lunedì 8 dicembre 2025

Il pregiudizio democratico - Piero Bevilacqua

 

Ci sono pochi dubbi sul fatto che analisti, esponenti politici, giornalisti del mondo occidentale fondano la propria scelta di campo (o coprono la loro malafede), sovrapponendo il proprio giudizio sul regime interno dei paesi alle loro posizioni di politica estera. Se gli stati non sono democratici – secondo gli standard decisi in occidente – qualunque sia il loro comportamento, in qualunque controversia, hanno torto in partenza, sono dalla parte sbagliata della storia. Il caso più recente di applicazione di tale criterio l’abbiamo osservato in occasione della cosiddetta “guerra dei 12 giorni” tra Israele e Iran. Il fatto che il governo iraniano abbia sottoscritto il trattato di non proliferazione, si sia sottoposto per anni ai controlli degli ispettori dell’AIEA, abbia trattato da ultimo con l’amministrazione Trump non è stato sufficiente a evitare il bombardamento da parte di Israele e degli USA. Poiché l’Iran è uno stato teocratico (anche se la sua realtà effettiva non corrisponde alla caricatura che ne fanno i media occidentali) gran parte dei governanti e dei commentatori europei si è sentita autorizzata ad affermare, senza alcuna vergogna, che Israele – il quale possiede un arsenale nucleare e non si sottopone ad alcun controllo – “ha il diritto di difendersi” e dunque di bombardare chi crede.

Ma il doppio standard degli esponenti democratici non è solo fallace nel giudicare la politica estera degli stati sulla base dei loro ordinamenti interni. Alla luce dell’analisi storica esso appare ingiusto e infondato anche nel giudizio di merito sulla democrazia che si sceglie come criterio di valore. Prendiamo il caso di Israele. “L’unica democrazia del Medio Oriente”, ha effettivamente conosciuto, al suo interno, esperienze democratiche importanti, perfino socialistiche, con l’istituzione dei Kibbuz, e un certo cosmopolitismo tollerante. Ma queste si svolgevano, almeno a partire dalla guerra del 1967, sulla base dell’occupazione dei territori palestinesi, su una politica di apartheid di un altro popolo, violando il diritto internazionale. Che demo-crazia, potere del popolo, è quella che si fonda sull’oppressione di un altro popolo? Oggi, dopo l’involuzione autoritaria degli ultimi decenni, dopo che nel 2018 Israele è diventato lo “stato-nazione del popolo ebraico”, mentre consuma un genocidio a Gaza, definirlo una democrazia è un palese oltraggio alla verità.

Ancora più agevole sarebbe mostrare, solo restando nell’ambito degli ordinamenti interni, quanto sia inappropriato definire gli USA uno stato democratico. Emmanuel Todd lo definisce, a ragione, una “oligarchia liberale”, vale a dire uno stato di diritto, ma in mano a ristretti gruppi di potere. Basterebbe ricordare come in America perfino il rito elettorale sia diventato un affare per milionari. Del resto l’amministrazione Trump si è incaricata di rendere evidente questa realtà anche ai più distratti. Ma proprio gli USA mostrano quanto fallace e ingiusto sia elaborare criteri di valore e fare scelte di campo sulla base della della loro tradizione democratica. Come si fa a schierarsi con un paese perché lo si considera democratico, mentre opprime altri popoli che hanno diversi ordinamenti, frutto della propria particolare storia, cultura, colonizzazioni subite? È senza valore il fatto che gli USA non solo hanno “esportato” rovinose democrazie, ma molto più spesso hanno abbattuto regimi democratici per imporre dittature? Come ha ricordato un analista americano che ha potuto esaminare negli archivi le tabelle delle operazioni della CIA: «Gli Stati Uniti hanno supportato movimenti autoritari in almeno 44 su 64 operazioni segrete di cambio di regime, incluse almeno sei operazioni in cui cercarono di rimpiazzare governi democratici liberali con regimi autoritari illiberali» (A.O. Rourke, Covert regime change. America’s secret cold war, Cornell University Press, 2021).

Cosi oggi quello che ormai appare come un vero pregiudizio, la democrazia presunta quale criterio di valore per giudicare le relazioni internazionali, impedisce a molti intellettuali e osservatori onesti di scorgere nell’organizzazione dei Brics il fronte di un nuovo, equo, pacifico, ordine mondiale. Com’è nel loro programma, solennemente riproposto a Kazan nel 2024 e a Rio de Janeiro il 6-7 luglio scorso, i grandi paesi che la compongono perseguono una relazione economica paritaria e cooperativa tra gli stati del globo, che sfugga al dominio unipolare degli USA. Un progetto, dunque, di assetto multilaterale, unica via per impedire un conflitto mondiale. Il fatto che gran parte di questi paesi siano regimi illiberali è ragione sufficiente per non guardare con interesse e favore al loro progetto, visto che quello dell’Unione Europea è la guerra contro la Russia e quello degli USA il conflitto contro la Cina?

https://volerelaluna.it/politica/2025/08/05/il-pregiudizio-democratico/

Giustizia. L’Egitto è vicino - Domenico Gallo

 

Sono già in circolazione i primi sondaggi sulle intenzioni di voto degli italiani al preannunciato referendum sulla legge di riforma costituzionale dell’assetto della magistratura. I sondaggi mostrano una prevalenza del SI di oltre 10 punti. Questo pronostico in realtà non deve impressionare perché nel referendum costituzionale, nel quale non c’è quorum, quello che conta è il numero degli elettori dell’uno e dell’altro schieramento che si recheranno effettivamente a votare. La falsa denominazione della riforma come separazione delle carriere propone un tema astruso per la gran parte del corpo elettorale che, nel referendum sul tema che si svolse il 12 giugno del 2022 vide una scarsissima partecipazione al voto. L’affluenza alle urne fu appena del 20% e votarono Si a un quesito illeggibile, divulgato come separazione delle carriere, appena 5.661.880 elettori. Nel prossimo referendum il corpo elettorale sarà chiamato a pronunciarsi col voto su questioni tecniche relative all’ordinamento giurisdizionale che per la gran parte dei cittadini risultano incomprensibili. Come fa il cittadino comune ad orientarsi sulla separazione delle carriere, sulla divisione in tre del Consiglio Superiore della magistratura, sulla scelta per sorteggio dei membri togati di tali organismi?

Per poter effettuare una scelta il giorno del voto gli elettori dovranno necessariamente affidarsi all’interpretazione autentica della riforma, e agli effetti che potrebbe produrre, come ci vengono prospettati dai suoi artefici. Ha cominciato la presidente del Consiglio Meloni che, di fronte alla bocciatura da parte della Corte dei Conti della delibera CIPESS sul Ponte dello Stretto, ha reagito stizzita qualificando il provvedimento come: «l’ennesimo atto di invasione della giurisdizione sulle scelte del Governo e del Parlamento» e ha precisato che la riforma costituzionale della giustizia rappresenta «la risposta più adeguata a una intollerabile invadenza». Il concetto che la riforma serve a bloccare l’invasione di campo della magistratura nelle scelte del potere politico è stato maggiormente specificato dal sottosegretario alla presidenza Mantovano: «Oggi c’è il blocco delle espulsioni grazie a decisioni giudiziarie, c’è il blocco della sicurezza, della politica industriale che voglia raggiungere certi obiettivi, si pensi all’Ilva grazie a decisioni giudiziarie. C’è un’invasione di campo che deve essere ricondotta». Ha ulteriormente chiarito gli effetti desiderati della riforma il ministro Nordio quando, in un’intervista al Corriere della Sera ha dichiarato: «Mi stupisce che una persona intelligente come Elly Schlein non capisca che questa riforma gioverebbe anche a loro, nel momento in cui andassero al governo». In altre parole, una magistratura addomesticata gioverebbe a qualunque maggioranza politica.

Al di là di tutti i tecnicismi, il senso della riforma è quello di impedire che la magistratura possa fare un’invasione di campo nelle scelte del Governo, anche laddove quelle scelte riguardano settori suscettibili di impattare diritti fondamentali della persona come la salute, la libertà del dissenso, il diritto di essere salvati per i naufraghi. Secondo questa concezione la magistratura deve tutelare i diritti ma non può spingere questa tutela fino al punto di interferire con le scelte della politica.

A questo punto bisogna chiedersi qual è il modello ideale di giustizia a cui aspirano i riformatori nostrani? C’è un paese che nella sua Costituzione assicura la massima protezione alla dignità di ogni persona (articolo 51: «La dignità è un diritto di ogni persona che non può essere violato»), bandisce la tortura (articolo 52), riconosce come inviolabile la libertà personale e garantisce in modo scrupoloso i diritti dell’imputato (articolo 54: «La libertà personale è un diritto naturale che è tutelato e non può essere violato. Salvo i casi di flagranza di reato, i cittadini non possono essere fermati, perquisiti, arrestati […] se non in base a un mandato di arresto giudiziario […]. Tutti coloro la cui libertà è stata limitata devono essere immediatamente informati dei motivi che ne hanno determinato la limitazione, […] e tradotti dinanzi all’autorità inquirente entro ventiquattro ore». È persino prevista in Costituzione l’istituzione di una sorta di Tribunale della libertà: «Coloro che hanno subito una limitazione della libertà hanno diritto di ricorso dinanzi all’autorità giudiziaria. La sentenza deve essere emessa entro una settimana da tale ricorso, altrimenti il ricorrente deve essere immediatamente rilasciato». La Costituzione detta anche le norme sul giusto processo (articolo 55: «Tutti coloro che sono arrestati, detenuti o hanno la libertà limitata devono essere trattati in modo da preservare la loro dignità. Non possono essere torturati, terrorizzati o sottoposti a coercizione. Non possono essere danneggiati fisicamente o mentalmente. […] Ogni violazione di quanto sopra costituisce un reato e il colpevole sarà punito a norma di legge»). Ovviamente questa Costituzione riconosce formalmente l’indipendenza della magistratura (art. 184), istituisce un Consiglio Superiore presieduto dal Capo dello Stato (art. 185); come la Costituzione italiana, prevede che i giudici sono soggetti soltanto alla legge (art. 186). Ma le norme che disciplinano il potere giudiziario svuotano di contenuto l’indipendenza attribuendo al Capo dello Stato il potere di nominare i vertici degli organi giudiziari. Questo paradiso dei diritti ha un solo neo: si tratta dell’Egitto.

Com’è possibile che in un paese con una Costituzione così “garantista”, un giovane come Giulio Regeni venga arrestato segretamente, torturato e ucciso e che i suoi assassini vengano protetti fino al punto che sia negata all’autorità giudiziaria italiana la possibilità di citarli in giudizio? La risposta è semplice. In quel paese l’indipendenza è stata taroccata per cui non si consente alla magistratura di fare invasioni di campo o di ficcare il naso nelle scelte della politica che riguardano la “sicurezza” del potere politico. L’esperienza egiziana dimostra che tutte le carte dei diritti, anche se fondate su Costituzione, sono carta straccia in assenza di un potere giudiziario realmente indipendente dal potere politico.

L’intento di Giorgia Meloni di addomesticare l’esercizio della giurisdizione per renderlo funzionale alle scelte politiche della maggioranza ha un impatto immediato sulla sicurezza dei diritti dei cittadini. Si possono fare tanti esempi. Quello più eclatante è rappresentato dai fatti del G8 di Genova del luglio 2001, quando il nuovo Governo di destra al potere sperimentò un nuovo modello di gestione dell’ordine pubblico. Nella notte tra il 21 e il 22 luglio, circa 300 agenti di polizia fecero irruzione nella scuola Diaz-Pertini, dove erano accampati i manifestanti, sostenendo di cercare i black bloc responsabili di devastazioni in città. Sottoposero tutte le persone che dormivano nella struttura a un violento pestaggio che provocò lesioni gravi e gravissime, arrestò 93 persone e falsificò le prove per giustificare il blitz. Amnesty International definì l’episodio come «la più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la Seconda guerra mondiale». Questo nuovo modello di gestione dell’ordine pubblico, che uno dei suoi artefici (il vicequestore Michelangelo Fournier) qualificò come “macelleria messicana” (forse sarebbe più esatto definirlo modello egiziano) fallì miseramente. Tutte le persone arrestate furono immediatamente liberate dalla magistratura ligure. La Procura incriminò 25 funzionari e dirigenti di polizia, che poi furono condannati, con sentenza definitiva della Cassazione del 5 luglio 2012 per falsi ideologici e calunnie (nessuno fu condannato per le violenze dirette poiché i reati di lesioni nel frattempo si erano prescritti). I fatti di Genova non si sono più ripetuti per la semplice ragione che il potere politico non può garantire l’impunità per fatti simili fin quando resiste la garanzia di un potere giudiziario indipendente. Taroccare l’indipendenza della magistratura è una via che ci conduce dritti in Egitto.

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domenica 7 dicembre 2025

Trieste, dove si può morire di emarginazione - Alekos Prete


È morto un giovane migrante algerino in un magazzino abbandonato del Porto Vecchio di Trieste. È morto mentre, poche ore prima, era iniziato l’ennesimo sgombero dei luoghi dove da mesi — in realtà, da anni — vivono uomini rimasti fuori da ogni sistema di accoglienza. È morto nel silenzio, nel freddo, nel vuoto. E ancora una volta, a Trieste, la linea tra vita e invisibilità si è spezzata senza che nessuno intervenisse in tempo. Quest’uomo era una delle tante persone arrivate in città attraverso la rotta balcanica: chilometri a piedi, respingimenti illegali, notti nei boschi, violenze lungo i confini. Chi arriva a Trieste è spesso esausto, ferito, traumatizzato. Eppure la prima accoglienza reale non è garantita dalle istituzioni, ma da associazioni e volontari come Linea d’Ombra, che da anni cura ferite, distribuisce scarpe, ascolta storie di sopravvivenza. Una realtà che la politica ha spesso ostacolato, accusato, minacciato — anziché sostenerla.

I magazzini del Porto Vecchio sono diventati rifugio per chi non ha altro. Luoghi in cui si ripara il corpo ma non la dignità: coperte sporche, freddo, assenza di servizi, buio. Edifici che nessuno cura, che si riempiono di vite sospese nel tentativo di restare vivi. È qui che lui ha trascorso le ultime ore della sua vita. Mentre fuori, la città accendeva le luci di Natale. Lo sgombero era in corso: forze dell’ordine, protezione civile, identificazioni in massa, trasferimenti improvvisi. La macchina amministrativa si era messa in moto, ma non per garantire diritti: per “liberare” un’area. E proprio in questo contesto, nel pieno dell’operazione, qualcuno è rimasto indietro. Solo. Invisibile. Non sappiamo se sia morto di freddo, di stanchezza o di una condizione medica mai curata. Sappiamo però che non aveva un posto dove stare. Questo basta.

Non è sufficiente dire che non c’erano segni di violenza. Perché la violenza, qui, non è un colpo o una ferita. È l’abbandono. È un sistema che decide che alcuni esseri umani non avranno un letto, un tetto, una cura, una possibilità. È un’idea di società in cui chi è migrante senza documenti può essere lasciato dormire in un capannone senza riscaldamento, mentre l’amministrazione cittadina si preoccupa più del decoro che delle persone.

La politica, tutta — dal livello nazionale a quello locale — continua a trattare l’accoglienza come un disturbo, non come un dovere costituzionale. Continua a parlare di ordine pubblico invece che di diritti. Continua a organizzare sgomberi senza alternative immediate, come se bastasse spostare un problema per risolverlo. Ma il problema non viene spostato: viene aggravato. Fino a diventare tragedia. L’articolo 2 della Costituzione parla di diritti inviolabili dell’uomo. L’articolo 3 impone di rimuovere gli ostacoli che limitano la dignità. L’articolo 10 garantisce il diritto d’asilo. L’articolo 32 tutela la salute. Tutto questo è stato negato a un giovane che, come tanti, aveva affrontato un viaggio durissimo per salvarsi la vita. Era arrivato in Italia nella speranza di essere protetto. Invece ha trovato una porta chiusa dopo l’altra, fino all’ultima: quella di un magazzino freddo dove il suo corpo è stato scoperto da un connazionale. Questa morte non è “un incidente”. Non è “fatalità”. È la conseguenza diretta di una politica che esclude, di istituzioni che non garantiscono diritti, di un sistema che considera alcune vite sacrificabili. È una responsabilità che ricade su chi governa, su chi amministra, su chi sceglie di ignorare invece di intervenire.

Raccontare ciò che è accaduto significa restituire dignità a un uomo che non l’ha avuta in vita. Significa ricordare che in Italia si può morire di emarginazione. Significa dire chiaramente che finché non cambierà il modo in cui trattiamo gli ultimi, finché continueremo a confondere sicurezza con repressione e accoglienza con debolezza, finché il diritto rimarrà una parola svuotata, tragedie come questa non saranno eccezioni ma conseguenze.

E allora questa morte deve interrogarci. Deve farci vergognare. Deve spingerci a pretendere che lo Stato rispetti la Costituzione che dice di servire. Deve farci dire, senza più paura e senza più giri di parole, che nessuno dovrebbe morire così.

Nessuno.

Mai più.

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Una conferenza denuncia i crimini coloniali e chiede verità, giustizia e risarcimenti - Marco Santopadre

 

Domenica e lunedì decine di delegazioni hanno partecipato nella capitale algerina ai lavori della “Conferenza internazionale sui crimini del colonialismo in Africa”.

La conferenza si è tenuta sulla base di una risoluzione, adottata a febbraio dall’Unione Africana, che chiede giustizia e meccanismi riparatori che consentano ai paesi coinvolti di poter affrontare le durature conseguenze politiche, economiche e sociali del dominio coloniale europeo. Uno degli obiettivi espliciti dell’iniziativa è stato quello di elaborare una posizione africana unitaria sulla questione dei risarcimenti e di inserire il colonialismo nella lista dei “crimini contro l’umanità” riconosciuti dal diritto internazionale.

Infatti mentre la schiavitù, la tortura e l’apartheid sono esplicitamente menzionati dalle convenzioni internazionali, neanche la Carta delle Nazioni Unite, che pure condannando l’occupazione di territori altrui, fa alcun riferimento specifico al colonialismo.

 

Molti paesi africani sostengono che questa lacuna giuridica abbia contribuito a proteggere le ex potenze coloniali anche secoli di furto di di risorse, lavoro forzato, espropriazione territoriale e sottomissione politica continuano a condizionare fortemente la condizione economico e sociale del continente africano. Secondo alcuni economisti, il costo complessivo dello sfruttamento coloniale dell’Africa ammonterebbe a varie migliaia di miliardi di dollari.

Inoltre le richieste di risarcimento includono anche la restituzione di beni archeologici, culturali e storici confiscati durante l’epoca coloniale e ancora conservati nei musei europei.

Il messaggio centrale diffuso dalla Conferenza di Algeri è che l’Africa non intende chiudere il capitolo della dominazione coloniale senza attivare un percorso internazionale fondato su una memoria condivisa, sul riconoscimento dei crimini commessi dalle potenze coloniali e sulla riparazione.

La Dichiarazione di Algeri
Questi intenti sono stati riassunti nella “
Dichiarazione di Algeri” adottata dalla Conferenza al termine dei lavori e che sarà sottoposta all’esame e all’approvazione dell’Assemblea dei Capi di Stato e di Governo dell’Unione Africana convocata nel febbraio 2026.

La Dichiarazione ha chiesto la proclamazione del 30 novembre come “Giornata africana di omaggio ai martiri e alle vittime della tratta transatlantica degli schiavi, della colonizzazione e dell’apartheid”, sulla base di una proposta avanzata dal presidente algerino Abdelmadjid Tebboune.

Il testo invita esplicitamente le ex potenze coloniali ad «assumersi pienamente le proprie responsabilità storiche attraverso il riconoscimento pubblico ed esplicito delle ingiustizie commesse», raccomandando «la creazione di archivi digitali panafricani, la revisione dei programmi educativi e la creazione di memoriali, musei e giornate commemorative».

I partecipanti hanno raccomandato l’istituzione, da parte degli stati membri dell’Unione Africana, di “Commissioni nazionali per la verità e le riparazioni”, oltre a sostenere «l’istituzione e il rafforzamento di meccanismi legali a livello nazionale, regionale, continentale e internazionale volti a istituzionalizzare la criminalizzazione del colonialismo nel diritto internazionale attraverso la documentazione, l’accesso e la restituzione completa degli archivi, e a garantire sia la responsabilità legale per i crimini coloniali sia le loro conseguenze durature».

La Dichiarazione sostiene inoltre «la creazione di un Comitato panafricano sulla memoria e la verità storica, che avrà il compito di armonizzare gli approcci storici, supervisionare la raccolta degli archivi, coordinare i centri di ricerca africani e produrre analisi e raccomandazioni per il continente».

I firmatari sottolineato da questo punto di vista «l’urgente necessità di riformare i sistemi educativi africani per integrare pienamente la storia precoloniale, coloniale e postcoloniale e per dotare le giovani generazioni di una coscienza storica informata».

Risarcimento ambientale
Gli estensori del documento hanno anche affermato «la necessità di stabilire una valutazione continentale dell’impatto ecologico e climatico del colonialismo e delle esigenze di riabilitazione dei territori colpiti da test nucleari, chimici e industriali», sostenendo «l’istituzione di una Piattaforma africana per la giustizia ambientale, incaricata di identificare le aree colpite, valutare i danni, supportare gli Stati interessati e formulare raccomandazioni continentali per la riabilitazione e il risarcimento».

«Esortiamo gli stati storicamente responsabili dei danni ambientali che hanno causato il cambiamento climatico, in particolare le ex potenze coloniali, ad assumersi la propria responsabilità morale e politica, invitandoli a fornire supporto finanziario, tecnologico e istituzionale agli sforzi di adattamento e mitigazione del continente» recita un passaggio della Dichiarazione.

L’Africa nel mondo multipolare
Per quanto riguarda le ricadute economiche, la Dichiarazione di Algeri sottolinea «l’importanza di intraprendere un audit continentale degli impatti economici del colonialismo al fine di sviluppare una strategia di riparazione basata sulla giustizia che comprenda, tra le altre cose, il risarcimento per la ricchezza saccheggiata, la cancellazione del debito e un equo finanziamento dello sviluppo».

Il documento sottolinea inoltre la necessità di riformare la governance economica globale per smantellare l’eredità coloniale radicata nelle istituzioni finanziarie internazionali e nei regimi commerciali.

A tale scopo, i partecipanti hanno chiesto «la revisione dell’architettura finanziaria internazionale, compreso un effettivo riequilibrio del potere decisionale all’interno del FMI, della Banca Mondiale, delle banche regionali di sviluppo e degli organismi di regolamentazione economica globale, consentendo ai paesi africani di definire liberamente le proprie politiche di sviluppo, accedere ai finanziamenti a costi equi e partecipare pienamente alle decisioni che plasmano l’economia globale».

La Conferenza e la richiesta di congrui risarcimenti da parte delle ex potenze coloniali europee – Portogallo, Spagna, Francia, Gran Bretagna, Belgio, Italia, Germania – si inseriscono in un contesto geopolitico nel quale i paesi africani tentano di sfruttare le nuove sponde economiche e diplomatiche offerte dalle potenze emergenti attive nel continente – Cina, Russia, Turchia ed Emirati Arabi – per poter rafforzare la propria posizione nelle trattative in corso con l’Unione Europea.

All’interno di uno scenario già multipolare segnato da una feroce competizione tra le diverse potenze, la memoria storica e la richiesta di un risarcimento per i saccheggi e le violenze inflitte ai popoli del continente costituiscono un potenziale strumento per riequilibrare rapporti asimmetrici con i paesi europei.

Il protagonismo dell’Algeria
A fare gli onori di casa è stato il Ministro degli Esteri algerino, Ahmed Attaf, che nel corso del suo intervento nella sessione inaugurale ha spiegato che le sofferenze inflitte dalla Francia al suo paese durante l’occupazione coloniale, mai del tutto riconosciute da Parigi, hanno spinto Algeri ad ospitare la conferenza.

Dal 1954 al 1962 l’Algeria affrontò infatti una delle più sanguinose guerre anticoloniali di tutto il continente prima di poter ottenere l’indipendenza; il conflitto causò centinaia di migliaia di vittime e le forze di occupazione francesi, sostenute da milizie formate da coloni, si resero responsabili di eccidi, rapimenti e torture.

Secondo Attaf, il risarcimento dovuto dai paesi colonizzatori dovrebbe essere considerato un obbligo legale e non un gesto di magnanimità. L’Africa «ha il diritto di esigere il riconoscimento ufficiale ed esplicito dei crimini commessi contro i suoi popoli durante il periodo coloniale» che continuano ad imporre «un prezzo pesante in termini di esclusione, emarginazione ed arretratezza».
«Il colonialismo non è una macchina pensante, né un corpo dotato di ragione; è violenza allo stato naturale» ha detto il dirigente algerino citando Frantz Fanon».

Attaf non ha mancato di ricordare che il periodo coloniale ha lasciato dietro di sé enormi strascichi e conflitti, citando il caso del Sahara Occidentale, ex colonia spagnola parzialmente occupata dal Marocco negli anni ’70, come un dossier di decolonizzazione irrisolto.

Sono sempre più numerosi i paesi occidentali ma anche africani che stanno riconoscendo l’annessione del Sahara occidentale al Marocco, riconosciuta della mozione approvata recentemente dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che cita l’autonomia della regione all’interno del territorio di Rabat come base di partenza per ogni soluzione negoziale, di fatto cancellando la priorità da sempre accordata ad un referendum che permetta alla popolazione dei territori occupati di decidere il proprio destino.

Ma il Ministro degli Esteri algerino ha ribadito il sostegno del proprio paese al popolo saharawi, elogiandone la lotta «per affermare il proprio legittimo e legale diritto all’autodeterminazione».

È indubbio che il governo algerino abbia utilizzato la conferenza per segnare qualche punto contro il Marocco, suo eterno rivale, cercando di recuperare agibilità dopo la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU sul Sahara occidentale promossa dall’amministrazione Trump

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sabato 6 dicembre 2025

Quando la sinistra si fa NATO - Michele Agagliate

La politica italiana ha un talento unico: riesce a tradirti sempre nello stesso modo, ma ogni volta fingendo sia la prima; basta leggere un voto parlamentare per capire che è finita lì, senza bisogno di procès-verbaux, senza bisogno di editoriali indignati, senza bisogno di analisi sociologiche. Il tradimento è già tutto in quella riga: YES. YES. YES. Tutti YES.

È il caso della votazione del Parlamento Europeo con cui la “sinistra del nuovo millennio” – quella che parla di pace, diritti, diplomazia, mondo multipolare – ha deciso di schierarsi, per l’ennesima volta, con l’escalation militare, lo scontro permanente, la cancellazione di qualunque tentativo negoziale tra Stati Uniti e Russia, il riarmo sistematico dell’UE e la prosecuzione infinita della guerra in Ucraina.

Un voto che dovrebbe far scattare i defibrillatori nei circoli progressisti; invece, sui social dei diretti interessati, silenzio di tomba. Selfie, bandierine arcobaleno, linguaggio inclusivo, meme, citazioni edificanti: tutto, tranne quello che contava davvero.

Nello screenshot della votazione si vede precisamente chi ha alzato la mano in quel YES così sciolto, così sereno, così conforme: Cristina Guarda, Ignazio Marino, Leoluca Orlando, Ilaria Salis, Benedetta Scuderi. Tutti schiacciati sul tasto verde della risoluzione più atlantista degli ultimi mesi.

Voti che dicono più di mille manifesti elettorali.

Voti che fanno più male di qualsiasi propaganda di destra.

Voti che certificano che la sinistra liberal italiana non è semplicemente cambiata: è migrata su un altro pianeta politico, dove la NATO è “pace”, Lockheed Martin è “diritti umani” e la diplomazia è una bestemmia geopolitica.

E mentre votavano la guerra infinita, il Sole 24 Ore registrava il sorpasso delle 70.000 vittime a Gaza. Settantamila. Un orrore biblico, un genocidio trasmesso quasi in diretta, un massacro che dovrebbe scuotere ogni coscienza.

Risultato?

Nessuno di questi paladini del “progressismo etico” ha collegato le due cose: il voto per alimentare il più grande riarmo europeo degli ultimi trent’anni… e un genocidio sostenuto militarmente dall’Occidente.

Pace sì, ma solo su TikTok.

Poi c’è stata lei, Ilaria Salis, che nella stessa plenaria ha regalato il secondo capolavoro della settimana: un discorso in cui, distinguendo fra trafficanti e passeur (distinzione corretta, se non fosse usata per sdoganare l’indicibile), ha paragonato questi ultimi a “chi aiutava gli ebrei a fuggire dai lager”.

Un paragone che – in un qualsiasi Paese dotato di memoria storica – sarebbe bastato da solo a scatenare un dibattito nazionale.

Invece no.

Nella sinistra moral-progressista funziona così: la storia è un serbatoio di metafore, non un insieme di fatti.

E se la metafora scatena emozione, meglio ancora.

Ma il paragone è una mina politica per almeno quattro motivi.

Primo: cancella la differenza tra chi, durante il nazifascismo, rischiava la vita gratuitamente per salvare perseguitati destinati alla camera a gas… e chi oggi gestisce un business multimilionario su tratte illegali, schiavitù moderna, barconi marcescenti, collusioni con milizie.

Secondo: elimina ogni nesso fra le guerre dell’Occidente e le migrazioni. Perché dire che i passeur sono eroi funziona solo se ti dimentichi che molti disperati scappano da guerre provocate proprio dalla NATO.

Terzo: strappa dal discorso l’unico punto politico reale, e cioè che il fenomeno migratorio ricade sulle periferie, non nella ZTL linguistico-progressista dove la sinistra vive e lavora.

Quarto: trasforma la politica in catechismo. Se i passeur sono santi laici, chi li critica diventa automaticamente un peccatore sociale.

Stop del dibattito. Amen.

Tutto questo, però, è solo il sintomo, non la malattia.

La malattia è strutturale: la sinistra liberal europea – e AVS in Italia – non è più una forza popolare, sociale, materiale, radicata. È una forza morale. Una ONG travestita da partito.

E le ONG non rappresentano i lavoratori.

Rappresentano cause astratte, narrative globali, comunità culturali specifiche.

Non il popolo, ma una community.

È per questo che AVS vota la guerra mentre si definisce “pacifista”.

Perché la pace, nel loro vocabolario, non è un processo negoziale: è un valore etico.

E i valori etici – come sanno bene gli strateghi della politica USA – si applicano solo dopo che hai vinto la guerra, mai prima.

Una pace che prevede solo la vittoria totale di una parte non è pace: è propaganda morale travestita.

E allora la domanda diventa: a chi risponde questa sinistra?

Perché non risponde più alle fabbriche, ai sindacati (quelli veri), alle comunità locali, ai territori agricoli, ai precari, agli operai della logistica, ai lavoratori poveri, al ceto medio massacrato dall’inflazione, agli studenti senza casa.

No. Risponde a una rete di fondazioni e ONG transnazionali, accademie cosmopolite, think tank finanziati da centri studi atlantici, centrali mediatiche che creano la narrativa dominante.

Sono dentro quell’ecosistema. Ne respirano l’aria, ne condividono la lingua, ne replicano la morale.

Il voto è solo la logica conseguenza di quella dipendenza.

E c’è un altro non detto che in Italia non si vuole affrontare: l’Europa sta costruendo un’economia di guerra permanente.

Non è uno slogan: sono documenti ufficiali.

Lo European Defence Fund ha ricevuto aumenti record.

Le industrie belliche europee hanno ottenuto corsie preferenziali per l’espansione degli stabilimenti.

Si discutono eurobond dedicati esclusivamente alla difesa.

Il target del 3% del PIL per le spese militari non è più un tabù.

Siamo già dentro una ristrutturazione industriale di tipo militarista, come negli anni ’50 ma senza la Guerra Fredda come alibi.

E AVS che fa?

Si mette dalla parte della storia?

Propone neutralità, diplomazia, multipolarismo?

Manco per sbaglio.

Vota YES — mentre già immagina il prossimo carro del Pride — e il pacifismo resta per le stories da quindici secondi.

Poi ci si chiede perché il popolo non la sopporta più.

È semplice: non perché “la gente è ignorante”, ma perché la gente è lucida.

Capisce benissimo le conseguenze materiali di un voto.

Capisce che chi vota per la guerra non può parlare di pace.

Capisce che chi difende i passeur senza parlare delle periferie non vive nella realtà.

Capisce che chi esalta la globalizzazione non deve fare i conti con gli stipendi da 1.100 euro.

Capisce che chi fa il moralista su tutto non dice mai una parola sul capitale, sulla NATO, sulle multinazionali dell’armamento.

È la sinistra che non capisce la gente.

Non il contrario.

E allora, che si fa?

Si accetta il declino?

Si lascia campo libero ai liberisti mascherati da ambientalisti?

No.

Si dice la verità: questa sinistra non tornerà più quella che era.

È finita.

Ha cambiato DNA.

Ha scelto il suo campo: non quello dei popoli, ma quello delle élite globali occidentali.

E quando un partito sceglie volontariamente di rappresentare gli interessi delle élite, non può più rappresentare il popolo.

Il popolo dovrà ricostruire da sé la sua sinistra:

una sinistra sovranista, popolare, antimilitarista, antiglobalista, ecologista materiale, non identitaria, non moralista, non succube della NATO, non inginocchiata alla Commissione Europea.

Una sinistra che difenda confini e diritti, pace e lavoro, reindustrializzazione e agricoltura, welfare e diplomazia.

Una sinistra che sa distinguere fra solidarietà e business, fra pace e guerra, fra autodeterminazione e ingerenza.

Ed è solo quando questa sinistra nascerà davvero che potremo finalmente smettere di leggere voti come quello di Strasburgo.

E potremo finalmente smettere di ascoltare chi predica la pace mentre vota la guerra.

Perché non c’è nulla di più ipocrita di una sinistra che ti dice “siamo per la vita” mentre schiaccia il tasto che manda a morire qualcun altro.

Che vadano tutti a casa. È il popolo che deve tornare a scrivere la sua storia.

E questa sinistra, oggi, è solo una nota a piè di pagina della NATO.

da qui

La tempesta di bugie - Antonio Cipriani

 

“Prevenire il collasso climatico significa proteggerci da una tempesta di bugie”. Lo scrive George Monbiot sul Guardian, tradotto da quell’indispensabile rivista che è Internazionale. Afferma il giornalista inglese: se si trattasse solo di una crisi climatica l’avremmo già risolta. Abbiamo soldi e tecnologie, mancano le scelte politiche. E mancano perché la crisi climatica si scontra con una quella epistemica. Non da oggi, da decenni viviamo una crisi di produzione e diffusione di conoscenze. La maggior parte delle persone non sanno niente di niente, non leggono, non si informano se non davanti alla tv o davanti allo schermo del telefonino, non identificano più i confini di ciò che è vero e ciò che è falso. Quindi non hanno elementi per porsi delle domande, per comprendere i propri diritti, per decifrare la vita che vivono.

Le persone abboccano a tutto perché vivono immerse in una gigantesca ed efficace struttura di persuasione; pura propaganda travestita da verità oggettiva, democrazia, libertà, diritti civili. Così chi si pone dubbi e studia qualcosa in più oltre le tabelline coglie in controluce un sistema efferato di ingiustizie. Eleganti, ben narrate, ma bugie di una tempesta che è appena cominciata.

La conoscenza pubblica mai come in questa fase storica è plasmata dal potere.

Scrive saggiamente Monbiot: “La promessa della democrazia era che la vita di tutti sarebbe migliorata con la diffusione della conoscenza: avremmo trasformato una maggior comprensione del mondo in progresso sociale. Per un po’ ci siamo riusciti. Ora però quell’epoca sembra avviarsi alla fine…”

E come mai? La domanda sorge spontanea. Come mai la nostra democrazia sembra un fantoccio in mano a interessi spietati? Come mai anche il diritto internazionale, fiore all’occhiello di una visione progressista del mondo, è bombardato?  Purché svanisce il senso morale che ci animava a vantaggio di un’indifferenza pavida? Perché mai le persone festeggiano i successi dei miliardari anche se vanno a intaccare il bene comune di tutti?

Una parte fondamentale della crisi epistemica proviene dal potentissimo e cinico sistema di informazioni? Su questo Polemos tante volte abbiamo a parlato della libertà di stampa padronale, salvando i buoni cronisti che sono la spina dorsale delle speranze residue… Quante volte abbiamo posto l’accento sui proprietari dei mezzi di informazione e di comunicazione di massa? Chi ha in mano il potere delle informazioni? Persone molto molto ricche o loro accoliti.

“Se la democrazia è il problema che il capitale cerca sempre di risolvere, la propaganda è parte della soluzione”, aggiunge, ineccepibile, Monbiot.

E la crisi epistemica è così declinata: la diffusione della conoscenza, aiutando a comprendere il mondo, è terreno fertile per la democrazia. Al potere che è forte, cavolo se è forte, la strada del progresso sociale non conviene, quindi meglio fare a pezzi tutto, a suon di ferocia e narrazioni tossiche, in bilico tra persuasione e propaganda.

Gli interessi di pochi stanno uccidendo il pianeta.

da qui

venerdì 5 dicembre 2025

Verità? C'è il veto assoluto del governo sulle stragi, negato il mio contributo - Roberto Scarpinato

 

La giungla - Gian Luigi Deiana

la casa nel bosco, i "centri sociali" e la città surreale

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la vicenda della "casa nel bosco" ha il merito di aiutare lo sguardo a vedere, nel fondo, la reale condizione antropologica nella quale siamo oggi immersi: questa non è affatto una condizione felice, e il più delle volte nemmeno una condizione infelice; è piuttosto una condizione amorfa, disanimata e praticamente senza senso;

in assenza di felicità, almeno il sopravvenire episodico dell'infelicità potrebbe plasmare una pur effimera condizione di senso; ma è un auspicio ormai vano: con il senso della felicità anche il senso dell'infelicità si è ormai quasi dissolto, e con la dissoluzione dell'immedesimazione nel prossimo si è dissolto anche il senso di sè;

è il modello della "società liquida", quella liquefazione della condizione umana che è da ormai cento anni oggetto della riflessione filosofica, sociologica e anche religiosa: ma è del tutto assente dalla riflessione politica e dalla progettualità necessaria;

la testimonianza del pontificato di papa francesco è in questo senso esemplare; come lo fu a suo tempo lo sguardo di edgar allan poe sulla visione desolata da lui descritta nel racconto "l'uomo della folla"; ma la spiritualità, come la letteratura, sono spesso voci che bisbigliano in un deserto sopraffatto dal rumore;

non intendo qui mettermi in squadra sulla vicenda della "casa nel bosco", mentre intendo andare anche oltre e cioè tracciare un collegamento tematico con la controversia sorta tra il ministro dell'interno piantedosi e l'amministrazione comunale di bologna sui cosiddetti "collettivi" ovvero sui centri sociali, dei quali il ministro e il governo esigono lo scioglimento;

per azzardare questa connessione apparentemente incongrua (una famigliola in una vecchia cascina e i collettivi giovanili in una grande città) è necessario fare una operazione preliminare facile facile: andare per strada in un piccolo borgo qualsiasi, e riflettere sul fatto che non ci sono bambini, nè mamme, nè gente che gioca a tresette in un bar; oppure andare per strada in città, in pieno centro o in periferia, trovando come spiegazione sociologica della condizione giovanile reale la semplice cronaca quotidiana di un qualsiasi telegiornale, che ripete la scena dalla diffusione di risse, violenze fortuite, scene di stupro condivise su smartphone, coltelli, agguati, fughe e telecamere agli angoli di ogni strada; e interminabili caseggiati desolanti e desolati, e interminabile gente senza casa; l'abolizione della prospettiva, nel procedere amorfo dell'esistenza;

e dunque, la campagna, la grande esclusa da questa specie di giungla globale:

cosa stiamo pagando noi tutti, in termini antropologici, ecologici e spirituali, a causa della desertificazione della campagna, la grande madre che abbiamo abbandonato alla sua solitudine e alla sua oscurità salvo farne oggetto la domenica di idillici reportage sulla natura? è davvero così assurdo che la campagna, cioè lo spazio di mezzo tra i luoghi densamente abitati e la selva, torni ad essere abitata e a ridare vita ai suoi campi, alle sue sorgenti e ai suoi cascinali? è davvero così ragionevole che la nuova generazione non abbia potuto vedere altro al di fuori della forbice tra giungla urbana e inselvatichimento dell'ambiente naturale circostante? e il sistema dell'istruzione, giustamente configurato nella teoria come diritto-dovere, è nella pratica davvero incompatibile con una più ampia varietà del modo di "abitare"? si ha idea di cosa sia la complessità abitativa in luoghi estesi come la lapponia, e cosa siano i servizi scolastici in giro per la scandinavia, o in estremadura, o nelle isolette marginali?

devo confessare qui che dovrebbe venirmi da piangere, al solo pensiero che la mia generazione è stata qui praticamente l'ultima ad aver visto un grifone in volo, o una volpe o una traccia di scoiattolo, mentre un adolescente di oggi non ha mai potuto vedere un pulcino, o un agnello, o una mucca; ma purtroppo non riesco nemmeno più a piangerne;

e per andare ai margini del girone propriamente infernale, cioè le città vuote di anime e di senso e invase di telecamere e di crack, si ha idea di cosa diventerebbe tutto questo se davvero fossero sciolti anche gli spazi "collettivi" ancora resistenti? si ha idea della necessità di luoghi di vita come gli oratori di chiesa, le aule universitarie e i centri sociali, senza illudersi che a una vera pedagogia della socializzazione sia sufficiente l'obbligo scolastico?

e per andare specificamente al dunque:

siamo davvero certi che i "servizi sociali" dei piccoli centri, transitati nell'arco di una sola generazione dal tempo della vitalità di campagna al tempo dello spopolamento, siano oggi adeguati a questa complessità di problemi?

siamo davvero certi che la sensibilità spontanea, mossa per esempio dai "centri sociali" di città come bologna, o torino, o milano, contro lo scandalo politico di una partita di basket o di una gara ciclistica o di un festival di canzonette a cui possa partecipare la squadra di un paese impegnato in una guerra di genocidio, con tanto di tifoserie di stato e bandiere lavate di sangue, meriti un trattamento squisitamente militare con centinaia di agenti in tenuta antisommossa?

e per fare cosa, se non la giungla urbana ovvero un deserto sovrappopolato, ma popolato da chi, se non da persone cui è sociologicamente impedita una qualsivoglia dimensione utile a intravvedere una propria dignità di destino?

((dedicato ad hansel e gretel, a pinocchio e alla fata, a biancaneve e alla strega, a cappuccetto rosso e alla nonna, ad alice e al paese delle meraviglie)).

da qui