martedì 21 gennaio 2025

LA FARSA DEL CESSATE IL FUOCO - Chris Hedges

 

Israele, per decenni, ha giocato a un gioco ingannevole. Firma un accordo con i palestinesi che deve essere attuato in fasi. La prima fase dà a Israele ciò che vuole, in questo caso il rilascio degli ostaggi israeliani a Gaza, ma Israele di solito non riesce a implementare le fasi successive che porterebbero a una pace giusta ed equa. Alla fine provoca i palestinesi con attacchi armati indiscriminati per vendicarsi, definisce la risposta palestinese come una provocazione e abroga l’accordo di cessate il fuoco per ricominciare il massacro.

Se questo ultimo accordo di cessate il fuoco in tre fasi verrà ratificato, e non c’è certezza che ciò accadrà da parte di Israele, mi aspetto che sarà poco più di una pausa per i bombardamenti dell’insediamento presidenziale in America. Israele non ha alcuna intenzione di fermare la sua giostra di morte.

Il governo israeliano ha rinviato il voto sulla proposta di cessate il fuoco mentre continua a martellare Gaza. Almeno 81 palestinesi sono stati uccisi nelle ultime 24 ore.

La mattina dopo l’annuncio di un accordo di cessate il fuoco, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha accusato Hamas di aver rinnegato parte dell’accordo “nel tentativo di estorcere concessioni dell’ultimo minuto”. Ha avvertito che il suo gabinetto non si riunirà “finché i mediatori non notificheranno a Israele che Hamas ha accettato tutti gli elementi dell’accordo”.

Hamas ha respinto le affermazioni di Netanyahu e ha ribadito il proprio impegno a rispettare il cessate il fuoco, come concordato con i mediatori.

L’accordo comprende tre fasi. La prima fase, della durata di 42 giorni, vedrà la cessazione delle ostilità. Hamas rilascerà alcuni ostaggi israeliani (33 israeliani catturati il ​​7 ottobre 2023, tra cui tutte le restanti cinque donne, quelle con più di 50 anni e quelle malate) in cambio di un massimo di 1.000 palestinesi imprigionati da Israele.

L’esercito israeliano si ritirerà dalle aree popolate della Striscia di Gaza il primo giorno del cessate il fuoco. Il settimo giorno, ai palestinesi sfollati sarà consentito di tornare nella parte settentrionale di Gaza. Israele consentirà a 600 camion di aiuti con cibo e forniture mediche di entrare a Gaza ogni giorno.

La seconda fase, che inizia il 16° giorno del cessate il fuoco, vedrà il rilascio degli ostaggi israeliani rimasti. Israele completerà il suo ritiro da Gaza durante la seconda fase, mantenendo una presenza in alcune parti del corridoio di Filadelfia, che si estende lungo il confine di otto miglia tra Gaza ed Egitto. Rinuncerà al controllo del valico di frontiera di Rafah verso l’Egitto.

La terza fase vedrà l’avvio di negoziati per porre fine definitivamente alla guerra.

Ma è l’ufficio di Netanyahu che sembra aver già rinnegato l’accordo. Ha rilasciato una dichiarazione in cui respinge il ritiro delle truppe israeliane dal Corridoio di Filadelfia durante la prima fase di 42 giorni del cessate il fuoco. “In termini pratici, Israele rimarrà nel Corridoio di Filadelfia fino a nuovo avviso”, mentre afferma che i palestinesi stanno tentando di violare l’accordo. I palestinesi durante le numerose negoziazioni del cessate il fuoco hanno chiesto che le truppe israeliane si ritirassero da Gaza. L’Egitto ha condannato la presa dei suoi valichi di frontiera da parte di Israele.

Le profonde fratture tra Israele e Hamas, anche se gli israeliani accettassero finalmente l’accordo, minacciano di farlo implodere. Hamas sta cercando un cessate il fuoco permanente. Ma la politica israeliana è inequivocabile sul suo “diritto” a impegnarsi nuovamente militarmente. Non c’è consenso su chi governerà Gaza. Israele ha chiarito che la continuazione di Hamas al potere è inaccettabile. Non c’è menzione dello status dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente (UNRWA), l’agenzia delle Nazioni Unite che Israele ha messo fuorilegge e che fornisce la maggior parte degli aiuti umanitari dati ai palestinesi, il 95 percento dei quali è stato sfollato. Non c’è accordo sulla ricostruzione di Gaza, che giace in macerie. E, naturalmente, non c’è alcuna via nell’accordo per uno stato palestinese indipendente e sovrano.

La menzogna e la manipolazione israeliane sono pietosamente prevedibili.

Gli accordi di Camp David, firmati nel 1979 dal presidente egiziano Anwar Sadat e dal primo ministro israeliano Menachem Begin, senza la partecipazione dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP), normalizzarono le relazioni diplomatiche tra Israele ed Egitto. Ma le fasi successive, che includevano la promessa da parte di Israele di risolvere la questione palestinese insieme a Giordania ed Egitto, di consentire l’autogoverno palestinese in Cisgiordania e a Gaza entro cinque anni e di porre fine alla costruzione di colonie israeliane in Cisgiordania, inclusa Gerusalemme Est, non sono mai state onorate.

Oppure prendiamo gli Accordi di Oslo del 1993. L’accordo, firmato nel 1993, che vide l’OLP riconoscere il diritto di Israele a esistere e Israele riconoscere l’OLP come rappresentante legittimo del popolo palestinese, e Oslo II, firmato nel 1995, che descrisse dettagliatamente il processo verso la pace e uno stato palestinese, era nato morto. Stabiliva che qualsiasi discussione sugli “insediamenti” ebraici illegali doveva essere rinviata fino ai colloqui sullo status “definitivo”, entro i quali i ritiri militari israeliani dalla Cisgiordania occupata dovevano essere completati. L’autorità di governo doveva essere trasferita da Israele alla presunta e temporanea Autorità Palestinese. La Cisgiordania fu divisa nelle Aree A, B e C. L’Autorità Palestinese ha un’autorità limitata nelle Aree A e B. Israele controlla tutta l’Area C, oltre il 60 percento della Cisgiordania.

Il diritto dei rifugiati palestinesi a tornare nelle terre storiche loro sottratte nel 1948, quando fu creato Israele, un diritto sancito dal diritto internazionale, fu rinunciato dal leader dell’OLP Yasser Arafat, alienandosi all’istante molti palestinesi, in particolare quelli di Gaza, dove il 75 percento sono rifugiati o discendenti di rifugiati. Edward Said definì l’accordo di Oslo “uno strumento di resa palestinese, una Versailles palestinese” e criticò duramente Arafat definendolo “il Pétain dei palestinesi”.

I ritiri militari israeliani programmati sotto Oslo non hanno mai avuto luogo. Non c’era alcuna disposizione nell’accordo provvisorio per porre fine alla colonizzazione ebraica, solo un divieto di “misure unilaterali”. C’erano circa 250.000 coloni ebrei in Cisgiordania al momento dell’accordo di Oslo. Sono aumentati ad almeno 700.000. Non è mai stato concluso alcun trattato finale.

Il giornalista Robert Fisk ha definito Oslo “una farsa, una bugia, un trucco per indurre Arafat e l’OLP ad abbandonare tutto ciò che avevano cercato e per cui avevano lottato per oltre un quarto di secolo, un metodo per creare false speranze al fine di evirare l’aspirazione palestinese ad uno Stato”.

Il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin, che firmò l’accordo di Oslo, fu assassinato il 4 novembre 1995, dopo una manifestazione a sostegno dell’accordo, da Yigal Amir, uno studente di giurisprudenza ebreo di estrema destra. Itamar Ben-Gvir, ora ministro della sicurezza nazionale di Israele, fu uno dei tanti politici di destra che lanciarono minacce contro Rabin. La vedova di Rabin, Leah, incolpò Netanyahu e i suoi sostenitori, che distribuirono volantini ai raduni politici raffiguranti Rabin in uniforme nazista, per l’omicidio del marito.

Da allora Israele ha condotto una serie di attacchi omicidi su Gaza, definendo cinicamente il bombardamento “tagliare l’erba del prato”. Questi attacchi, che lasciano decine di morti e feriti e degradano ulteriormente la fragile infrastruttura di Gaza, hanno nomi come Operazione Arcobaleno (2004), Operazione Giorni di Penitenza (2004), Operazione Piogge Estive (2006), Operazione Nuvole Autunnali (2006) e Operazione Inverno Caldo (2008).

Israele ha violato l’accordo di cessate il fuoco del giugno 2008 con Hamas, mediato dall’Egitto, lanciando un raid di confine che ha ucciso sei membri di Hamas. Il raid ha provocato, come Israele intendeva, un attacco di rappresaglia da parte di Hamas, che ha sparato razzi rudimentali e colpi di mortaio contro Israele. Il bombardamento di Hamas ha fornito il pretesto per un massiccio attacco israeliano. Israele, come fa sempre, ha giustificato il suo attacco militare con il diritto di difendersi.

L’operazione Piombo Fuso (2008-2009), che ha visto Israele portare a termine un assalto sia via terra che aereo per 22 giorni, con l’aviazione israeliana che ha sganciato oltre 1.000 tonnellate di esplosivo su Gaza, ha ucciso 1.385 persone, secondo il gruppo israeliano per i diritti umani B’Tselem, di cui almeno 762 erano civili, tra cui 300 bambini. Quattro israeliani sono stati uccisi nello stesso periodo da razzi di Hamas e nove soldati israeliani sono morti a Gaza, quattro dei quali sono vittime di “fuoco amico”. Il quotidiano israeliano Haaretz avrebbe poi riferito che “l’operazione Piombo Fuso” era stata preparata nei sei mesi precedenti.

Lo storico israeliano Avi Shlaim, che ha prestato servizio nell’esercito israeliano, ha scritto che:

La brutalità dei soldati israeliani è pienamente eguagliata dalle menzogne del suo portavoce… la loro propaganda è un mucchio di bugie… Non è stato Hamas, ma l’IDF a rompere il cessate il fuoco. Lo ha fatto con un raid a Gaza il 4 novembre, in cui sono morti sei uomini di Hamas. L’obiettivo di Israele non è solo la difesa della sua popolazione, ma il successivo rovesciamento del governo di Hamas a Gaza, mettendo la gente contro i propri governanti.

Questa serie di attacchi a Gaza fu seguita dagli attacchi israeliani del novembre 2012, noti come Operazione Pilastro di Difesa, e del luglio e agosto 2014 con l’Operazione Margine Protettivo, una campagna di sette settimane che causò la morte di 2.251 palestinesi, insieme a 73 israeliani, tra cui 67 soldati.

Questi assalti da parte dell’esercito israeliano sono stati seguiti nel 2018 da proteste in gran parte pacifiche da parte dei palestinesi, note come la Grande Marcia del Ritorno, lungo la barriera recintata di Gaza. Oltre 266 palestinesi sono stati uccisi a colpi di arma da fuoco dai soldati israeliani e altri 30.000 sono rimasti feriti. Nel maggio 2021, Israele ha ucciso oltre 256 palestinesi a Gaza in seguito agli attacchi della polizia israeliana ai fedeli palestinesi nel complesso della moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme. Ulteriori attacchi ai fedeli della moschea di Al-Aqsa hanno avuto luogo nell’aprile 2023.

E poi la violazione delle barriere di sicurezza il 7 ottobre 2023 che circondano Gaza, dove i palestinesi languivano sotto un blocco da oltre 16 anni in una prigione a cielo aperto. Gli attacchi degli uomini armati palestinesi hanno causato circa 1.200 morti israeliani , tra cui centinaia uccisi da Israele stesso, e hanno dato a Israele la scusa che aveva cercato a lungo per devastare Gaza, nella sua Guerra delle Spade di Ferro.

Questa orribile saga non è finita. Gli obiettivi di Israele restano immutati: la cancellazione dei palestinesi dalla loro terra. Questa proposta di cessate il fuoco è un altro cinico capitolo. Ci sono molti modi in cui può e, sospetto, crollerà.

Ma preghiamo, almeno per il momento, che questa strage di massa cessi.

(Traduzione a cura di Old Hunter)

da qui

La proprietà aperta e i suoi nemici: suicidi eccellenti nella Silicon Valley - Rattus Norvegicus (Pino Nicolosi)


Pino Nicolosi ha scritto un testo che illumina la questione. Ve lo propongo:

La proprietà aperta e i suoi nemici: suicidi eccellenti nella Silicon Valley

Di Rattus Norvegicus


Considero il recente (presunto) suicidio del programmatore indiano ventiseienne Suchir Balaji, un giovane che aveva alle spalle quattro anni di lavoro presso il centro di ricerca di OpenAI, un evento di una tale gravità da richiedere un ripensamento in merito al ruolo svolto dalla proprietà intellettuale negli ultimi quarant’anni, sia all’interno della produzione informatica e di rete sia, più in generale, nell’ambito dei complessi rapporti che questa peculiare forma di proprietà privata ha stabilito con la libertà di opinione, con il diritto di accesso all’educazione e alla formazione, con la cooperazione internazionale allo sviluppo e, per estensione, con tutti i principali pilastri del diritto nelle democrazie liberali, quelli che i paladini del libero mercato continuano a invocare nei loro discorsi pubblici sebbene nelle realtà non se ne veda più traccia da moltissimo tempo.

Partendo dalle prime proteste dei movimenti "no copyright" degli anni Novanta, fino ad arrivare alle attuali rimostranze contro la violazione, da parte dell'intelligenza artificiale generativa (LLM), delle leggi americane sul fair use, abbiamo assistito a un progressivo attenuarsi dei motivi polemici contro queste leggi. Da posizioni che si schieravano radicalmente contro la proprietà intellettuale, siamo passati a un atteggiamento sostanzialmente inverso: un pieno riconoscimento delle leggi di tutela del copyright, accompagnato dalla veemente denuncia delle loro violazioni effettuate dalle Big Tech. Come vedremo alla fine dell’articolo, è da quest’ultima posizione che Balaji aveva mosso la sua critica, rigorosa e puntuale, nei confronti di OpenAI.

Per una serie di strane e tristi coincidenze, ci è dato ripercorrere brevemente l'itinerario di queste oscillazioni in materia di proprietà intellettuale degli ultimi quarant'anni, a partire dalle morti di altri due autorevolissimi ricercatori informatici che, come nel caso Balaji, sono state archiviate come suicidi dall'autorità giudiziaria statunitense. Qui però non ci dedicheremo a dietrologie: il filo rosso che tiene insieme le vicende di questi tre programmatori non passa per gli eventuali (legittimi) dubbi sulle cause della loro morte, ma per il contributo che ciascuno di loro ha dato al dibattito in merito allo scopo e al senso della proprietà intellettuale nell'epoca del capitalismo delle piattaforme.

Ian Murdock (la cooperazione)

Iniziamo da Ian Murdock, 42 anni, trovato morto nel suo appartamento il 28 Dicembre del 2015 a San Francisco. Era stato arrestato due giorni prima del tragico ritrovamento, per aver dato violentemente in escandescenze contro la porta di un'abitazione privata. L'inchiesta e l’autopsia hanno accertato che, prima e dopo l’arresto, c’erano state colluttazioni tra Murdock e gli agenti di polizia che lo avevano arrestato. Dopo i due giorni di carcere è stato rilasciato su cauzione. Si è ucciso la notte successiva al suo rilascio.

Murdock viene ricordato soprattutto per essere stato l'ideatore e il fondatore, nei primi anni Novanta, di una delle più celebri distribuzioni del sistema operativo GNU/Linux. La distro, che si chiama Debian (da Ian, il suo nome, unito a quello di Debra, la sua compagna di allora), è ancora molto attiva ed è probabilmente l'unica rimasta fedele ai principi originali del software libero. Lo scopo di Murdock era quello di «creare una distribuzione non commerciale che sia in grado di competere effettivamente sul libero mercato.» Obiettivo raggiunto, anche grazie alla stretta collaborazione che Debian stabilì con la Free Software Foundation. (La citazione tra virgolette è tratta dal "manifesto Debian" scritto da Ian Murdock nel 1994).

A rileggere oggi il manifesto di Ian, torna alla mente uno degli interrogativi più stimolanti dell'informatica di quegli anni: è possibile almeno in linea di principio, raggiungere con il software libero una qualità paragonabile a quella dei software commerciali, come conseguenza di un modello di organizzazione del lavoro più aperto ? Il successo della distro di Ian Murdock suggerisce una risposta positiva. In realtà, l’intera vicenda del software libero, con i suoi complessi risvolti legali e di mercato, costituisce uno snodo importante e irrisolto rispetto al tema della proprietà intellettuale e dei suoi rapporti con il lavoro informatico. Sebbene, a partire dai primi anni del nuovo secolo, le libertà che il “Pinguino” garantiva a programmatori e utenti siano state progressivamente ristrette e asservite agli scopi del capitalismo globalizzato, queste domande restano centrali e dovrebbero costituire le fondamenta di un antagonismo digitale nell’epoca del dominio delle grandi piattaforme digitali.

Mi si conceda una nota occasionale a questo riguardo: sebbene nessuno tra i fondatori e i pionieri del software libero avrebbe accettato di buon grado di essere definito un "comunista", è altrettanto vero che nelle posizioni originarie di questo movimento si coglieva distintamente la eco di un celebre passo di un altro "manifesto", quello di Marx ed Engels:

«il comunismo non toglie a nessuno la facoltà di appropriarsi dei prodotti sociali; toglie soltanto la facoltà di valersi di tale appropriazione per asservire lavoro altrui.»

Nella filosofia originaria del software libero ad asservire lavoro altrui sono tutti coloro che congelano a scopo di lucro un software all’interno di una licenza chiusa, impedendo in questo modo che circoli liberamente e che altri programmatori possano migliorarlo e modificarlo per i loro scopi. Questo il senso generale del cosiddetto “copyleft”, la licenza ideata da Richard Stallman in cui, contrariamente a quanto avviene nel copyright, solo alcuni dei diritti degli autori restano riservati, mentre vengono garantiti nuovi diritti alla circolazione del software.

La nota marxiana che alcuni avvertivano nelle regole legali del software libero, non solo sfuggiva del tutto ai suoi fondatori, ma veniva spesso ignorata anche dai marxisti che, per lo più, se ne sono rimasti “in finestra” a guardare lo spettacolo. A cogliere immediatamente la sua eco furono invece i robber baron del digitale, che non tardarono ad accusare di comunismo l'intera comunità di Gnu/Linux. Basti ricordare le celebri parole pronunciate nel 2000 da Steve Ballmer, all'epoca braccio destro di Bill Gates:

«Linux è un competitor agguerrito. Non c’è alcuna azienda che si chiama Linux, e a malapena Linux ha una road map. Eppure Linux sembra sprigionarsi naturalmente dalla Terra. E ha le caratteristiche del comunismo che alla gente piacciono moltissimo, cioè è gratuito. Per noi è un fronte di competizione vero».

In realtà il software libero, pur ammettendo pienamente il diritto dei programmatori a ricavare denaro dalle loro attività, riusciva a contenere notevolmente i profitti parossistici che le grandi holding avevano iniziato ad accumulare a danno del loro lavoro. Svolgeva, insomma, sia pure indirettamente e in modo molto originale, una funzione di carattere “sindacale”. L’esistenza di organizzazioni informatiche non ossessionate, nel loro lavoro, dai diritti di proprietà sui propri prodotti, scatenava in Ballmer e negli altri gigacapitalisti, il terrore di una continua critica politica al loro operato, oltre a quello di una caduta dei profitti provocata dalla circolazione di prodotti in larga parte gratuiti e di libero accesso. Soprattutto, nel caso delle prime licenze copyleft, creava una serie di delicati problemi al "controllo" dell'innovazione informatica esercitato dai potentati dell’informatica proprietaria. Problemi “salutari” perché aprivano spazi di innovazione fino a quel momento impensabili per le società a capitalismo avanzato. Concepire un'informatica sociale, finalizzata a scopi alternativi rispetto a quelli del profitto, è stato possibile soltanto nel periodo "aureo" del software libero, nella seconda metà degli anni Novanta, quando le licenze di Richard Stallman lasciavano ampi margini di possibilità all’ipotesi che programmi informatici finalizzati a scopi alternativi a quelli della filosofia neo-liberale, fossero non solo perfettamente concepibili, ma del tutto alla portata dell'intelligenza collettiva. Oggi, la Microsoft è diventata proprietaria dei principali siti di scambio di software open source e ogni velleità in direzione di un’informatica alternativa nei contenuti e negli obiettivi, sembra essersi infranta davanti al muro dell’interesse privato. I marxisti alla finestra ne sono quasi compiaciuti: “Avete visto?” ci gridano sventolando in aria Miseria della filosofia, “il vostro cooperativismo proudhoniano ha fatto la fine che meritava”.

Il fatto che nel suo "manifesto Debian" Ian Murdock avesse sottolineato i vantaggi del metodo cooperativo nello sviluppo del sistema, denunciando come le avventure commerciali in solitaria di alcune delle prime distribuzioni rischiassero di danneggiare l'immagine e la qualità di GNU/Linux, aiuta a comprendere quanto delicato fosse quel passaggio. Nell'approccio di Murdock l'indipendenza e l'autonomia economica dei programmatori era un pre-requisito essenziale per ottenere prodotti di livello tale a da poter competere con quelli di carattere commerciale. Era una scommessa difficile e non sorprende che, sul piano politico, sia stata persa, probabilmente in modo definitivo. Né stupisce che l’unica area di ispirazione marxiana che seppe cogliere alcuni elementi delle potenzialità di conflitto inscritte nel software libero sia stata quella operaista. Non solo perché attenta al lavoro cognitivo e ai processi di estrazione del suo valore, ma anche perché memore delle sette tesi sul controllo operaio di Panzieri e Libertini e, più in generale, del ruolo dei consigli operai nelle esperienze di autogestione del lavoro di fabbrica degli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento italiano. Quell’antica ricerca di autonomia dei lavoratori oggi traspare, nell’ambito del cosiddetto neo-operaismo italiano, nella richiesta politica di un reddito di base universale e incondizionato, pensato anche come una forma di “liberazione” del lavoro cognitivo, inteso come intelligenza “libera” non asservita ai diktat delle necessità di sopravvivenza.

Intermezzo

Sarà senz’altro utile, a questo punto, avventurarsi in una breve digressione filosofica. Nel suo celebre libello Miseria dello storicismo il filosofo della scienza Karl Popper rimproverò esplicitamente ai marxisti di essersi illusi che la storia fosse scientificamente prevedibile. Una critica che, personalmente, ho sempre condiviso, almeno nelle sue linee generali, senza per questo diminuire di un solo punto la mia devozione nei confronti dell’opera di Marx. Ma quando entriamo nella più importante argomentazione di Popper a sostegno di questa tesi, ci rendiamo immediatamente conto di come egli considerasse la crescita della conoscenza scientifica come la più importante delle variabili in gioco, l’unica che rende veramente imprevedibile il processo storico: non potendo in alcun modo essere informati sullo stato della conoscenza scientifica tra dieci o vent’anni, noi non possiamo avere un'idea, neanche approssimativa, di quella che sarà la società del futuro. Deriva principalmente da questa osservazione la convinzione di Popper secondo la quale lo storicismo è destinato a fallire regolarmente nelle sue previsioni. Il mio parere, per quel che vale, è che su questo aveva perfettamente ragione: non esistono leggi generali della storia. L'imbarazzante corollario politico di un siffatto argomento, tuttavia, è quello che la modalità più importante di esercizio del potere, nella nostra epoca, consiste nel controllo assoluto della produzione scientifica, tecnica e culturale. Solo gestendo dall’alto e con polso fermo la ricerca scientifica, l’innovazione tecnologica e la circolazione dei saperi, il capitalismo può garantire i suoi sviluppi sociali ed economici senza andare incontro a conseguenze storico-politiche indesiderate. Quello della previsione scientifica non è, dunque, soltanto un limite dell’utopismo politico, ma anche la principale ossessione del realismo capitalista. Questo imbarazzante corollario sir Karl non l’ha discusso nel suo librettino anticomunista, ma probabilmente lo avrà rivelato in privato al suo amico Von Hayek, grande teorico e stratega dell’economia neoliberista.

Il controllo dell’accesso alla conoscenza, in questa cornice teorica, è divenuto immediatamente una faccenda politica e la ricerca di una strategia adeguata per raggiungerlo si è risolta in una regolamentazione molto rigida della proprietà intellettuale e in una sua gestione esclusiva da parte delle principali organizzazioni capitalistiche. La recente notizia che ben due premi Nobel, nel 2024, sono stati assegnati a studiosi che lavorano (o lavoravano) presso Google, la dice lunga sul punto a cui è giunta la privatizzazione della ricerca e il tentativo di ostacolare sistematicamente ogni forma di circolazione libera del sapere e della conoscenza. La “società aperta” di Popper ha soffocato sistematicamente qualsiasi forma di proprietà aperta nell’ambito del lavoro intellettuale. Non posso fare a meno di chiedermi cosa penserebbe oggi il grande filosofo della scienza, se fosse vivo, delle illuminanti osservazioni che ho estratto da un’intervista di un paio di anni fa ad un giovane studioso ungherese esperto di leggi sulla circolazione dell'informazione libraria che si chiama Bodo Belasz. Bodo lavora attualmente all'università di Amsterdam. Le prime domande dell'intervista vertono sull'arresto in Argentina di due giovani russi, creatori di un importante sito di copie pirata di libri che si chiamava Z-Library. Bodo, che sulla Russia la sa lunga, faceva una nel merito una serie di considerazioni che meritano di essere riportate per intero:

«Quando ho letto la notizia che questi due individui russi sono stati arrestati, ho pensato, beh, la storia ha chiuso il cerchio. Non conosco queste persone, quanti anni hanno, presumo siano sulla trentina. Ma certamente, i loro genitori o i loro nonni potrebbero essere stati o avrebbero potuto facilmente essere arrestati dalle autorità sovietiche per aver condiviso libri che non avrebbero dovuto condividere. E ora, 30 anni dopo la caduta del muro di Berlino, le persone vengono nuovamente detenute per aver condiviso libri. Per un motivo diverso, ma è la stessa minaccia: 'Perderai la tua libertà se condividi la conoscenza'.

La libertà di accedere e condividere la conoscenza è stata una delle ragioni per cui le persone erano disposte a rischiare la vita prima degli anni '90 nell'Europa centrale e orientale. Le persone rischiavano di andare in prigione, perdere il lavoro, i mezzi di sussistenza e talvolta la vita perché volevano sapere e condividere la conoscenza scrivendo samizdat, stampando e distribuendo edizioni samizdat tra cui quelle di libri occidentali vietati. E ora il sistema politico occidentale o liberale o democratico sta incarcerando persone per - in superficie - atti molto simili. La storia del diritto d'autore (il controllo del flusso della conoscenza attraverso i diritti economici esclusivi degli autori) e la storia della censura (il controllo dello stesso flusso dovuto a considerazioni politiche) sono state strettamente intrecciate fin dall'inizio e, a quanto pare, a volte è difficile districarli ancora oggi».

Come profetizzò Franco Berardi in un librettino del 1991 intitolato Politiche della mutazione, al crollo politico dell’impero del male ha fatto seguito il trionfo dell’impero del peggio.

“La proprietà aperta e i suoi nemici” potrebbe essere il titolo di un lavoro filosofico, dedicato al ricordo di Karl Popper, che si proponga di approfondire, in un quadro generale, aperto anche ai problemi dell’innovazione del software, la situazione denunciata da Bodo in quell’intervista.

Aaron Swartz (la condivisione)

Situazione che ci porta ad un secondo drammatico suicidio avvenuto nel pantheon dell' informatica d'eccellenza: quello del giovane e celebre programmatore Aron Swartz, avvenuto a New York l'undici Gennaio del 2013. Un episodio che, per una serie di ragioni, ha avuto una risonanza maggiore di quello di Murdock. Al di là della notorietà di Aaron, il nesso tra le posizioni politiche di Swartz e la sua decisione di farla finita è, in questo caso, di evidenza palmare. Il ragazzo era stato condannato definitivamente a una multa di un milione di dollari e a trent’anni di carcere, per aver scaricato illegalmente, presso un server del MIT, un cospicuo quantitativo di documentazione scientifica sotto tutela che, presumibilmente, intendeva distribuire gratuitamente in rete.

La sua decisione di promuovere la diffusione libera della conoscenza, anche in modo illegale, l'aveva annunciata apertamente in un documento scritto in Italia, ad Eramo, il "Guerrilla Open Access Manifesto". Terzo e ultimo manifesto della nostra serie. Mentre sto scrivendo il calendario segna il dodicesimo anniversario della morte di Swartz. Approfitto dell'occasione per riportare qualche brano di quel suo illuminante scritto:

«L’informazione è potere. Ma come con ogni tipo di potere, ci sono quelli che se ne vogliono impadronire. L’intero patrimonio scientifico e culturale, pubblicato nel corso dei secoli in libri e riviste, è sempre più digitalizzato e tenuto sotto chiave da una manciata di società private.(…)

Questo è un prezzo troppo alto da pagare. Forzare i ricercatori a pagare per leggere il lavoro dei loro colleghi? Scansionare intere biblioteche, ma consentire solo alla gente che lavora per Google di leggerne i libri? Fornire articoli scientifici alle università d’élite del Primo Mondo, ma non ai bambini del Sud del Mondo? Tutto ciò è oltraggioso ed inaccettabile.»

E' stato sostenuto, non senza buone ragioni, che il manifesto di Eramo è la vera ragione della pena "esemplare" che i giudici americani hanno deciso di infliggere ad Araoon. Quella che lo ha spinto al suicidio. Una pena feroce, che non ha tenuto in minimo conto le ragioni etiche che lo avevano motivato nel compiere quella operazione di "bracconaggio". Una condanna politica, che ci sollecita a interrogarci ancora una volta su cosa vi sia di così inevitabile e necessario nella gestione proibitiva ed esclusiva delle conoscenze scientifiche e culturali. Si noti: mentre Mark Zucherberg, qualche giorno fa, ha fatto pubblica ammenda in un video, dichiarandosi pentito di aver limitato la possibilità di insultare pubblicamente le donne e la gente di colore su Facebook e sostenendo, col capo cosparso di cenere, di avere in tal modo ingiustamente ostacolato la libertà di parola, nessuno degli attuali gigacapitalisti si sogna di fare pubblica ammenda per aver impedito la libertà d'accesso al patrimonio scientifico e librario ai paesi in via di sviluppo. Anzi, le associazioni degli editori stanno intentando odiose cause legali contro fondazioni benemerite della cultura aperta come l'Internet Archive, una delle più prestigiose e storiche istituzione della rete, per aver concesso ai cittadini segregati durante l'emergenza pandemica lo scaricamento di qualche centinaio di libri sotto copyright.

Diciamocelo francamente, il liberalismo neoconservatore della libertà di parola ha due tipi di cultori: gli imbecilli e quelli in perfetta malafede. I primi semplicemente non capiscono che questa presunta libertà di parola nei social li sta sprofondando nella più perfetta ignoranza, i secondi lo sanno benissimo, e incassano cinicamente i vantaggi politici che ne derivano.

Suchir Balaji (la contraddizione)

Queste considerazioni ci portano all'ultimo dei tre suicidi che ho deciso di portare all'attenzione dei lettori. Quello di Suchir Balalji, avvenuto il 26 Novembre 2024 a San Francisco. Sono stati espressi molti fondati dubbi sul fatto che si sia realmente trattato di un suicidio. Tuttavia, qui ci occuperemo soltanto delle forme di protesta che Suchir stava promuovendo nel periodo precedente la sua morte. Quando, dopo che si era licenziato da OpenAI, aveva rilasciato un'intervista al New York Times in cui denunciava la violazione da parte di chatGPT dei diritti degli autori degli innumerevoli testi che quell’orribile software, autentica scimmia del general intellect marxiano, ingurgita nel corso delle fasi del suo addestramento. Dunque, nel caso di Suchir, non vi è traccia di obiezioni alle leggi sul copyright. Suchir, al contrario, ha sviluppato il suo ragionamento a partire da quelle leggi, particolarmente quella sul fair use, per sostenere la tesi che ChatGPT è concepito per violarle in modo regolare e sistematico. Secondo Suchir Balaji la violazione della legge sul fair use da parte di ChatGPT è, per così dire, un suo tratto strutturale, intrinseco al suo funzionamento ordinario. Sul suo sito personale Suchir ci ha lasciato alcune pagine illuminanti in cui mostra con chiarezza come il funzionamento di questo LLM sia fondato sulla copia del contenuto di testi sotto tutela (prelevati dentro e fuori della rete). Provo di seguito a fornirne un breve e pedestre riassunto del suo pregevolissimo lavoro. Spero, almeno, di facile comprensione: questi testi copiati vengono inizialmente “mescolati” a quelli sul medesimo argomento. Progressivamente, tuttavia, soprattutto grazie all’addestramento finale basato su rinforzo, effettuato da operatori umani, ChatGPT riesce a contenere il “rumore”, fornendo all’utente risposte approssimative ma, per l’essenziale, fondate sul contenuto originario dei testi che ha copiato. A pensarci bene, le cose non potrebbero andare diversamente,visto che si tratta di un dispositivo che tenta di contenere, attraverso approssimazioni statistiche, l’entropia intrinseca che caratterizza i sistemi di calcolo automatico.

Di qui la principale accusa mossa da Suchir ad OpenAI, quella di fare una concorrenza illegale e sleale ad altre attività intellettuali retribuite che si svolgono regolarmente su web o in altri contesti. La sua argomentazione è quindi centrata sulla difesa di un'idea di libero mercato "sano", contro la progressiva concentrazione di potere e conoscenza orchestrata dalle grandi holding dell’AI.

Una prima considerazione da fare va nella direzione del classico "due pesi due misure":

in nome delle tutela del copyright, la giustizia non si è fatta scrupoli quando si è trattato di spingere al suicidio un giovane talento come Aaron Swartz, condannandolo a una pena draconiana, oppure quando ha deciso di portare in tribunale Internet Archive. Ma quella stessa giustizia dimentica di fare qualsiasi tipo di obiezione legale all’uso di testi protetti dalla legge, quando ad effettuare quelle violazioni sono le grandi e potentissime holding dell’intelligenza artificiale. E questo è un argomento sacrosanto, che trova ampio riscontro nel lavoro di ricerca pubblicato da Suchir sul suo sito.

C’è tuttavia, una seconda osservazione da fare: quella che rimane interamente da chiarire perché i testi protetti da copyright dovrebbero detenere tutele maggiori rispetto a quelle di cui dispone, per esempio, il testo che sto scrivendo in questo momento, o rispetto a quelle degli altri milioni di scritti che ogni giorno gli utenti riversano nella rete.

Per quale motivo, di grazia, gli spider di Chat-GPT dovrebbero essere autorizzati a prelevare senza problemi la sterminata massa di materiale testuale prodotta dagli utenti, ma dovrebbero invece fermarsi di fronte a lavori protetti legalmente da regole di libero mercato ?

Chi garantisce, se non dei tecnicismi economici di dubbia verificabilità empirica che, poniamo, gli autori degli articoli di Neurogreen generano valore di mero uso, mentre quelli di Vogueautentico e purissimo valore di scambio ? Non c’è nessuno che possa dimostrare, in linea di principio, che il testo che state leggendo non abbia altrettanto diritto di essere tutelato dagli abusi di ChatGPT, né che esso contribuisca “meno” alle risposte che l’oracolo di OpenAI un giorno scodellerà a qualche ignaro utente, di quanto possa contribuirvi un elzeviro di Vittorio Feltri dedicato all’ultimo atroce discorso di Valditara. Dal fatto che un lavoro sia pagato non deriva automaticamente che sia anche più produttivo ai fini di ChatGPT.

In realtà, l’illusione di un mercato in perenne equilibro sta crollando sotto il peso dei fenomeni paradossali che la gestione della proprietà intellettuale ha sempre generato ma che, con l’avvento degli LLM, è diventato un peso insostenibile. Naturalmente Suchir aveva ottime ragioni per pensare che, in questo modo, l’intero www è esposto a rischio di estinzione.

Il problema rimane tuttavia quello del “valore” della produzione spontanea di intelligenza generata dagli utenti della rete e sistematicamente sussunta dall’azione degli LLM. L’idea che solo i produttori di testi che hanno valore legale possano rivendicare “diritti” sui loro contenuti è una contraddizione troppo grande per non essere discussa. Sostenere che il principale problema sia la violazione di diritti e valori garantiti dal libero mercato, significa trascurare l’evidenza che l’estrazione e lo sfruttamento sistematico di ogni forma di intelligenza collettiva costituisce un furto decisamente più grande e, in ultima analisi, la principale ragione dei profitti immensi delle Big Tech.

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lunedì 20 gennaio 2025

Il vero obiettivo di Facebook - Silvia Ribeiro

 

Musk, Zuckerberg e Bezos sono tre dei dieci uomini più ricchi del mondo. Si oppongono sempre più ferocemente a qualsiasi regolamentazione delle loro attività. Per questo cercano di far apparire come censura qualsiasi forma di controllo indipendente, quando il problema reale e urgente è il ruolo straordinariamente dannoso che i titani della tecnologia hanno nella definizione, a livello globale, di discorsi pubblici parziali basati sulla discriminazione

 

Qualche giorno fa Mark Zuckerberg, proprietario di Facebook e Instagram (entrambi della società Meta), ha annunciato che avrebbe smesso di verificare i dati pubblicati su queste reti, seguendo il modello di X, la rete acquistata da Elon Musk. È una pubblicità con molti spigoli e tutti negativi.

In precedenza, anche Jeff Bezos, proprietario di Amazon e del Washington Post, aveva detto che stava modificando quella che chiamano “moderazione dei contenuti” nei media da lui controllati. Affermano in modo fuorviante che ciò avviene in nome della “libertà di espressione”.

Al contrario, si tratta di una nuova ondata di censura selettiva. Sia X che Facebook e Instagram hanno cancellato arbitrariamente contenuti che i loro proprietari non vogliono diffondere; un caso drammatico è quello delle informazioni sul genocidio di Israele contro la Palestina. Sebbene Zuckerberg lo neghi, un articolo di ricerca della BBC del dicembre 2024 mostra come Facebook e Instagram abbiano limitato le notizie che i giornalisti palestinesi pubblicano da Gaza e dalla Cisgiordania.

Già dall’ottobre 2023, dopo l’attacco di Hamas contro i cittadini israeliani, Facebook ha limitato le notizie provenienti dai giornalisti palestinesi, oltre a cambiare l’algoritmo in modo che i commenti sui palestinesi fossero più aggressivi, ad esempio aggiungendo la parola “terrorista” “nelle traduzioni. Un ingegnere di Meta ha espresso preoccupazione per “l’introduzione di un nuovo pregiudizio contro gli utenti palestinesi”. Meta ha confermato di aver effettivamente modificato l’algoritmo, ma per rispondere a quello che ha definito un “aumento del contenuto di odio” proveniente dai territori palestinesi (Cómo Facebook e Instagram restringen las noticias que los periodistas palestinos publican desde Gaza).

Inoltre, la rete X di Musk ha abbondanti casi di censura e discriminazione selettiva, incluso il blocco degli account degli utenti su questo e altri argomenti, a seconda delle preferenze politiche o commerciali di Musk (Musk, X y el control del mundo).

Un articolo di Sheera Frenkel e Kate Conger sul New York Times ha mostrato come i discorsi di odio, razzisti, omofobici, misogini e neonazisti siano aumentati in modo esponenziale dopo che Musk ha acquistato Twitter e ribattezzato la rete X nel 2022. “Elon Musk ha inviato il bat-segnale a tutti tipi di persone razziste, misogine e omofobe che Twitter era aperto agli affari e hanno risposto”, ha detto Imran Ahmed, direttore del Centro per contrastare l’odio digitale.

Mentre l’industria della digitalizzazione mette in crisi molti mezzi di informazione, miliardi di persone si rivolgono ai social network come principale fonte di informazione. Sebbene la verifica dei dati di Facebook e Instagram – che si riferiva al lavoro di associazioni indipendenti di verifica dei dati – non fosse una garanzia che tutte le informazioni su queste reti fossero affidabili e verificate, quello che ora c’è è un appello aperto a discorsi razzisti, sessisti e odiosi. Nel suo annuncio, Zuckerberg fornisce come esempio che i contenuti relativi alla migrazione e al genere non saranno più moderati, sostenendo che questi criteri sono “fuori contatto con il discorso dominante” e sono stati usati per “far tacere opinioni e persone con idee diverse”.

Zuckerberg ha annunciato che sostituirà il fact-checking con le “community note”, che in realtà sono commenti di altri utenti, solitamente modi per moltiplicare esponenzialmente gli stessi pregiudizi, senza fonti e senza alcuna reale trasparenza sull’origine dei commenti. Ciò replica il contesto che hanno imposto i programmi di ricerca più utilizzati su Internet, che forniscono come prima opzione informazioni generate automaticamente da algoritmi di intelligenza artificiale, senza fornire fonti, senza contrasti e sostanzialmente riproducendo all’infinito le parzialità di discriminazione e altri errori che sono la maggioranza nella media delle comunicazioni nelle reti elettroniche.

Musk, Zuckerberg e Bezos sono tre dei dieci uomini più ricchi del mondo. Ognuno di loro ha più denaro personale di diverse dozzine di paesi messi insieme. È chiaro che il loro obiettivo principale è lavorare su modi per aumentare ulteriormente le proprie fortune, controllando utenti, mercati e istituzioni. Tutti stanno seguendo da vicino l'”esperimento Musk” di andare oltre il lobbying e altre forme di influenza (dovute o indebite) per ottenere un seggio diretto nel governo, decidendo su milioni di persone che non hanno nemmeno votato per lui.

Con l’enorme potere della loro ricchezza e della manipolazione delle informazioni e degli utenti dei social media, si oppongono ferocemente a qualsiasi regolamentazione delle loro attività. Per questo motivo, cercano di far apparire come censura qualsiasi forma di controllo indipendente o di controllo pubblico, quando il problema reale e urgente è il ruolo straordinariamente dannoso che i titani della tecnologia hanno nella definizione di discorsi pubblici parziali basati sulla discriminazione e sull’odio, a livello globale. Allo stesso tempo controllano sempre più settori industriali e anche aspetti tecnologici chiave che garantiscono loro una dipendenza sempre maggiore dai governi stessi.

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giornalisti senza paura

 

Il giornalista di The Gray Zone Max Bluementhal ha avuto l'occasione di mandare questo messaggio al Segretario di Stato Blinken








domenica 19 gennaio 2025

Latino, Bibbia e filastrocche: la scuola del futuro? - Matteo Saudino

 

Quando i “rimpatri volontari assistiti” diventano deportazioni - Fulvio Vassallo Paleologo


ABSTRACT

In una situazione di reiterate violazioni dei diritti umani e di sostanziale cancellazione del diritto di asilo, l’Unione europea, sulla base del nuovo Patto sulla migrazione e l’asilo, sta finanziando nuove procedure accelerate di asilo in frontiera e di deportazione verso i paesi di origine, compresi i centri hub che si vorebbero istituire al di fuori dei confini dell’area Schengen per realizzare nuovi progetti di “ritorno volontario assistito”, a fronte del fallimento delle politiche di rimpatrio forzato. I rimpatri volontari assistiti nel Paese di origine “sulla base di una scelta libera e informata” sono generalmente gestiti dall’OIM, organizzazione facente capo alle Nazioni Unite, e si differenziano dai rimpatri con accompagnamento forzato che vengono (ma sarebbe meglio dire, dovrebbero essere) eseguiti dopo il diniego su una richiesta di asilo, che oggi viene presentata ed esaminata sempre più spesso con una procedura accelerata in frontera. Per i migranti in situazione irregolare o per quei richiedenti asilo con poche possibilità di ottenere protezione, il rimpatrio volontario assistito può risultare una scelta obbligata, anche in assenza di coercizione fisica. Ill ritorno nel paese di origine può essere considerato come volontario solo quando gli individui hanno opzioni legali alternative.

Nelle proposte di politiche sui rimpatri che saranno discusse dai leader europei nei prossimi mesi, mentre si attende la decisione della Corte di Giutizia UE sulla portata della categoria dei “paesi di origine sicuri”, il tema del rimpatrio volontario assistito sembra destinato a collegarsi alla creazione di nuovi centri “hub” per i rimpatri nei quali l’Unione europea vorrebbe confinare i potenziali richiedenti asilo prima del loro ingresso nell’area Schengen, in modo che a seguito di un diniego per manifesta infondatezza, nell’ambito di procedure accelerate al di fuori delle frontiere europee, questi non abbiano alternative rispetto alla adesione ad un programma di rimpatrio volontario. Con riferimento ai rimpatri volontari assistiti, l’International Law Commission (Ilc) delle Nazioni Unite ha definito disguised expulsion (espulsioni mascherate), i casi in cui queste ultime siano “incentivanti” per un ritorno “presumibilmente volontario”. Nello specifico, l’Ilc evidenzia che “per espulsione mascherata si intende la partenza forzata della persona straniera da uno Stato derivante dalle azioni o omissioni del Stato, o da situazioni in cui lo Stato appoggia o tollera atti commessi dai suoi cittadini al fine di provocare la partenza di individui dal suo territorio”. 

Purtroppo già lo scorso anno l’UNHCR non si è schierato contro questa prospettiva, che significa la definitiva cancellazione del diritto di asilo in Europa, ma ha ammesso ” a certe condizioni” la possibilità di creare questi centri hub per i rimpatri al di fuori dei confini esterni dell’Unione europea. “Gli hub per i rimpatri possono funzionare come un incentivo affinché i richiedenti a cui è stata rifiutata la domanda d’asilo tornino a casa, perché non sono più sul territorio europeo”. Così ha detto Jean-Nicolas Beuze, rappresentante a Bruxelles dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), in una intervista rilasciata ad EUobserver. Ci sarà però, al di là degli ostacoli giuridici, e della strenua difesa del diritto di asilo nei tribunali e davanti alle corti internazionali, la questione dei costi, che a livello europeo, appena le cifre crescono, determina un contenzioso senza fine, anche per la caduta dello spirito di solidarietà europea, travolto dai sovranismi e dagli egoismi nazionali. In questa materia, sulla quale cerca di accrescere il proprio consenso tra le destre europee, la Commisione Von der Leyen potrebbe andare incontro ad una autentica debacle.

Per le associazioni rimane la necessità di una capillare formazione legale sulla portata di queste prassi, anche per contrastare la propaganda di chi punta sulle operazioni di rimpatrio volontario assistito e su accordi con paesi che non rispettano i diritti fondamentali, a partire dal diritto di asilo. Impegno che va supportato da chi continua a promuovere una informazione indipendente, mentre il governo si rivolge all’elettorato, anche attraverso i canali social, “dando i numeri”, ma ignorando le persone, spacciando i “successi” conseguiti nella “gestione dei flussi migratori” con il calo degli arrivi rispetto agli scorsi anni, materia che non dovrebbe essere trattata, non solo nei paesi di transito, ma neppure in Italia, comprimendo i diritti, e le vite, di chi fugge in cerca di protezione.


1. Il recente rapporto di STATEWATCH “Deportations: New role for Frontex as EU pushes for more “voluntary” returns” mette in evidenza il ruolo che l’Agenzia dell’Unione europea per il controllo delle frontiere esterne gioca in Bulgaria, paese che alla fine dello scorso anno ha fatto ingresso nell’area Schengen e nel quale recentemente sono stati denunciati gravi abusi ai danni dei migranti in transito dalla Turchia, con l’arresto a Natale di tre coraggiosi volontari italiani che si erano impegnati nel soccorso di persone in condizioni di grave rischio per la vita.

In una situazione di reiterate violazioni dei diritti umani e di sostanziale cancellazione del diritto di asilo, l’Unione europea, adesso sulla base del nuovo Patto sulla migrazione e l’asilo, sta finanziando nuove procedure accelerate di asilo in frontiera e di deportazione verso i paesi di origine, compreso un nuovo progetto di “ritorno volontario assistito”. Il ricorso più esteso ai cd. rimpatri “volontari” è una parte fondamentale del piano per aumentare le deportazioni dall’UE di persone che si trovano in stato di detenzione, alle quali non rimangono margini di libera scelta, in un periodo di durata indeterminata nel quale,vengono sottoposti a trattamenti inumani e degradanti, senza potere fare valere un effettivo diritto di difesa, e senza che le autorità statali perseguano gli agenti di polizia colpevoli degli abusi.

Secondo quanto documenta STATEWATCH, il “Progetto pilota per procedure rapide di asilo e rimpatrio” era stato lanciato in precedenza in Bulgaria e Romania per risolvere con “soluzioni ad hoc” i problemi nei controlli di frontiera che impedivano ai due paesi di finalizzare la loro adesione allo spazio Schengen. Alcune di queste “soluzioni” includevano la continuazione dei respingimenti contro le persone in movimento. Balkan Insight ha rivelato i respingimenti diffusi, se non sistematici, ai confini orientali e sudorientali dell’UE nel febbraio dello scorso anno. Un’altra “soluzione” è stata l’attuazione di “un programma aggiornato di ritorno volontario assistito in Bulgaria, con l’invio di ulteriori consulenti per il rimpatrio di Frontex e assistenza tecnica da parte della Commissione”, come si leggeva in un rapporto della Commissione europea, ottenuto da Statewatch già nel 2023dopo una richiesta di accesso ai documenti.

2. In base all’art.11 del Regolamento UE n° 516/2014, sono ammessi alla procdura di rimpatrio volontario assistito i cittadini di Paesi terzi: che sono presenti in uno Stato membro e non soddisfano o non soddisfano più le condizioni di ingresso e/o soggiorno in uno Stato membro, compresi i cittadini di Paesi terzi il cui allontanamento è stato differito conformemente all’art.9 e all’art.14, paragrafo 1 della direttiva rimpatri 2008/115/CE; che non hanno ancora ricevuto una risposta negativa definitiva alla loro domanda di soggiorno o di soggiorno di lungo periodo e/o di protezione internazionale riconosciuta loro in uno Stato membro; che godono di diritto di soggiorno, di soggiorno di lungo periodo e/o di protezione internazionale o di protezione temporanea in uno Stato membro.

I rimpatri volontari assistiti nel Paese di origine “sulla base di una scelta libera e informata” sono generalmente gestiti dall’OIM, organizzazione facente capo alle Nazioni Unite, e si differenziano dai rimpatri con accompagnamento forzato che vengono (ma sarebbe meglio dire, dovrebbero essere) eseguiti dopo il diniego su una richiesta di asilo, che oggi viene presentata ed esaminata sempre più spesso con una procedura accelerata in frontera. A fronte del fallimento dei rimpatri forzati, si tratta di uno strumento sul quale l’Unione europea punta sempre di più con imponenti programmi di finanziamento, allo scopo di liberarsi di richiedenti asilo che si sono visti respingere la domanda di protezione.

Dopo l’incremento del supporto finanziario europeo ai piani di rimpatrio volontario assistito, la novità è costituita adesso dal crescente ruolo di Frontex nel fornire alle autorità degli Stati membri ospitanti servizi di consulenza sul rimpatrio delle persone soggette a ordini di espulsione o in stato di detenzione amministrativa. Spesso però le persone alle quali si propone il “rimpatrio volontario assistito”, in condizioni di privazione totale della libertà, sono sottoposte a tratamenti abusivi da parte della polizia, senza avere peraltro accesso a consiglieri o consulenti giuridici indipendenti ed a una procedura imparziale per il riconoscimento di uno status di protezione, Si può ritenere dunque che il maggiore impegno di Frontex nelle operazioni di “rimpatrio volontario assistito” possa comportare, come rileva STATEWATCH, attività di consulenza finalizzate a legittimare la detenzione amministrativa in frontiera ed i rimpatri di persone che potrebbero avere diritto al riconoscimento di uno status di protezione, piuttosto che incoraggiare scelte libere e informate.

Per i documenti ufficiali dell’Unione europea, “Un altro obiettivo fondamentale è rappresentato dal sostegno al rimpatrio volontario assistito dai paesi partner e dalla reintegrazione sostenibile nei paesi di origine. A partire dal 2021 l’Unione europea ha stanziato quasi 400 milioni di EUR per favorire i rimpatri volontari e la reintegrazione dei rimpatriati provenienti dai paesi di transito dell’Africa subsahariana. Tra agosto 2022 e gennaio 2024 l’UE ha sostenuto oltre 17 000 migranti con il rimpatrio volontario e con
importanti misure di reintegrazione nell’ambito di questo programma. Nel quadro di un
programma da 68 milioni di EUR per i rimpatri volontari dall’Africa settentrionale, tra il 2020 e il 2023 il numero dei migranti rimpatriati ogni anno è quasi triplicato (superando le
 13 000 persone nel 2023), con un notevole sostegno alla protezione nella fase precedente i rimpatri”. Si tratta comunque di numeri molto bassi, anche in prospettiva, se considerati alla stregua delle richieste di asilo che vengono respinte, a livello europeo, e del numero dei rimpatri forzati che dovrebbero essere eseguiti da tutti gli Stati dell’Unione. Anche perchè la situazione nei paesi di origine è in progressivo, ma sembra irreversibile, deterioramento. Prima la pandemia, poi i conflitti regionali sempre più estesi, caratterizzati dalla partecipazione indiretta delle grandi potenze, al di là delle crisi climatiche, hanno creato condizioni di vita che, soprattutto nel continente africano, non offrono alcuna prospettiva di rimpatrio volontario, sia “assistito” o meno. Ma in paesi come la Siria o il Bangladesh, dove si sono registrate significative svolte politiche, la situazione rimane dominata dall’incertezza, e non è proponibile alcuna seria possibilità di un rimpatrio volontario assistito, come pure alcuni vorrebbero da subito. Per non parlare dei proclami sulla”remigrazione”, su cui l’estrema destra si sta giocando le elezioni in Germania.

Un rapporto, basato su un progetto realizzato dall’OCSE con il sostegno della Società tedesca per la cooperazione internazionale (Deutsche Gesellschaft für Internationale Zusammenarbeit GmbH – GIZ), commissionato dal Ministero federale per la cooperazione e lo sviluppo economico, analizza la portata e caratteristiche delle diverse categorie di migrazione di ritorno. Il repporto sottolinea come su scala mondiale come le categorie di rimpatrio non siano sempre distinte e comportino diversi gradi di volontarietà tra i beneficiari dei programmi di rimpatrio volontario assistito e di reintegrazione, mettendo bene in evidenza il ruolo delle comunità locali, piuttosto che le spinte esterne come i finanziamenti verso le politiche di ritorno. Si mette bene in evidenza come per i migranti in situazione irregolare o quei richiedenti asilo con poche possibilità di ottenere protezione, il rimpatrio volontario assistito possa risultare una scelta obbligata, anche in assenza di coercizione fisica. Ill ritorno nel paese di origine può essere considerati come volontario solo quando gli individui hanno opzioni legali alternative e possono prendere decisioni sulla base di una libertà effettiva e di una scelta informata. Poiché le persone private di questa libertà di scelta rappresentano un gruppo in espansione di beneficiari delle operazioni di rimpatrio volontario assistito e di reintegrazione, il confine tra ritorno volontario assistito e rimpatrio forzato sfuma. Non esiste dunque una definizione concordata o universale del termine “rimigrazione”, utilizzato per riferirsi a diverse forme dei successivi movimenti migratori. In questo rapporto la definizione di “remigrazione” sembra più corrispondente alla ripartenza dal paese di origine a seguito di un ritorno piuttosto che alla partenza da un paese di destinazioneaccezione che tende invece a diffondersi in Europa per effetto della svolta populista ed identitaria, che arriva ad assumere aspetti di suprematismo analoghi a quelli che stanno prevalendo negli Stati Uniti di America.

Nelle proposte che saranno discusse dai leader europei nei prossimi mesi, mentre si attende la decisione della Corte di Giutizia UE sulla portata della categoria dei “paesi di origine sicuri”, il tema del rimpatrio volontario assistito sembra destinato a collegarsi alla creazione di nuovi centri “hub” per i rimpatri nei quali l’Unione europea vorrebbe confinare i potenziali richiedenti asilo prima del loro ingresso nell’area Schengen, in modo che a seguito di un diniego per manifesta infondatezza, nell’ambito di procedure accelerate al di fuori delle frontiere europee, questi non abbiano alternative rispetto alla adesione ad un programma di rimpatrio volontario.

Purtroppo già lo scorso anno l’UNHCR non si è schierato contro questa prospettiva, che significa la definitiva cancellazione del diritto di asilo in Europa, ma ha ammesso ” a certe condizioni” la possibilità di creare questi centri hub per i rimpatri al di fuori dei confini esterni dell’Unione europea. “Gli hub per i rimpatri possono funzionare come un incentivo affinché i richiedenti a cui è stata rifiutata la domanda d’asilo tornino a casa, perché non sono più sul territorio europeo”. Così ha detto Jean-Nicolas Beuze, rappresentante a Bruxelles dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), in una intervista rilasciata ad EUobserver. Ci sarà però, al di là degli ostacoli giuridici, e della strenua difesa del diritto di asilo nei tribunali e davanti alle corti internazionali, la questione dei costi, che a livello europeo, appena le cifre crescono, determina un contenzioso senza fine, anche per la caduta dello spirito di solidarietà europea, travolto dai sovranismi e dagli egoismi nazionali. In questa materia, sulla quale cerca di accrescere il proprio consenso tra le destre europee, la Commisione Von der Leyen potrebbe andare incontro ad una autentica debacle.

3. I rimpatri volontari assistiti rimangono non solo sulla carta, al centro dei programmi di contenimento delle migrazioni che l’Unione europea cogestisce con l’Italia, la Libia e la Tunisia. In Libia secondo quanto comunicato ufficialmente dalle Nazioni Unite, fino al 2024, “L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM) ha aiutato 80.000 migranti a tornare a casa volontariamente e in sicurezza dal 2015 nell’ambito del suo programma di Ritorno Umanitario Volontario (VHR), che ha rappresentato un’ancora di salvezza fondamentale per i migranti bloccati provenienti da 49 paesi diversi in Africa e Asia, offrendo loro un modo sicuro e dignitoso per tornare a casa e ricostruire la propria vita”. L’Italia ha contribuito a questi programmi di rimpatrio volontario assistito, così ad esempio, si ha notizia che il governo del Benin, in collaborazione con l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (IOM),ha facilitato il ritorno volontario di settantaquattro (74) migranti, tra cui 29 uomini, 16 donne e 29 bambini, dalla Libia tramite volo charter giovedì 27 giugno 2024. Questa operazione rientrava in un’iniziativa finanziata dalla cooperazione italiana. Ma la materia ormai, quando non si traduce in propaganda, è soggetta ad una forte censura.

Il Piano Mattei per l’Africa, ed i più recenti contatti tra il governo italiano e le autorità che si dividono la Libia, mettono in rilievo le attività di rimpatrio volontario assistito, come uno strumento che dovrebbe fare diminuire ulteriormente il numero di persone che cercano di attraversare il Mediterraneo. Il Viminale annuncia come un successo il calo degli arrivi dalla Libia e dalla Tunisia. Ormai il fine giustifica i mezzi, e nessuno dei sostenitori del governo si preoccupa per la morte di chi viene abandonato nel deserto alle milizie, o rischia la vita per effetto degli interventi di contrasto in acque internazionali dei guardiacoste libici, che dopo l’allontanamento delle ONG, hanno ormai campo libero. Se continua questa deriva populista, tra poco, le somme spese dall’Unione Europea per i rimpatri volontari assistiti sembreranno eccessive. Anche se rappresentano ancora una piccola posta rispetto a quanto versato ai governi dei paesi di transito che collaborano attivamente nelle politiche di blocco delle partenze e di deportazione immediata con trasferimenti forzati verso i paesi di origine. Dalle cronache libiche si ricava periodicamente come il termine deportazione definisca le procedure di rimpatrio volontario assistito, soprattutto verso il Niger, in questo caso anche di cittadini di paesi terzi, e verso la Nigeria.

Sono però note le condizioni di estremo abuso alle quali sono esposti tutti i migranti in transito in Libia, in particolare quando vengono arrestati e detenuti nei centri governativi e nei campi di detenzione informali gestiti dalle milizie. Al di là dei profili di responsabilità contabile, si presenta anche in Libia la possibilità, se non la certezza, che questi rimpatri volontari assistiti di volontario abbiano ben poco, e siano solo un tassello per riuscire ad esternalizzare i controlli di frontiera in modo da ridurre l’arrivo di richiedenti asilo in Europa. Nel caso della Libia non si hanno ancora evidenze di un coinvolgimento diretto di Frontex nelle operazioni di rimpatrio assistito, gestite sul terreno dall’OIM, mentre ormai è ampiamente documentato il ruolo dell’agenzia europea nel tracciamento e nella intercettazione in acque internazionali di persone in fuga dalla Libia e riportate a terra dalla sedicente Guardia costiera libica. Intanto i dati raccolti da Frontex sulla riduzione degli arrivi in Italia alimentano la propaganda del governo Meloni, senza alcuna considerazione per i costi umani che comportano, per le condizioni disumane alle quali rimangono esposte le persone migranti intrappolate in Libia oltre che per l’abbattimento del diritto ad una equa procedura di asilo in un pawsw sicuro..

4. Nel caso del Protocollo Unione europea-Tunisia firmato nel 2023 con la sponsorizzazione del duo Meloni-Von der Leyen, il supporto italiano alle operazioni di rimpatrio volontario assistito è ancora più evidente. L’ASGI ha pubblicato un rapporto aggiornato al 2024, nel quale nell’ambito della strategia di esternalizzazione attuata dall’Italia e dall’UE nei paesi nordafricani. si documenta l’incremento del supporto italiano alle operazioni di rimpatrio volontario assistito dalla Tunisia verso i paesi di orine. Come si riferisce nel Rapporto, il “ Relatore speciale per i migranti delle Nazioni unite è stato estremamente chiaro nel riconoscere che i rimpatri volontari assistiti sono “una componente centrale delle politiche di gestione della migrazione” ma che “In generale, le condizioni in cui i migranti richiedono un rimpatrio volontario assistito non consentono di qualificare il rimpatrio come volontario, in quanto non soddisfano i requisiti di una decisione pienamente informata, priva di coercizione e sostenuta dalla disponibilità di sufficienti alternative valide” e che ” gli Stati e le altre parti interessate che effettuano rimpatri nell’ambito di un programma di rimpatrio volontario assistito verso Stati non sicuri e in cui i migranti possono subire violazioni dei loro diritti umani fondamentali, possono violare il principio di non respingimento”.

5. Secondo il ministero dell’interno, “nel 2024 sono stati 21.807 i rimpatri volontari assistiti di migranti da Libia e Tunisia, effettuati in collaborazione con l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni – OIM. In aumento dell’82% rispetto a quelli registrati nel corso dell’anno precedente anche grazie al contributo fornito dall’Italia per contrastare l’immigrazione irregolare e i trafficanti che la favoriscono”. Una parte consistente del calo degli arrivi in Italia sarebbe dunque dovuto all’aumento di questo tipo di rimpatri “volontari”, che rientrano ormai nella propaganda del governo sui successi conseguiti nelle politiche di contrasto delle migrazioni, anche quando si risolvono nell’abbattimento di tutte le possibilità di accesso effettivo al diritto di asilo.

Dall’Italia si praticano da anni operazioni di Rimpatrio volontario assistito (RVA). Nel nostro paese il ruolo centrale è stato svolto dell’OIM. Dal 2 gennaio 2024 Il progetto RI.VOL.ARE IN RE.TE tende a garantire e promuovere l’accesso al Ritorno Volontario Assistito e Reintegrazione – RVA&R – di cittadini di Paesi Terzi presenti in Italia, regolari e irregolari, inclusi i vulnerabili, “che decidono di tornare a casa volontariamente”.  Finora i numeri sono stati molto bassi, anche per la scarsa collaborazione dei paesi di origine, determinanti per fornire i documenti di viaggio che consentono il rimpatrio dei loro cittadini giunti in Europa. Dal 2016 ad oggi, infatti, secondo quanto comunicato dalla prefettura di Vicenza, “è stato raggiunto il positivo risultato di 3.380 rimpatri volontari, finanziati prevalentemente con risorse dell’Unione Europea”.  Secondo i dati contenuti in una relazione della Corte dei Conti del 2022, i risultati dei progetti attuati sono però «inferiori agli obiettivi fissati» rispetto ai target del Programma nazionale del Fondo Asilo Migrazione e Integrazione 2014-2020.
Più in dettaglio, nel periodo 2018-2021 i rimpatri volontari assistiti con reintegrazione sono stati solo 2.183. Dopo i 1.185 del primo anno, secondo dati corrispondenti a quelli dell’OIM, sono scesi a 384, poi a 268 e infine (ma il dato del 2021 non è ancora consolidato) sono risaliti a 346. Si tratta dell’11,06% del totale dei rimpatri forzati e dell’1,60% dei migranti sbarcati in Italia nel quadriennio preso in esame. Sono dati sicuramente influenzati dalla pandemia, ma negli ultimi anni la consistenza numerica dei rimpatri volontari assistiti non sembra significativamente aumentata. Ed appare una quantità irrisoria rispetto alla massa di immigrati che, in centinaia di migliaia di persone, viene consegnata annualmente ad una condizione definitiva di irregolarità per la mancanza di canali legali di ingresso e per le politiche sempre più restrittive in materia di permessi di soggiorno e di procedure di asilo.

Con riferimento ai rimpatri volontari assistiti, l’International Law Commission (Ilc) delle Nazioni Unite ha definito disguised expulsion (espulsioni mascherate), i casi in cui queste ultime siano “incentivanti” per un ritorno “presumibilmente volontario”. Nello specifico, l’Ilc evidenzia che “per espulsione mascherata si intende la partenza forzata della persona straniera da uno Stato derivante dalle azioni o omissioni del Stato, o da situazioni in cui lo Stato appoggia o tollera atti commessi dai suoi cittadini al fine di provocare la partenza di individui dal suo territorio”. 

6. La questione dei rimpatri volontari assistiti si lega alla designazione dei paesi di origine dei richiedenti asilo come sicuri, in quanto la possibilità di un rimpatrio “volontario” viene prospettata spesso nelle procedure accelerate in frontiera, dopo l’esito negativo della prima decisione della Commissione territoriale che, magari per manifesta infondatezza della domanda, rigetta l’istanza di protezione. I paesi verso i quali si dovrebbero eserguire questi rimpatri sono quasi tutti contenuti nella lista di paesi di origine scuri, inserita prima nel decreto interministeriale 7 maggio 2024 ed adesso nella legge m.187/2024. Si tratterebbe “in via prioritaria”di operare rimpatri “volontari” di persone appartenenti alle seguenti nazionalità: Bangladesh, Pakistan, Nigeria, Egitto, Tunisia, Marocco e Costa d’Avorio. Nei prossimi tre anni, fino al 2027, dovrebbero essere 2500 i cittadini stranieri destinatari del prognamma di Rimpatrio Volontario Assistito e Reintegrazione (RVA&R) finanziato nel quadro della programmazione del Fondo Asilo, Migrazione e Integrazione (FAMI) 2021-2027.

In Italia non possono rientrare nei programmi di rimpatrio volontario assistito cittadini di paesi terzi destinatari di un provvedimento di espulsione nel quale non è previsto un termine per la partenza volontaria e/o che non hanno ottemperato all’invito di lasciare il territorio entro i termini previsti. Ma possono rientrarvi tutti i richiedenti asilo “denegati” per i quali è stata accordata la sospensiva del diniego ed hanno fatto ricorso con un procedimento ancora pendente. Numero che in queste ultime settimane sembra destinato ad aumentare notevolmente, per effetto delle decisioni dei giudici sulle procedure accelerate in frontiera, sospese o disapplicate, e sulla designazione dei paesi di origine come sicuri. materia che dovrà essere oggetto nei prossimi mesi di una serie di decisioni della Corte di giustizia dell’Unione europea. Si deve anche rilevare come negli ultimi mesi del 2024 si siano irrigiditi i regolamenti interni del sistema di accoglienza, determinando la fuoriuscita di molti richiedenti asilo, con il peggioramento delle loro condizioni di vita, che potrebbero costituire, con l’incertezza delle procedure legali, ulteriori incentivi per una scelta “necessitata” del rimpatrio volontario assistito.

7. Il temporaneo fallimento del Protocollo Italia-Albania e le difficoltà registrate nella implementazione delle prodecure accelerate in frontera, accrescono il rischio che attraverso i programmi di rimpatrio volontario assistito si possano concretizzare violazioni sommerse dei diritti fondamentali delle persone migranti, con la rinuncia alla procedura di asilo, ed il ritorno in paesi nei quali non vi sarebbero garanzie effettive dei loro diritti fondamentali, dunque con una violazione sostanziale del diritto di asilo e del principio di non respingimento, particolarmente evidente qualora la procedura del “rimpatrio volontario assistito” venga proposta, se non “imposta”, a richiedenti asilo trattenuti nei centri di detenzione in Albania.

Il rimpatrio volontario assistito può tradursi in una opportunità se è frutto di una libera scelta di persone che intendono rinunciare al loro progetto migratorio. Ma non può diventare una scelta imposta da un contesto di gravi violazioni di diritti fondamentali, uno strumento “surrogato” di procedure di rimpatrio forzato che non si riescono ad eseguire nei numeri che si spacciano come obettivi governativi. Nel nostro paese questa prospettiva rimane ancora oggetto di propaganda, piuttosto che corrispondere, sulla base di dati parzali, a un effettivo aumento delle persone straniere che scelgono di ritornare volontariamente nei paesi di origine.

Secondo alcune fonti di informazioni europee, In Italia, così come in Germania e in Romania, tutti i rimpatri segnalati nel periodo estivo del 2024 sono stati classificati come rimpatri forzati. Mentre all’opposto, in Lettonia, Lituania e Danimarca oltre il 90 per cento dei rimpatri è stato registrato come volontario. Si deve osservare quindi come a livello europeo i rimpatri volontari assistiti potrebbero celare rimpatri forzati ben poco “volontari”. Anche se ancora non avviene in territorio italiano in modo tanto evidente, le procedure accelerate in frontiera deterriorializzate in Albania potrebbero essere un terreno di sperimentazione di queste prassi amministrative che spingono a scelte (non)volontarie.

Gli enti collegati alle Nazioni Unite, l’OIM ma anche l’UNHCR, per quanto riguarda la tutela dei richiedenti asilo e dei soggetti vulnerabili, conoscono meglio di chiunque altro la situazione reale ed attuale nei paesi di origine. Tocca a loro impedire che le autorità statali, magari con il concorso di Frontex, utilizzino le procedure di rimpatrio volontario assistito mettendo a rischio i diritti fondamentali delle persone rimpatriate, una volta che si esauriscano le misure di assistenza previste in loro favore. Basti pensare al caso della Nigeria, che fino a pochi mesi fa era ritenuta un paese di origine sicuro. Purtroppo non mancano testimonianze negative di persone che si sono amaramente pentite di avere partecipato a programmi di rimpatrio volontario. Se guardiamo a venti ann fa, la situazionie in molti paesi di origine ancora oggi ritenuti “sicuri”, verso i quali si possono realizzare programmi di rimpatrio volontario assistito è soltanto peggiorata. Corruzione, crisi climatica, insicurezza diffusa, scontri etnici, conflitti religiosi, non danno pace a chi cerca di reinsediarsi su un territorio dal quale è stato costretto a fuggire, che non ha certo lasciato per sua lbera scelta. Non si tratta dunque di sottoporre soltanto ad un rigoroso controllo contabile i progetti di rimpatrio volontario assistito, come è stato assicurato fino al 2022 dalla Corte dei conti con una analitica relazione, ma occorre considerare anche la sostenibilità di questi progetti dal punto di vista delle prospettive reali di vita delle persone coinvolte.

Per le associazioni rimane la necessità di una capillare formazione legale sulla portata di queste prassi, anche per contrastare la propaganda di chi punta sulle operazioni di rimpatrio volontario assistito e su accordi con paesi che non rispettano i diritti fondamentali, a partire dal diritto di asilo. Impegno che va supportato da chi continua a promuovere una informazione indipendente, mentre il governo si rivolge all’elettorato, anche attraverso i canali social, “dando i numeri”, ma ignorando le persone, spacciando i “successi” conseguiti nella “gestione dei flussi migratori” con il calo degli arrivi rispetto agli scorsi anni, materia che non dovrebbe essere trattata, non solo nei paesi di transito, ma neppure in Italia, comprimendo i diritti, e le vite, di chi fugge in cerca di protezione.


INFOMIGRANTS

2 gennaio 2025

Sweden hints at introduction of EU migrant ‘return hubs’ in near future

Swedish Prime Minister Ulf Kristersson announced that the EU might be ready to pitch a proposal on the creation of so-called ‘return hubs’ for irregular migrants outside the bloc within two months.

“Prime Minister Kristersson said the suggested timeline for launching the project could be as early as March 2025”. 


ANSA

15 gennaio 2025

La proposta della Commissione europea sui rimpatri in arrivo l’11 marzo

In tempo per presentare il “nuovo approccio comune” al Vertice


LA PRESSE

MERCOLEDÌ 15 GENNAIO 2025 13.18.17

Migranti: proposta Commissione Ue sui rimpatri attesa l’11 marzo

Migranti: proposta Commissione Ue sui rimpatri attesa l’11 marzo Bruxelles, 15 gen. (LaPresse) – La proposta di revisione delle norme Ue sui rimpatri dovrebbe essere presentata dalla Commissione europea il prossimo 11 marzo. E’ quanto risulta dall’agenda provvisoria del Collegio dei commissari pubblicata oggi, che verrà confermata dai capi di gabinetto della Commissione a ridosso della data. La presidente Ursula von der Leyen aveva annunciato di voler presentare il testo delle nuove norme prima del Consiglio europeo in programma il 20 e 21 marzo. L’obiettivo è avviare un approccio coordinato e unificato fornendo maggiori strumenti agli Stati per una politica più efficace per i rimpatri.151317 GEN 25


POLICY MAKER

18 dicembre 2024

Migranti, rimpatri e Paesi sicuri: nuova Direttiva in arrivo dall’Ue

di Grazia Letizia

Sullo sfondo, il rientro volontario dei rifugiati siriani rappresenta un altro punto chiave del vertice, evidenziando l’importanza della stabilità in Siria dopo la caduta di Assad”.


NOVA NEWS

ESCLUSIVA – Il ministro degli Esteri della Tunisia: “Migrazioni e investimenti al centro della visita a Roma”

“Sarà un’opportunità per rafforzare ulteriormente il partenariato strategico bilaterale e sottolineare la volontà di lavorare insieme per sviluppare ulteriormente questo partenariato a tutti i livelli”

 

“Il numero dei rimpatri assistiti di cittadini tunisini irregolari è rimasto relativamente stabile, con 1.890 rimpatri nel periodo corrente rispetto ai 2.166 dello stesso periodo del 2023. La Tunisia sta richiedendo ulteriore assistenza per i rimpatri volontari, data la consistente presenza di migranti nel Paese, in particolare nella regione costiera di Sfax. Tra il 2017 e il 2024, la Farnesina ha investito, attraverso i suoi due Fondi — il Fondo migrazioni e il Fondo di premialità per le politiche di rimpatrio —, circa 85 milioni di euro per sostenere iniziative gestite dalle principali agenzie delle Nazioni Unite in Tunisia.”…


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