Slec
La Libertà Non Sta Nello Scegliere Tra Bianco E Nero, Ma Nel Sottrarsi A Questa Scelta Prescritta. (Theodor W.Adorno)
mercoledì 26 marzo 2025
Il capitalismo è l’assassino - Raúl Zibechi
In modo così metodico e completo, quale altro sistema ha dichiarato guerra all’umanità? Quale altro sistema pratica sistematicamente genocidi e stermini di intere porzioni di giovani, donne e bambini? Che ruolo giocano gli Stati e i governi che li amministrano, che non possono e non vogliono fermare la violenza contro i popoli e le persone? È tempo di dare un nome a questo sistema: capitalismo. Dobbiamo capire che la violenza non ha altro obiettivo che l’accumulazione accelerata di capitale. Per fare questo spostano e sterminano quei settori che ostacolano l’arricchimento dell’uno per cento.
Non si
tratta di eventi o errori isolati, ma di un disegno che si sta perfezionando negli ultimi decenni e che più
recentemente abbiamo visto svolgersi in tutta la sua grandezza, nella vasta
geografia che va da Gaza al Messico, come dimostrano i bombardamenti
indiscriminati contro scuole e ospedali, come dimostrano i forni crematori di
Teuchitlán (Messico).
Osserviamo lo stesso modello con alcune varianti in altre geografie del Medio Oriente, e in modo molto particolare nei territori delle
popolazioni indigene e nere, dal Wall
Mapu (storico territorio mapuche in Cile) al Chiapas. Nel sud dell’Argentina, i grandi imprenditori
bruciano le foreste mentre lo Stato non le spegne, criminalizza il popolo
mapuche e sfolla le comunità per trarre profitto dalle loro terre. L’alleanza
tra lo Stato, la comunità imprenditoriale e le sue milizie, i media mainstream
e la giustizia, è lubrificata dalla presenza dei soldati israeliani in quei
territori.
La
popolazione attorno alla miniera di Chicomuselo, in Chiapas, è testimone
dell’alleanza tra Stato, affari, paramilitari e criminalità organizzata, con
l’unico obiettivo di sfollare e controllare la popolazione che ostacola
l’espansione del business di distruzione della Madre Terra, per convertire i
beni comuni in merci.
Troviamo
modi molto simili quando la Polizia
Militare brasiliana entra nelle favelas, quando bande
narcoparamilitari armate attaccano il popolo Garifuna in Honduras; i corpi repressivi che
sparano da elicotteri da combattimento sulle folle mobilitate nella regione
andina del Perù, e tanti
altri casi impossibili da descrivere in questo spazio.
Non illudiamoci: non si tratta di eccessi o deviazioni specifiche, ma di
un vasto progetto di militarizzazione a quattro mani (forze armate e di
polizia, giudici, governanti e criminalità organizzata), che sostiene le
imprese estrattive. Quando
vediamo madri e guerrieri della ricerca usare le proprie mani perché non hanno
risorse, ma sono comunque in grado di portare alla luce l’orrore, non possiamo
fare a meno di capire che le autorità si sono messe al servizio di questa guerra
di esproprio, garantendo l’impunità ai responsabili.
Il dolore e solo il dolore è la fonte della conoscenza. Non possiamo dimenticare
quando i genitori degli studenti di Ayotzinapa lanciarono lo slogan “È stato lo
Stato”, fatto con il sangue dei loro figli e con torture psicologiche sia per
la loro assenza che per il modo in cui furono fatti sparire.
Ora quel
dolore ci dice che siamo di fronte a una rete criminale capace delle più grandi
atrocità, come ha sottolineato giorni fa il giornalista messicano Jonathan
Ávila, del CEPAD (adondevanlosdesaparecidos.org).
Sappiamo che non c’è e non ci sarà la volontà politica di fermare la
violenza dall’alto. Quindi la domanda è: cosa dobbiamo fare? Perché i movimenti, le persone e la
società nel suo complesso facciano ciò che chi sta al vertice non vuole fare.
Perché per fermare la violenza c’è
una sola cosa: porre fine a questo sistema capitalista predatorio e genocida che
considera gli Adelitas, i Panchos e gli Emilianos (i poveri dal basso) come
suoi nemici.
Il primo punto è capire che siamo tutti nel mirino del capitale. Negli anni Settanta, se eri un
guerrigliero, uno studente, un operaio o un contadino organizzato che
combatteva, venivi fatto sparire. Questa logica è cambiata radicalmente. Ora,
il semplice fatto di esistere, respirare e vivere come una persona dal basso
verso l’alto ti rende una potenziale vittima. Ecco perché è più che mai necessario gridare: siamo tutti Ayotizinapa.
Siamo tutti Gaza. Siamo tutti Teuchitlán.
Il secondo è seguire l’esempio dei ricercatori e dei guerrieri.
Organizzarci. Mettiamo il corpo, le mani e il cuore. Uniti, spalla a spalla,
per proteggere e salvare i nostri cari, diventando barricate collettive per fermare la
barbarie, cioè i barbari. Non esiste altra via, nessuna scorciatoia, nessuna
legge, nessun governante
proteggerà le nostre vite nel mezzo dello sterminio.
Capisco che si tratta di lezioni molto difficili ed estreme, che
implicano il superamento della paura, della solitudine, degli insulti e, cosa
ancora peggiore, dell’indifferenza e dei tentativi di trarre profitto politico
e materiale dal nostro dolore. Ma dobbiamo essere chiari: non possiamo
aspettarci altro che i nostri sforzi collettivi, qui e ora, finché potremo.
martedì 25 marzo 2025
Allegoria della politica – Giorgio Agamben
Siamo tutti all’inferno, ma alcuni sembrano pensare che non ci sia qui altro da fare che studiare e descrivere minuziosamente i diavoli, il loro orrido aspetto, i loro feroci comportamenti, le loro infide trame. Forse si illudono in questo modo di poter scampare all’inferno e non si rendono conto che ciò che li occupa interamente non è che la peggiore delle pene che i diavoli hanno escogitato per tormentarli. Come il contadino della parabola kafkiana, essi non fanno che contare le pulci sul bavero del guardiano. Va da sé che nemmeno sono nel giusto coloro che all’inferno passano invece il loro tempo a descrivere gli angeli del paradiso – anche questa è una pena, in apparenza meno crudele, ma non meno odiosa dell’altra.
La vera politica sta tra queste due pene. Essa comincia innanzitutto col sapere
dove ci troviamo e che non ci è dato sfuggire così facilmente alla macchina
infernale che ci circonda. Dei demoni e degli angeli sappiamo quello che c’è da
sapere, ma sappiamo anche che è con una fallace immaginazione del paradiso che
è stato costruito l’inferno e che a ogni consolidamento delle mura dell’Eden fa
riscontro un approfondimento dell’abisso della Gehenna. Del bene conosciamo
poco e non è un tema che possiamo approfondire; del male sappiamo soltanto che
siamo stati noi stessi a costruire la macchina infernale con cui ci
tormentiamo. Forse una scienza del bene e del male non è mai esistita e
comunque qui e ora non c’interessa. La vera conoscenza non è una scienza – è,
piuttosto, una via di uscita. Ed è possibile che questa coincida oggi con una
tenace, lucida, svelta resistenza sul posto.
lunedì 24 marzo 2025
Mi chiamo Mahmoud, sono un prigioniero politico - Mahmoud Khalil
Mi chiamo Mahmoud Khalil e sono un prigioniero politico. Vi scrivo da un centro di detenzione in Louisiana, dove mi sveglio al freddo del mattino e trascorro lunghe giornate a testimoniare le silenziose ingiustizie in atto nei confronti di moltissime persone a cui è preclusa la tutela della legge.
Chi ha il
diritto di avere diritti? Non sono certo gli esseri umani ammassati in queste
celle. Non è l’uomo senegalese che ho incontrato e che è stato privato della
sua libertà per un anno, con la sua situazione legale in un limbo e la sua
famiglia a un oceano di distanza. Non è il detenuto ventunenne che ho
incontrato, che ha messo piede in questo paese all’età di nove anni, per poi
essere deportato senza nemmeno un’udienza.
La giustizia
sfugge ai contorni delle strutture di immigrazione di questa nazione.
L’8 marzo
sono stato preso da agenti del Department of Homeland Security che si sono
rifiutati di fornire un mandato e hanno avvicinato me e mia moglie mentre
tornavamo da una cena. Il filmato di quella notte è stato reso pubblico. Prima
che mi rendessi conto di ciò che stava accadendo, gli agenti mi hanno
ammanettato e costretto a salire su un’auto senza contrassegni. In quel
momento, la mia unica preoccupazione era la sicurezza di [mia moglie] Noor. Non
sapevo se sarebbe stata portata via anche lei, visto che gli agenti avevano
minacciato di arrestarla per non avermi abbandonato. Il DHS non mi ha detto
nulla per ore: non sapevo la causa del mio arresto né se rischiavo la
deportazione immediata. Al 26 di Federal Plaza ho dormito sul pavimento freddo.
Nelle prime ore del mattino, gli agenti mi hanno trasportato in un’altra
struttura a Elizabeth, nel New Jersey. Lì ho dormito per terra e mi è stata
rifiutata una coperta nonostante la mia richiesta.
Il mio
arresto è stato una conseguenza diretta dell’esercizio del mio diritto alla
libertà di parola, mentre
sostenevo la necessità di una Palestina libera e la fine del genocidio a Gaza,
che è ripreso in pieno nella notte di lunedì (17 marzo). Con il cessate il
fuoco di gennaio ormai infranto, i genitori di Gaza stanno di nuovo cullando
sudari troppo piccoli e le famiglie sono costrette a scegliere tra fame e
sfollamento e le bombe. È nostro imperativo morale continuare a lottare per la
loro completa libertà.
Sono nato in
un campo profughi palestinese in Siria da una famiglia sfollata dalla propria
terra durante la Nakba del 1948. Ho trascorso la mia giovinezza in prossimità
ma lontano dal mio paese. Ma essere palestinese è un’esperienza che trascende i
confini. Vedo nelle
mie circostanze analogie con l’uso da parte di Israele della detenzione
amministrativa – imprigionamento senza processo o accusa – per privare i
palestinesi dei loro diritti. Penso al nostro amico Omar Khatib, che è stato
incarcerato senza accusa né processo da Israele mentre tornava a casa dopo un
viaggio. Penso al direttore dell’ospedale di Gaza e pediatra Dr. Hussam Abu
Safiya, che è stato fatto prigioniero dall’esercito israeliano il 27 dicembre e
che oggi rimane in un campo di tortura israeliano. Per i palestinesi,
l’imprigionamento senza un giusto processo è una prassi comune.
Ho sempre
creduto che il mio dovere non sia solo quello di liberarmi dall’oppressore, ma
anche di liberare i miei oppressori dall’odio e dalla paura. La mia ingiusta detenzione è
indicativa del razzismo anti-palestinese che sia l’amministrazione Biden sia
quella di Trump hanno dimostrato negli ultimi sedici mesi, quando gli Stati
Uniti hanno continuato a fornire a Israele armi per uccidere i palestinesi e
hanno impedito ogni intervento internazionale. Per decenni, il razzismo
anti-palestinese ha guidato gli sforzi per espandere le leggi e le pratiche
statunitensi utilizzate per reprimere violentemente i palestinesi, gli arabi
americani e altre comunità. È proprio per questo che sono stato preso di mira.
Mentre
attendo decisioni legali che tengono in bilico il futuro di mia moglie e di mio
figlio, coloro che hanno permesso che venissi preso di mira rimangono
comodamente alla Columbia University. I presidenti Shafik, Armstrong e il
rettore Yarhi-Milo hanno gettato le basi perché il governo degli Stati Uniti mi
prendesse di mira, disciplinando arbitrariamente gli studenti filopalestinesi e
permettendo che la delazione virale – basata sul razzismo e sulla disinformazione
– si svolgesse senza controllo.
La Columbia
mi ha preso di mira per il mio attivismo, creando un nuovo ufficio disciplinare
autoritario per aggirare il giusto processo e mettere a tacere gli studenti che
criticano Israele. La Columbia si è arresa alle pressioni federali divulgando i
dati di studenti e studentesse al Congresso e cedendo alle ultime minacce
dell’amministrazione Trump. Il mio arresto, l’espulsione o la sospensione di
almeno 22 studenti di Columbia – ad alcuni è stata tolta la laurea a poche
settimane dal diploma – e l’espulsione del presidente della Student Workers of
Columbia, Grant Miner, alla vigilia delle trattative contrattuali, ne sono
chiari esempi.
Se non
altro, la mia detenzione è una testimonianza della forza del movimento
studentesco nello spostare l’opinione pubblica in favore della liberazione
della Palestina. Studenti
e studentesse sono stati a lungo in prima linea nel cambiamento: hanno guidato
la carica contro la guerra del Vietnam, sono stati in prima linea nel movimento
per i diritti civili e hanno guidato la lotta contro l’apartheid in Sudafrica.
Anche oggi, sebbene l’opinione pubblica non l’abbia ancora compreso appieno,
sono studenti e studentesse a guidarci verso la verità e la giustizia.
L’amministrazione
Trump mi sta prendendo di mira come parte di una strategia più ampia per
reprimere il dissenso. I titolari di un visto, i titolari di una green
card e i cittadini saranno tutti presi di mira per le loro convinzioni
politiche. Nelle prossime settimane, studenti, sostenitori e funzionari eletti
devono unirsi per difendere il diritto di protestare per la Palestina. In
gioco non ci sono solo le nostre voci, ma le libertà civili fondamentali di
tutti.
Sapendo che
questo momento trascende le mie circostanze individuali, spero comunque di
essere libero di assistere alla nascita del mio primo figlio.
Questa
lettera è stata dettata per telefono dal centro di detenzione ICE (l’agenzia
federale per il controllo dell’immigrazione e delle dogane) in Louisiana, da
Mahmoud Khalil, dove si trova dopo l’arresto dell’8 marzo. Khalil, nato in
Siria da rifugiati palestinesi, è stato figura chiave nelle proteste alla Columbia University contro la guerra a Gaza
nella primavera del 2024. Traduzione di Connessioniprecarie (che
ringraziamo).
Genocidio inarrestato
L’Ultimo Capitolo del Genocidio - Chris Hedges
Israele ha iniziato la fase finale del suo Genocidio. I palestinesi saranno
costretti a scegliere tra la morte o la deportazione. Non ci sono altre
opzioni.
Questo è l’ultimo capitolo del
Genocidio. È l’ultima, sanguinosa spinta per cacciare i palestinesi da Gaza.
Niente cibo. Niente medicine. Niente riparo. Niente acqua pulita. Niente
elettricità. Israele sta rapidamente trasformando Gaza in un Girone dantesco di
miseria umana dove i palestinesi vengono uccisi a centinaia e velocemente, di
nuovo, a migliaia e decine di migliaia, o saranno costretti ad andarsene per
non tornare mai più.
L’ultimo capitolo segna la fine
delle bugie israeliane. La bugia della Soluzione dei Due Stati. La bugia che
Israele rispetta le leggi di guerra che proteggono i civili. La bugia che
Israele bombarda ospedali e scuole solo perché vengono usati come rifugi da
Hamas. La bugia che Hamas usa i civili come scudi umani, mentre Israele
costringe sistematicamente i palestinesi prigionieri a entrare in tunnel e
edifici potenzialmente pieni di trappole prima delle truppe israeliane. La
bugia che Hamas o la Jihad Islamica Palestinese sono responsabili (l’accusa è
spesso quella di lancio di razzi) della distruzione di ospedali, edifici delle
Nazioni Unite o Uccisione di Massa di palestinesi. La bugia che gli aiuti umanitari
a Gaza sono bloccati perché Hamas sta dirottando i camion o contrabbandando
armi e materiale bellico. La bugia che i bambini israeliani vengono decapitati
o che i palestinesi hanno compiuto stupri di massa di donne israeliane. La
bugia che il 75% delle decine di migliaia di persone uccise a Gaza erano
“terroristi” di Hamas. La bugia che Hamas, poiché si presumeva stesse riarmando
e reclutando nuovi combattenti, è responsabile della rottura dell’accordo di
cessate il fuoco.
Il volto Genocida di Israele è a
nudo. Ha ordinato l’evacuazione della parte settentrionale di Gaza dove
palestinesi disperati sono accampati tra le macerie delle loro case. Ciò che
sta per arrivare è una Carestia di Massa: l’Agenzia delle Nazioni Unite per il
Soccorso e l’Impiego dei Rifugiati Palestinesi nel Vicino Oriente (UNRWA) ha
dichiarato il 21 marzo di avere ancora sei giorni di scorte di farina, morti
per malattie causate da acqua e cibo contaminati, decine di morti e feriti ogni
giorno sotto l’implacabile assalto di bombe, missili, fuoco di carri armati e
proiettili di artiglieria. Niente funzionerà, panetterie, impianti di
trattamento delle acque e fognature, ospedali (Israele ha fatto saltare in aria
l’Ospedale Turco-Palestinese danneggiandolo il 21 marzo), scuole, centri di
distribuzione degli aiuti o cliniche. Meno della metà dei 53 veicoli di
emergenza gestiti dalla Mezzaluna Rossa Palestinese sono funzionanti a causa
della carenza di carburante. Presto non ce ne sarà più nessuno.
Il messaggio di Israele è inequivocabile:
Gaza sarà inabitabile. Andatevene o morite.
Da martedì, quando Israele ha rotto
il cessate il fuoco con pesanti bombardamenti, sono stati uccisi oltre 700
palestinesi, tra cui 200 bambini. In un periodo di 24 ore sono stati uccisi 400
palestinesi. Questo è solo l’inizio. Nessuna potenza occidentale, compresi gli
Stati Uniti, che forniscono le armi per il Genocidio, intende fermarlo. Le
immagini da Gaza durante i quasi sedici mesi di attacchi incessanti erano
orribili. Ma ciò che sta arrivando ora sarà peggio. Rivaleggerà con i Crimini
di Guerra più atroci del ventesimo secolo, tra cui la Carestia di Massa, il
Massacro, e la distruzione del Ghetto di Varsavia nel 1943 da parte dei
Nazisti.
Il 7 ottobre ha segnato la linea di
demarcazione tra una politica israeliana che sosteneva la Brutalizzazione e la
Sottomissione dei palestinesi e una politica che ne richiedeva lo Sterminio e
l’allontanamento dalla Palestina Storica. Ciò a cui stiamo assistendo è
l’equivalente storico del momento innescato dall’annientamento di circa 200
soldati guidati da George Armstrong Custer nel giugno 1876 nella Battaglia di
Little Bighorn. Dopo quella sconfitta umiliante, i nativi americani erano
destinati a essere uccisi e i superstiti costretti nei campi di prigionia, in
seguito denominati Riserve, dove migliaia di persone morirono di malattia,
vissero sotto lo sguardo spietato dei loro occupanti armati e caddero in una
vita di miseria e disperazione. Aspettatevi lo stesso per i palestinesi di
Gaza, abbandonati, sospetto, in uno degli inferni del mondo e dimenticati.
“Abitanti di Gaza, questo è il
vostro ultimo avvertimento”, ha minacciato il Ministro della Difesa israeliano Israel Katz:
“La prima guerra del Sinwar
distrusse Gaza e la seconda guerra del Sinwar la distruggerà completamente. Gli
attacchi dell’Aviazione Militare contro i terroristi di Hamas sono stati solo
il primo passo. Diventerà molto più difficile e ne pagheranno il prezzo per
intero. L’evacuazione della popolazione dalle zone di combattimento ricomincerà
presto. Restituite gli ostaggi e rimuovete Hamas e altre opzioni si apriranno
per voi, inclusa la partenza per altri posti nel mondo per coloro che lo
desiderano. L’alternativa è la distruzione assoluta”.
L’accordo di cessate il fuoco tra
Israele e Hamas è stato progettato per essere implementato in tre fasi. La
prima fase, della durata di 42 giorni, avrebbe visto la fine delle ostilità.
Hamas avrebbe rilasciato 33 ostaggi israeliani catturati il 7 ottobre 2023,
tra cui donne, persone di età superiore ai 50 anni e persone malate, in cambio
di oltre 2.000 uomini, donne e bambini palestinesi imprigionati da Israele
(circa 1.900 prigionieri palestinesi sono stati rilasciati da Israele al 18
marzo). Hamas ha rilasciato un totale di 147 ostaggi, di cui otto morti. Israele
afferma che ci sono 59 israeliani ancora trattenuti da Hamas, 35 dei quali
Israele ritiene siano deceduti.
L’esercito israeliano si avrebbe
dovuto ritirarsi dalle aree popolate di Gaza il primo giorno del cessate il
fuoco. Il settimo giorno, ai palestinesi sfollati sarebbe stato consentito di
tornare nel Nord di Gaza. Israele avrebbe consentito a 600 camion di aiuti con
cibo e forniture mediche di entrare a Gaza ogni giorno.
La seconda fase, che si prevedeva
sarebbe stata negoziata il sedicesimo giorno del cessate il fuoco, contemplava
il rilascio degli ostaggi israeliani rimanenti. Israele si sarebbe ritirato da
Gaza mantenendo una presenza in alcune parti del Corridoio Filadelfia, che si
estende lungo il confine di otto miglia tra Gaza ed Egitto, rinunciando al suo
controllo del valico di frontiera di Rafah verso l’Egitto.
Nella terza fase si sarebbero
avviati negoziati per una fine permanente della guerra e la ricostruzione di
Gaza.
Israele firma abitualmente accordi,
tra cui gli Accordi di Camp David e gli Accordi di pace di Oslo, con calendari
e fasi. Ottiene ciò che vuole, in questo caso il rilascio degli ostaggi, nella
prima fase e poi viola le fasi successive. Questo schema non è mai stato
interrotto.
Israele ha rifiutato di onorare la
seconda fase dell’accordo. Ha bloccato gli aiuti umanitari a Gaza due settimane
fa, violando l’accordo. Ha anche ucciso almeno 137 palestinesi durante la prima
fase del cessate il fuoco, tra cui nove persone, tre delle quali giornalisti,
quando i droni israeliani hanno attaccato una squadra di soccorso il 15 marzo a
Beit Lahiya nel Nord di Gaza
I pesanti attacchi di bombardamento
di Gaza da parte di Israele sono ripresi il 18 marzo mentre la maggior parte
dei palestinesi dormiva o preparava il suhoor, il pasto consumato prima
dell’alba durante il mese sacro del Ramadan. Israele non fermerà i suoi
attacchi ora, anche se gli ostaggi rimanenti verranno liberati, presunta
ragione di Israele per la ripresa dei bombardamenti e dell’assedio di Gaza.
La Casa Bianca di Trump applaude al
Massacro. Attaccano i critici del Genocidio come “antisemiti” che dovrebbero
essere messi a tacere, criminalizzati o deportati mentre incanalano miliardi di
dollari in armi verso Israele.
L’assalto Genocida di Israele a Gaza
è l’inevitabile epilogo del suo Progetto Coloniale di Coloni e dello Stato di
Apartheid. La conquista di tutta la Palestina Storica, con la Cisgiordania che
presto, mi aspetto, sarà annessa da Israele, e lo sfollamento di tutti i
palestinesi è sempre stato l’obiettivo Sionista.
I peggiori eccessi di Israele si
sono verificati durante le guerre del 1948 e del 1967, quando vaste parti della
Palestina Storica furono conquistate, migliaia di palestinesi uccisi e
centinaia di migliaia furono sottoposti a Pulizia Etnica. Tra queste guerre, il
furto di terre progressivo, gli assalti omicidi e la costante Pulizia Etnica in
Cisgiordania, inclusa Gerusalemme Est, sono continuati.
Quella danza calibrata è finita.
Questa è la fine. Ciò a cui stiamo assistendo eclissa tutti gli attacchi
storici ai palestinesi. Il folle Sogno Genocida di Israele, un incubo
palestinese, sta per realizzarsi. Distruggerà per sempre il mito che noi, o
qualsiasi nazione occidentale, rispettiamo lo Stato di Diritto o siamo i
protettori dei Diritti Umani, della Democrazia e delle cosiddette “virtù” della
civiltà occidentale. La Barbarie di Israele è la nostra Barbarie. Potremmo non
capirlo, ma il resto del mondo sì.
Traduzione: Beniamino Rocchetto –
Invictapalestina.org
Genocidio lento - Enrico Campofreda
Israele, non Netanyahu, ne ammazza quattrocento in un
colpo solo. Non gliene bastavano cinquantamila, che invece sono molti di più,
perché di tanti i cadaveri non sono conteggiati. Si stanno decomponendo sotto i
pilastri di cemento abbattuti coi supercolpi, simili a quello di stanotte. Armi
letali, armi bestiali come chi le usa, chi le comanda, chi le giustifica, chi a
casa nostra e nel mondo - fra le anime belle del politicamente corretto e
oggettivamente corrotto - ha venduto l’anima all’unico Dio riconosciuto: lo
sterminio. Parlano degli attuali demoni della geopolitica i Soloni della
comunicazione, omettendo, tralasciando, dimenticando volontariamente l’infinita
scia di sangue dietro cui si parano tanti ‘incorporati’ della notizia.
Scrivendo e descrivendo tutto il bene della Civiltà e tutto il male del
Terrore. Categorie che stanno fra i civili d’Israele, parenti delle vittime del
raid del 7 ottobre e fra i civili della Striscia resi incivili da chi decide
per loro di combattere, tenendoli bloccati fra le macerie, rendendoli presto
cadaveri. Le bombe piovono sui diseredati di Gaza: la colpa è di Hamas che
non restituisce i prigionieri. Davanti a una telecamera un padre, né giovane né
vecchio, urla: Ci stanno massacrando, cosa fa il mondo? E’ un
già sentito, un già vissuto. Il mondo non vuole fare nulla, chi è debole deve
soccombere. Non ha speranze. Con l’ipocrisia che gli appartiene, il mondo che
comanda il mondo decide dove spegnere le bocche di fuoco, chi salvare e quando,
dopo aver bruciato vite per un po’. In quella fetta di Terra ch’era la
Palestina, questa formula non vale. Si vuole continuare a sterminare, non c’è
America rossa o blu a differenziare. C’è il nero d’Israele, da ottant’anni
padrone di buio e lutti.
I vampiri di Tel Aviv e la loro (miserabile) corte - Patrizia Cecconi
A Gaza è strage indifferenziata di uomini donne vecchi
e bambini, cosa che ricorda le stragi di Marzabotto o di Sant’Anna di Stazzema
che i nazisti commisero in Italia. Ma a dirlo ci vuole onestà intellettuale,
quella che manca alla miserabile corte di politici e operatori mediatici proni
allo 0,04% che governa il mondo e che calpesta, fino a distruggerlo, il Diritto
internazionale.
Cinque
giorni fa ricevevo dalla tendopoli di Al Mawasi un brevissimo video, dieci
secondi di allegra, vitale euforia infantile che solo chi ha passato molto
tempo tra la gente di Gaza è in grado di capire che quei secondi di risate,
volteggi e passi di danza in mezzo alla devastazione non sono incoscienza
infantile, ma la rappresentazione più vicina allo spirito dei gazawi, adulti
compresi. Quell’incredibile, addirittura folle capacità di trovare vita in
mezzo alla morte e guizzi di allegria in mezzo al dolore. I bimbi che uscivano
ballando dalla tenda andavano all’iftar, il pasto che durante il mese sacro del
Ramadan si fa dopo il tramonto e chiude il digiuno diurno.
Poi, sempre durante il Ramadan, prima dell’alba si fa una colazione il più
possibile abbondante e poi più nulla, né acqua, né cibo e neanche fumo fino al
successivo tramonto. Quella notte, mentre i bambini dormivano prima di essere
svegliati per la colazione, sono entrati in azione i vampiri di Tel Aviv e, forti
dell’autorizzazione del criminale che siede alla Casa Bianca e che ha
sostituito con fiero bullismo il criminale che lo ha preceduto, in poche ore
hanno assassinato 412 palestinesi tra cui 130 bambini ai quali si sarebbero
aggiunti altri circa 400 martiri di ogni età nei giorni successivi.
L’intesa tra mostri ha funzionato e la Striscia di Gaza si è impregnata di
altro sangue palestinese.
Via libera anche alla totale demolizione dell’unico ospedale oncologico ancora
parzialmente funzionante e via libera all’operazione di terra, locuzione
ipocrita la cui traduzione è “strage indifferenziata di uomini donne vecchi e
bambini”, cosa che ricorda le stragi di Marzabotto o di Sant’Anna di Stazzema
che i nazisti commisero in Italia. Ma a dirlo ci vuole onestà intellettuale,
quella che manca alla miserabile corte di politici e operatori mediatici proni
allo 0,04% che governa il mondo e che calpesta, fino a distruggerlo, il Diritto
internazionale.
Tace o addirittura approva, la corte dei potenti, come del resto si addice a
ogni fedele cortigiano. Chiunque sia in grado di intendere sa che lo Stato
terrorista guidato dalla banda Netanyahu, senza l’enorme quantitativo di
micidiali armi degli USA e dei suoi vassalli, non avrebbe potuto compiere il
genocidio di Gaza e sa anche che senza il placet USA di poche notti fa il
vampiro di Tel Aviv sarebbe stato costretto a fingere di rispettare la tregua e
limitarsi solo a qualche assassinio quotidiano che i suoi supporter mediatici e
politici neanche hanno degnato di attenzione perché tanto il sangue palestinese
fa notizia – relativa, s’intende – solo quando scorre a fiumi.
Quindi, quando il bullo della Casa bianca, assecondando le lobby sioniste che
indirizzano la politica USA in senso pro Israele, ha dato il nulla osta al
nuovo sterminio, l’esercito più accanito del mondo si è scatenato su adulti e
bambini ancora addormentati tempestandoli vigliaccamente di bombe dal cielo,
senza correre neanche il rischio di sporcarsi l’uniforme.
Dei tre
bambini che ridevano e ballavano nel video di poche ore prima dell’infame raid
non c’è più traccia. I media nostrani asserviti a Israele, cioè quasi tutti
tranne rare e pregevoli eccezioni, usano tattiche diverse per ridurre o
addirittura nascondere l’essenza terroristica, disumana, illegale, razzista e
coloniale dell’entità sionista cui offrono i loro servigi. Alcuni scelgono la
via del silenzio totale tipico degli omertosi; altri quella del silenzio degli
infami, cioè tacere una parte dell’accaduto e amplificarne un’altra spacciando in
tal modo per verità una menzogna ben costruita.
Altri ancora, soprattutto tra i media televisivi, scelgono la tattica della
notizia asettica per di più non citata tra i titoli e relegata dopo l’ultimo
caso di cronaca. La notizia asettica non crea empatia, per cui 50.000 morti
palestinesi sono solo un numero, figuriamoci 500! mentre nel servizio di pochi
minuti prima 2 morti ucraini creavano commozione almeno quanto il racconto del
tormento dei familiari di 59 ostaggi israeliani verso i quali i vari inviati,
scegliendo avverbi, aggettivi e toni tutt’altro che asettici, creano ben più
empatia dello sterminio di intere famiglie palestinesi di 10, 15 o più persone
schiacciate durante il sonno o durante l’ennesima evacuazione imposta con
sadismo e crudeltà dai vampiri di Tel Aviv.
E’ ben più che doppio standard questa abituale tecnica comunicativa, è la
manifestazione di un male oscuro difficile da ammettere da parte di chi ne è
portatore, ma indiscutibilmente chiaro ad un’osservazione minimamente attenta.
Non è neanche solo servilismo, è miserabile razzismo.
Lo stesso
razzismo che a politici di cui non andar fieri, come ad esempio il ministro
Tajani, fa dire di essere sempre e comunque dalla parte di Israele (ma perché?)
o che non fa percepire al presidente Mattarella l’indecenza di accogliere con
tutti gli onori il presidente israeliano Herzog, quello che firmava
orgogliosamente i missili destinati a smembrare adulti e bambini palestinesi.
Lo stesso Mattarella che, evidentemente privo del senso del ridicolo, mentre
non ha nulla da eccepire rispetto a orrendi crimini e continue violazioni della
legalità internazionale commessi dall’entità sionista, rivolgendosi alla Russia
esclama con solenne severità: “la Russia rispetti il diritto internazionale!”
Lo stesso razzismo che impedisce a politici e giornalisti di vedere i segni
delle torture sui corpi dei prigionieri politici palestinesi, ma che induce gli
stessi a stringersi intorno a Israele “sconvolto” per la magrezza di alcuni
degli ostaggi rilasciati, senza però sconvolgersi della morte per fame di
bimbi palestinesi causata consapevolmente e scientemente da Israele. Lo stesso
razzismo che si palesa nel silenzio che accompagna le violazioni dei luoghi di
culto palestinesi, sia cristiani sia, soprattutto, musulmani distrutti per
disprezzo e per umiliare un popolo fin nel suo credo religioso. Lo stesso
razzismo che fa accettare a questa miserabile corte il suprematismo israeliano
e che fino a poco tempo fa gli faceva disprezzare gli ebrei non sentendoli come
membri a tutti gli effetti dell’occidente.
E mentre Israele bombarda ovunque voglia, dal Libano alla Siria, da Gaza alla
Cisgiordania forte del consenso, della complicità e delle armi fornitegli dai
suoi protettori e dai suoi valletti, le famiglie degli ostaggi manifestano
contro le decisioni governative sapendo bene che ogni bomba è una possibilità
di morte anche per i loro cari. Ma Bibi il vampiro sa che a mantenerlo vivo sul
suo scranno è solo il sangue palestinese e quindi ordina al suo lugubre esercito
di procedere col genocidio intensificandolo con operazioni di terra, tanto
l’esercito mediatico internazionale seguiterà a sostenerlo senza vergogna, al
pari dei politici eticamente corrotti che gli assicurano fedeltà e che non si
scompongono neanche davanti alle minacce del criminale ministro Katz di
distruggere ogni forma di vita gazawa se non gli verranno consegnati insieme
agli ultimi ostaggi anche i membri di Hamas.
Quanti
italiani – e non solo – sono morti durante l’occupazione nazi-fascista per non
aver consegnato i partigiani al nemico? E quanti ne sono morti per aver
nascosto gli ebrei allora perseguitati da quello stesso nemico? Inutile
ricordarlo ai vigliacchi e agli opportunisti che si riempiono la bocca di
“antifascismo” e intanto sostengono il fascismo sionista. Direbbero che non è
paragone pertinente. Inutile anche ricordare loro che i combattenti per la
libertà sono sempre stati sviliti dal nemico con l’attribuzione
dell’appellativo di banditi o di terroristi per evitare che l’opinione pubblica
li consideri per quel che realmente sono: resistenti da onorare per la
loro lotta contro l’occupazione.
Ma ai
cortigiani non importa neanche che i dati ufficiali dell’ONU abbiano rilevato
che in Cisgiordania in quest’ultimo periodo siano stati assassinati circa 1.000
palestinesi, feriti oltre 7.000, rapiti e tratti in arresto senz’altra accusa
che quella di essere palestinesi, centinaia e centinaia di inermi di ogni età,
né che ne siano stati forzatamente evacuati circa 40.000 per soddisfare le
mire annessionistiche di “Eretz Israel”. All’entità sionista tutto è concesso e
se c’è un colpevole, per i cortigiani, non è certo l’IDF, non è certo Netanyahu
che viene accolto con tutti gli onori ignorando il mandato d’arresto della
Corte Penale Internazionale; non è nemmeno il fascista Smotrich o il
neonazi Ben Gvir. Il colpevole, ci dicono perfino le sedicenti femministe di
Trieste, è uno solo. Ha un nome astratto che però sciocchi, opportunisti e
cortigiani non pronunciano: “resistenza”, e un nome proprio che
viene regolarmente seguito o preceduto dall’aggettivo “terrorista”: Hamas.
E la coazione a ripetere funziona: ometti da bar dello sport e donnine da “la
politica è una cosa sporca” fanno l’eco ai cortigiani che appaiono in Tv e per
la logica del gregge va bene così.
Ma se si è fuori dal gregge e soprattutto fuori dalla sua logica, la resistenza
palestinese la si vede per quel che è, e le sue azioni, comprese quelle
armate, vanno contestualizzate e analizzate senza invertire i tempi tra azione
e reazione. Erano azioni di resistenza armata quelle compiute dal braccio militare
di Fatah o dal Fronte popolare quando Hamas era ancora un’associazione benefica
che si occupava di asili e di ospedali, così come lo sono quelle compiute in
seguito dal braccio armato di Hamas. Si potrebbero citare pensatori religiosi
cristiani oltre che pensatori laici per ricordare che amare la giustizia
comporta combattere l’ingiustizia, e cos’è se non l’essenza dell’ingiustizia
l’occupazione israeliana della Palestina con tutto il corollario di crimini che
si susseguono da quasi un secolo? Di conseguenza, chiedere ad Hamas di
consegnare le armi equivale a chiedergli di consegnare Gaza a Israele. O
direttamente o per interposta persona, come invita a fare il partito di Abu
Mazen che intima ad Hamas di cedere il potere e abbandonarsi all’occupante. Saranno
le capacità e i rapporti di forza tra i palestinesi a stabilire cosa fare
per avere una possibilità, sebbene remota, di vittoria e di riscatto del popolo
palestinese, ma di certo la divisione tra le due forze maggiormente
rappresentative fa gioco all’oppressore, ce lo insegna la storia. Dalle antiche
guerre tra greci e persiani fino ad oggi l’unico dato immutabile è stato
il divide et impera, e chi impera – o direttamente o con un re
fantoccio – è sempre chi ha diviso e non chi si è lasciato dividere. Lo
sanno sia i vampiri di Tel Aviv che i loro finanziatori e i loro cortigiani e
le leadership palestinesi non possono davvero ignorarlo.
domenica 23 marzo 2025
Riarmo, recessione, debito: la sceneggiata e il gioco al massacro - Fabio Vighi
Per
comprendere le ragioni della sceneggiata napoletana andata in onda nella sala
ovale della Casa Bianca il 28 febbraio scorso, conviene guardare a quanto
successo in Germania solo qualche ora più tardi: Friedrich Merz, cancelliere in
pectore ed ex dirigente BlackRock, annunciava un pacchetto da 900 miliardi – il
doppio del bilancio federale annuale – per difesa e infrastrutture. (In
un bollettino del 24 febbraio, la stessa
BlackRock prevedeva che il voto tedesco avrebbe consentito un aumento della
spesa). Pochi giorni dopo, Merz confermava proposte “radicali” (la più grande
revisione di politica monetaria dai tempi della riunificazione del paese, con
annessa riforma costituzionale) mirate ad allentare le regole sull’accumulo di
debito al fine di consentire una maggiore spesa per la difesa e rilanciare
l’economia – in barba al rigore fiscale imposto more teutonico a
tutti i paesi della UE negli ultimi 20 anni, con particolare riferimento
all’accanimento sadistico sulla Grecia.
Basta dunque
unire i puntini, e prendere sul serio l’assunto per cui tutto ciò che accade
oggi, soprattutto ma non solo in materia di geopolitica, dev’essere ricondotto
al primum movens del capitalismo contemporaneo: il debito.
Zelensky litiga con Trump a favore di telecamera (“questo sarà perfetto per la
TV”, si lascia scappare the Donald). Passano poche ore e l’ex
cabarettista torna in Europa per buttarsi (sempre a favore di telecamera) tra
le braccia della “coalizione dei volenterosi” (sic!): un’ammucchiata di funerei
governanti per l’occasione capitanata dal britannico Keir Starmer. Nel
frattempo, come un cane di Pavlov, scatta l’indignazione (molto mediatica)
dell’Europa progressista contro il tradimento dell’America illiberale,
cialtrona, e populista di Trump e Vance. E, approfittando del clamore generale,
in Germania si allentano i cordoni fiscali e si oliano le stampanti: più
debito für uns und für alle! Come ai tempi del Covid non ci sono
alternative, perché il nemico è alle porte.
Mentre a
Berlino si pensa a uno stimolo di quasi un trilione di euro, a Bruxelles Ursula
von der Leyen estrae dal cilindro il progetto Re-Arm Europe. In sintonia, dunque, i cinici
funzionari del capitalismo di crisi propongono di eliminare le restrizioni alla
spesa in deficit se questa spesa viene utilizzata per la difesa. Re-Arm Europe,
annuncia von der Leyen, potrebbe mobilitare qualcosa come 840 miliardi di
euro per la nostra sicurezza, perché non si può abbandonare
l’Ucraina nell’ora più buia (e che importa se la guerra è già persa, con
inutile massacro di centinaia di migliaia di ucraini, e accordo tra le parti in
dirittura d’arrivo); e non si può aspettare che Putin invada il Portogallo. (Si
badi, questa non è ironia: sono, purtroppo, le idiozie con cui ci bombardano da
tre anni a questa parte. Al netto dell’affaire Ucraina, su cui è inutile
tornare a dilungarsi, basterebbe una domandina semplice semplice: perché mai i
russi ambirebbero a invadere l’Europa, se è vero com’è vero che di terra e
risorse da amministrare ne hanno già fin troppe?) A questo punto, se proprio
vorranno riarmarsi, gli europei dovranno da una parte ridimensionare
ulteriormente le spese per il welfare trasformandole in spese
per il warfare (come ammonisce persino il Financial Times); e, dall’altra, comprare più armi
dagli USA. Ricordiamo, per la cronaca, che già durante l’amministrazione Biden
l’importo di armi USA in UE è salito del 35%.
Si tratta
insomma di dare una doppia passata di vernice verde-militare a un’economia
europea con l’acqua alla gola, facendo pagare il nobile sacrificio ai soliti
poveracci (visto che i soldi del riarmo verranno sottratti allo stato sociale:
educazione, infrastrutture, sanità, pensioni, ecc.). Avrete notato la
nonchalance con cui si è passati dall’impegno per la sostenibilità ambientale
(investimenti ESG) alla retorica guerrafondaia sul potenziamento del complesso
militare-industriale. Costruiranno forse armi eco-sostenibili?
Evidentemente, green è un significante ambiguo, fluido,
perfettamente adattabile alle esigenze di mercato, buono sia per l’ambiente che
per i cannoni. Detto diversamente, siamo di fronte a un’altra irresistibile emergenza (la
minaccia russa), un alibi il cui scopo improrogabile è far sì che il mercato
prezzi un bazooka di debito comune che dia garanzie di rifinanziamento a tutta
l’infrastruttura speculativa grondante di criticità. A meno che non vogliamo
continuare a farci prendere per i fondelli da Ursula e compagnia cantante.
Perché la vera emergenza, puntualmente rimossa, è una sola: il mostro a due
teste chiamato stagflazione strutturale. È questo mostro – non il
fantasma dei cosacchi a San Pietro – che spinge i maestri pupari a giocare col
fuoco per generare, dal nulla economico, montagne di credito da far piovere su
un ingranaggio rotto, ma tenuto in vita artificiale dal “polmone finanziario”
cui appunto i pupari rispondono. Si grida all’armi, si lanciano anatemi come
fossero coriandoli, e lo si fa, sostanzialmente, per creare altro debito quale
“sano ricostituente” per Stati membri debilitati, Germania in primis; magari in
vista della dissoluzione dell’eurozona.
Poi c’è la
Gran Bretagna, che, come di consueto, trama nella penombra. Poiché le finanze
britanniche versano in uno stato particolarmente pietoso, anche Londra è alla
disperata ricerca non solo di un casus belli per pompare debito nel suo
comparto militare-industriale, ma anche di collaterale attraverso cui garantire
la credibilità di un nuovo ciclo creditizio. È probabile che, senza le risorse
dell’Ucraina – con la quale ha firmato un partenariato di 100 anni il 16 gennaio scorso (quattro
giorni prima dell’inaugurazione di Donald Trump), che non è un atto
caritatevole ma la continuazione di un investimento economico che avrebbe al
suo centro proprio un accordo segreto sulle terre rare – il ricorso
alle stampanti rischi di provocare una fiammata inflattiva immediata,
potenzialmente letale per la sterlina.
Piuttosto
che riflettere sulle ragioni profonde del declino, l’Europa dei tecnocrati
gioca dunque la carta delirante della sfida geopolitica collegata alla spesa in
deficit. La verità è che l’occidente non ha più “miracoli economici” da
spendere. I tassi di crescita sono da tempo stagnanti, il lavoro è precario, il
denaro fiat si svaluta, l’indebitamento è strutturale, e le bolle finanziarie
che ne derivano si “gestiscono”, appunto, attraverso il surreale ricorso al
binomio guerra-debito. Siamo di fronte a dispositivi emergenziali ideati per
amministrare dall’alto l’accelerata implosiva. In questo senso, la corsa al
riarmo puzza di ultima spiaggia, oltre a confermare il carattere elitario e
antidemocratico della leadership europea. Si tratta peraltro di un azzardo che
potrebbe innescare, qualora non producesse risultati, un assalto all’euro di
dimensioni epocali – eventualità tutt’altro che remota se consideriamo che, da
uomo BlackRock, Merz è fedele soprattutto alle lobby del capitale finanziario
transnazionale. Se i rendimenti del debito europeo dovessero esplodere – come
per i Bund tedeschi nella giornata di mercoledì 5 marzo, ma soprattutto per
qualche Stato membro considerato a rischio (tipo l’Italia) – la deriva
difficilmente verrebbe arginata. E la mobilitazione bellica non sarebbe più
solo un volano propagandistico per prolungare la credito-dipendenza di sistema,
ma un vero e proprio gioco al massacro.
Per il
momento, agitare l’ennesimo fantasma geopolitico per proteggere a suon di
debito la “vera democrazia” permette al regime cleptocratico-finanziario di
rifiatare, anche rispolverando slogan desueti e imbarazzanti sull’unità del
mondo dei giusti minacciato da dittatori incarogniti. Inutile aggiungere,
hegelianamente, che il male è lo sguardo stesso che vede il male ovunque
attorno a sé. È molto probabile che arriveremo alla barbarie senza averci
capito nulla: il declino di una civiltà si evince soprattutto dalla sua
avversione all’introspezione. L’inadeguatezza dei pupari al potere non è
un’eccezione, ma la corretta espressione della fase storica in cui Homo
economicus giunge al collasso per overdose di sé stesso. Perché
l’implosione delle leggi oggettive di sistema che ci determinano – in primis,
la rottura del contratto sociale tra lavoro e capitale su cui si fonda il
moderno ordine liberale – non può che generare campioni di cinismo
istituzionale. E non c’è nulla di più ideologico che scambiare questo effetto
per la causa del nostro male. Se ci limitiamo a inorridire dinanzi a una classe
politico-manageriale psicopatica, probabilmente lo facciamo per non raggelare
di horror vacui dinanzi al fallimento di un’intera
civiltà.
Per prima
cosa, dovremmo aver un minimo di memoria storica. Partire, cioè, dal cambio di
paradigma di fine anni ’80 del secolo scorso, quando la globalizzazione decretò
la vittoria di un capitalismo fondato sul modello occidentale di economia di
mercato ad alta composizione finanziaria. Ci fu detto che stavamo entrando
nell’era del dividendo di pace e della prosperità globale, che molti ritennero
non dovesse finire mai. Ma quella pallida utopia è durata la miseria di una
decina d’anni. A inizio millennio è infatti riemerso, puntuale, tutto il
rimosso, ovvero la realtà di un ecosistema socioeconomico cresciuto su una
solida base di violenza, saccheggio, e manipolazione. Eppure l’ottimismo
ideologico dei sostenitori del “capitalismo per sempre”, sia a destra che a
sinistra di sovrastrutture politiche obsolete, preferì ignorare tanto le nuove
zone di povertà di massa prodotte dall’impulso alla globalizzazione, quanto le
guerre con cui l’occidente telecomandato dagli USA s’insigniva del ruolo di
paladino dell’ordine planetario. La fase terminale della civiltà capitalistica
è in effetti iniziata con il ritorno in pompa magna del bellicismo occidentale
(la “guerra al terrore”), accompagnato da sempre più frequenti convulsioni
finanziarie (dot.com nel 2000, subprime nel 2007-08) che ora vengono
apertamente manipolate (come ha dimostrato, per chi ha ancora un centesimo di
pensiero critico da spendere, il recente colpo di stato finanziario globale passato
alla storia come “pandemia”). Il modo di produzione capitalistico si è da tempo
palesato per ciò che da sempre è: un modo di distruzione.
Siamo ora di
fronte a una gestione caotica delle fragilità dell’impianto finanziario del
capitalismo senile, indebitato fino al collo perché strutturalmente obsoleto,
incapace di creare legame sociale attraverso l’estrazione di valore dal lavoro
(come scrisse Don DeLillo in Cosmopolis, ‘il denaro ha perso la sua
qualità narrativa’). Nel frattempo, il progetto di globalizzazione a guida USA
è fallito. Nella competizione interplanetaria, l’occidente perde ormai su tutti
i fronti: economico, militare, politico-diplomatico. La stessa politica estera
americana, ora basata su una retorica ostile all’universalismo progressista,
nasce dalla consapevolezza che gli ormai insostenibili livelli d’indebitamento
vanificano qualsiasi pretesa di egemonia globale, che gli ultimi governi USA
ancora cercavano stancamente di perseguire. Con l’elezione di Trump (effetto,
non causa del cambio di direzione), si è deciso di passare dal presunto
monopolio della forza economica e militare, travestita da missione
universalista, alla gestione di una crisi debitoria interna potenzialmente
devastante. Ciò presuppone abbracciare il principio di realtà: accettare il
ridimensionamento USA all’interno di una costellazione multicentrica in cui la
caratteristica comune è il declino.
Negli Stati
Uniti, la principale urgenza è ridurre i rendimenti dei Treasury (certificati
di debito pubblico) in modo che l’aumento dei loro prezzi li renda nuovamente
appetibili. Ricordiamo che entro la fine del 2025 zio Sam dovrà rifinanziare la
bellezza di 9.2mila miliardi di debito in scadenza, emesso
quando il rendimento del decennale era poco sopra il 2%, circa la metà di
quello attuale. Considerando l’onere debitorio complessivo di 36mila miliardi
abbondanti, e in continuo aumento, appare del tutto evidente che, oltreoceano,
l’unica reale priorità è trovare il modo di abbassare rapidamente i rendimenti
così da fornire almeno una parvenza di sostenibilità al debito pubblico. E
quale maniera migliore di ottenere tale risultato che forzare la mano della banca
centrale (Federal Reserve) alimentando il fantasma di un crash finanziario
accompagnato da violenta recessione? Fantasma che, in effetti, già aleggia un
po’ ovunque. Una recessione conclamata, e giustificata creativamente, potrebbe
rivelarsi il meccanismo di gran lunga più efficace per alleggerire il peso del
debito.
L’Europa,
nel frattempo, non sembra saper far altro che nascondere la propria debolezza
dietro una grottesca e anacronistica corsa alle armi mirata a supportare le
bolle di capitale finanziario. Sono questi gli ultimi atti di una lunga
stagione di mistificazioni, iniziata con la fuga in avanti della
finanziarizzazione neoliberista, che a fine secolo scorso ha sì fornito uno
stimolo al potere d’acquisto, soprattutto negli USA e in Europa, ma
senza alcun valore reale sottostante. Ora la coperta sempre più corta del
capitalismo a trazione finanziario-speculativa ci sta presentando il conto. Gli
eventi geo/biopolitici degli ultimi anni non hanno alcun potenziale causativo:
sono semplicemente sintomi morbosi di un collasso di civiltà che colpisce per
primo l’occidente iper-indebitato e improduttivo.
Se, in
qualunque forma, il risultato delle politiche di gestione della crisi non può
che continuare a essere la svalutazione monetaria (inflattiva o deflattiva che
sia), forse dovremmo partire proprio dalla sconfitta del feticcio-denaro per
provare finalmente a guardare oltre il moderno sistema produttore di merci.
Tutte le tradizionali politiche di riforma, inclusi i contorsionismi della
sinistra, sono sempre più assurde e socialmente repressive a fronte della
tossicodipendenza da debito che disintegra le valute. L’unica speranza
sembrerebbe essere la nascita di un movimento di resistenza e transizione,
magari fondato sul ripudio della guerra, che sappia sviluppare una nuova
consapevolezza delle ingestibili contraddizioni che determinano le condizioni
di vita sotto il capitalismo – e che cerchi di superarle.