2024, sono stati assegnati a studiosi che lavorano (o lavoravano)
presso Google, la dice lunga sul punto a cui è giunta la privatizzazione della
ricerca e il tentativo di ostacolare sistematicamente ogni forma di
circolazione libera del sapere e della conoscenza. La “società aperta” di
Popper ha soffocato sistematicamente qualsiasi forma di proprietà aperta
nell’ambito del lavoro intellettuale. Non posso fare a meno di chiedermi cosa
penserebbe oggi il grande filosofo della scienza, se fosse vivo, delle
illuminanti osservazioni che ho estratto da un’intervista di un paio di anni fa
ad un giovane studioso ungherese esperto di leggi sulla circolazione
dell'informazione libraria che si chiama Bodo Belasz. Bodo lavora attualmente
all'università di Amsterdam. Le prime domande dell'intervista vertono
sull'arresto in Argentina di due giovani russi, creatori di un importante sito
di copie pirata di libri che si chiamava Z-Library. Bodo, che sulla Russia la
sa lunga, faceva una nel merito una serie di considerazioni che meritano di
essere riportate per intero:
«Quando ho letto la notizia che questi due individui russi sono stati
arrestati, ho pensato, beh, la storia ha chiuso il cerchio. Non conosco queste
persone, quanti anni hanno, presumo siano sulla trentina. Ma certamente, i loro
genitori o i loro nonni potrebbero essere stati o avrebbero potuto facilmente
essere arrestati dalle autorità sovietiche per aver condiviso libri che non
avrebbero dovuto condividere. E ora, 30 anni dopo la caduta del muro di
Berlino, le persone vengono nuovamente detenute per aver condiviso libri. Per
un motivo diverso, ma è la stessa minaccia: 'Perderai la tua libertà se
condividi la conoscenza'.
La libertà di accedere e condividere la conoscenza è stata una delle
ragioni per cui le persone erano disposte a rischiare la vita prima degli anni
'90 nell'Europa centrale e orientale. Le persone rischiavano di andare in
prigione, perdere il lavoro, i mezzi di sussistenza e talvolta la vita perché
volevano sapere e condividere la conoscenza scrivendo samizdat, stampando e
distribuendo edizioni samizdat tra cui quelle di libri occidentali vietati. E
ora il sistema politico occidentale o liberale o democratico sta incarcerando
persone per - in superficie - atti molto simili. La storia del diritto d'autore
(il controllo del flusso della conoscenza attraverso i diritti economici
esclusivi degli autori) e la storia della censura (il controllo dello stesso
flusso dovuto a considerazioni politiche) sono state strettamente intrecciate
fin dall'inizio e, a quanto pare, a volte è difficile districarli ancora oggi».
Come profetizzò Franco Berardi in un librettino del 1991 intitolato Politiche
della mutazione, al crollo politico dell’impero del male ha
fatto seguito il trionfo dell’impero del peggio.
“La proprietà aperta e i suoi nemici” potrebbe essere il titolo di un
lavoro filosofico, dedicato al ricordo di Karl Popper, che si proponga di
approfondire, in un quadro generale, aperto anche ai problemi dell’innovazione
del software, la situazione denunciata da Bodo in quell’intervista.
Aaron Swartz (la condivisione)
Situazione che ci porta ad un secondo drammatico suicidio avvenuto nel
pantheon dell' informatica d'eccellenza: quello del giovane e celebre
programmatore Aron Swartz, avvenuto a New York l'undici Gennaio del 2013. Un
episodio che, per una serie di ragioni, ha avuto una risonanza maggiore di
quello di Murdock. Al di là della notorietà di Aaron, il nesso tra le posizioni
politiche di Swartz e la sua decisione di farla finita è, in questo caso, di
evidenza palmare. Il ragazzo era stato condannato definitivamente a una multa
di un milione di dollari e a trent’anni di carcere, per aver scaricato illegalmente,
presso un server del MIT, un cospicuo quantitativo di documentazione
scientifica sotto tutela che, presumibilmente, intendeva distribuire
gratuitamente in rete.
La sua decisione di promuovere la diffusione libera della conoscenza, anche
in modo illegale, l'aveva annunciata apertamente in un documento scritto in
Italia, ad Eramo, il "Guerrilla Open Access Manifesto". Terzo e
ultimo manifesto della nostra serie. Mentre sto scrivendo il calendario segna
il dodicesimo anniversario della morte di Swartz. Approfitto dell'occasione per
riportare qualche brano di quel suo illuminante scritto:
«L’informazione è potere. Ma come con ogni tipo di potere, ci sono quelli
che se ne vogliono impadronire. L’intero patrimonio scientifico e culturale,
pubblicato nel corso dei secoli in libri e riviste, è sempre più digitalizzato
e tenuto sotto chiave da una manciata di società private.(…)
Questo è un prezzo troppo alto da pagare. Forzare i ricercatori a pagare
per leggere il lavoro dei loro colleghi? Scansionare intere biblioteche, ma
consentire solo alla gente che lavora per Google di leggerne i libri? Fornire
articoli scientifici alle università d’élite del Primo Mondo, ma non ai bambini
del Sud del Mondo? Tutto ciò è oltraggioso ed inaccettabile.»
E' stato sostenuto, non senza buone ragioni, che il manifesto di Eramo è la
vera ragione della pena "esemplare" che i giudici americani hanno
deciso di infliggere ad Araoon. Quella che lo ha spinto al suicidio. Una pena
feroce, che non ha tenuto in minimo conto le ragioni etiche che lo avevano
motivato nel compiere quella operazione di "bracconaggio". Una
condanna politica, che ci sollecita a interrogarci ancora una volta su cosa vi
sia di così inevitabile e necessario nella gestione proibitiva ed esclusiva
delle conoscenze scientifiche e culturali. Si noti: mentre Mark Zucherberg, qualche giorno fa, ha
fatto pubblica ammenda in un video, dichiarandosi pentito di aver limitato la
possibilità di insultare pubblicamente le donne e la gente di colore su
Facebook e sostenendo, col capo cosparso di cenere, di avere in tal modo
ingiustamente ostacolato la libertà di parola, nessuno degli attuali gigacapitalisti si
sogna di fare pubblica ammenda per aver impedito la libertà d'accesso al
patrimonio scientifico e librario ai paesi in via di sviluppo. Anzi, le
associazioni degli editori stanno intentando odiose cause legali contro
fondazioni benemerite della cultura aperta come l'Internet Archive, una delle
più prestigiose e storiche istituzione della rete, per aver concesso ai
cittadini segregati durante l'emergenza pandemica lo scaricamento di qualche
centinaio di libri sotto copyright.
Diciamocelo
francamente, il liberalismo neoconservatore della libertà di parola ha due tipi
di cultori: gli imbecilli e quelli in perfetta malafede. I primi semplicemente
non capiscono che questa presunta libertà di parola nei social li sta
sprofondando nella più perfetta ignoranza, i secondi lo sanno benissimo, e
incassano cinicamente i vantaggi politici che ne derivano.
Suchir Balaji (la contraddizione)
Queste considerazioni ci portano all'ultimo dei tre suicidi che ho deciso
di portare all'attenzione dei lettori. Quello di Suchir Balalji, avvenuto il 26
Novembre 2024 a San Francisco. Sono stati espressi molti fondati dubbi sul
fatto che si sia realmente trattato di un suicidio. Tuttavia, qui ci occuperemo
soltanto delle forme di protesta che Suchir stava promuovendo nel periodo
precedente la sua morte. Quando, dopo che si era licenziato da OpenAI, aveva
rilasciato un'intervista al New York Times in cui denunciava
la violazione da parte di chatGPT dei diritti degli autori degli innumerevoli
testi che quell’orribile software, autentica scimmia del general
intellect marxiano, ingurgita nel corso delle fasi del suo
addestramento. Dunque, nel caso di Suchir, non vi è traccia di obiezioni alle
leggi sul copyright. Suchir, al contrario, ha sviluppato il suo ragionamento a
partire da quelle leggi, particolarmente quella sul fair use, per
sostenere la tesi che ChatGPT è concepito per violarle in modo regolare e
sistematico. Secondo Suchir Balaji la violazione della legge sul fair
use da parte di ChatGPT è, per così dire, un suo tratto strutturale,
intrinseco al suo funzionamento ordinario. Sul suo sito personale Suchir ci ha
lasciato alcune pagine illuminanti in cui mostra con chiarezza come il
funzionamento di questo LLM sia fondato sulla copia del contenuto di testi
sotto tutela (prelevati dentro e fuori della rete). Provo di seguito a fornirne
un breve e pedestre riassunto del suo pregevolissimo lavoro. Spero, almeno, di
facile comprensione: questi testi copiati vengono inizialmente “mescolati” a
quelli sul medesimo argomento. Progressivamente, tuttavia, soprattutto grazie
all’addestramento finale basato su rinforzo, effettuato da operatori umani,
ChatGPT riesce a contenere il “rumore”, fornendo all’utente risposte
approssimative ma, per l’essenziale, fondate sul contenuto originario dei testi
che ha copiato. A pensarci bene, le cose non potrebbero andare
diversamente,visto che si tratta di un dispositivo che tenta di contenere,
attraverso approssimazioni statistiche, l’entropia intrinseca che caratterizza
i sistemi di calcolo automatico.
Di qui la principale accusa mossa da Suchir ad OpenAI, quella di fare una
concorrenza illegale e sleale ad altre attività intellettuali retribuite che si
svolgono regolarmente su web o in altri contesti. La sua argomentazione è
quindi centrata sulla difesa di un'idea di libero mercato "sano",
contro la progressiva concentrazione di potere e conoscenza orchestrata dalle
grandi holding dell’AI.
Una prima considerazione da fare va nella direzione del classico "due
pesi due misure":
in nome delle
tutela del copyright, la giustizia non si è fatta scrupoli quando si è trattato
di spingere al suicidio un giovane talento come Aaron Swartz, condannandolo a
una pena draconiana, oppure quando ha deciso di portare in tribunale Internet
Archive. Ma quella stessa giustizia dimentica di fare qualsiasi tipo di
obiezione legale all’uso di testi protetti dalla legge, quando ad effettuare
quelle violazioni sono le grandi e potentissime holding dell’intelligenza
artificiale. E questo è un argomento sacrosanto, che trova ampio riscontro nel
lavoro di ricerca pubblicato da Suchir sul suo sito.
C’è tuttavia, una seconda osservazione da fare: quella che rimane interamente
da chiarire perché i testi protetti da copyright dovrebbero detenere tutele
maggiori rispetto a quelle di cui dispone, per esempio, il testo che sto
scrivendo in questo momento, o rispetto a quelle degli altri milioni di scritti
che ogni giorno gli utenti riversano nella rete.
Per quale
motivo, di grazia, gli spider di Chat-GPT dovrebbero essere autorizzati a
prelevare senza problemi la sterminata massa di materiale testuale prodotta
dagli utenti, ma dovrebbero invece fermarsi di fronte a lavori protetti
legalmente da regole di libero mercato ?
Chi garantisce, se non dei tecnicismi economici di dubbia verificabilità
empirica che, poniamo, gli autori degli articoli di Neurogreen generano valore
di mero uso, mentre quelli di Vogueautentico e purissimo valore di
scambio ? Non c’è nessuno che possa dimostrare, in linea di principio, che il
testo che state leggendo non abbia altrettanto diritto di essere tutelato dagli
abusi di ChatGPT, né che esso contribuisca “meno” alle risposte che l’oracolo
di OpenAI un giorno scodellerà a qualche ignaro utente, di quanto possa
contribuirvi un elzeviro di Vittorio Feltri dedicato all’ultimo atroce discorso
di Valditara. Dal fatto che un lavoro sia pagato non deriva automaticamente che
sia anche più produttivo ai fini di ChatGPT.
In realtà,
l’illusione di un mercato in perenne equilibro sta crollando sotto il peso dei
fenomeni paradossali che la gestione della proprietà intellettuale ha sempre
generato ma che, con l’avvento degli LLM, è diventato un peso insostenibile.
Naturalmente Suchir aveva ottime ragioni per pensare che, in questo modo,
l’intero www è esposto a rischio di estinzione.
Il problema
rimane tuttavia quello del “valore” della produzione spontanea di intelligenza
generata dagli utenti della rete e sistematicamente sussunta dall’azione degli
LLM. L’idea che solo i produttori di testi che hanno valore legale possano
rivendicare “diritti” sui loro contenuti è una contraddizione troppo grande per
non essere discussa. Sostenere che il principale problema sia la violazione di
diritti e valori garantiti dal libero mercato, significa trascurare l’evidenza
che l’estrazione e lo sfruttamento sistematico di ogni forma di intelligenza
collettiva costituisce un furto decisamente più grande e, in ultima analisi, la
principale ragione dei profitti immensi delle Big Tech.
da qui