mercoledì 24 aprile 2024

povera sanità pubblica

 

In aumento i cittadini che rinunciano a visite mediche ed esami

Nel 2023 sono stati 4,5 milioni, pari al 7,6% della popolazione, erano il 7% nel 2022. I motivi: problemi economici, liste d’attesa e difficoltà di accesso

Sono stati circa 4,5 milioni nel 2023 i cittadini che hanno dovuto rinunciare a visite mediche o accertamenti diagnostici per problemi economici, di lista di attesa o difficoltà di accesso, il 7,6% della popolazione, in aumento rispetto al 7,0% del 2022 e al 6,3% del 2019, probabilmente per recupero delle prestazioni sanitarie differite per il Covid-19 e difficoltà a riorganizzare efficacemente l’assistenza sanitaria. 
 E’ quanto si legge nel Rapporto sul Benessere equo e sostenibile (Bes) dell’Istat, presentato oggi.

Secondo i dati c’è un raddoppio della quota di chi ha rinunciato per problemi di lista di attesa (da 2,8% nel 2019 a 4,5% nel 2023), stabile la rinuncia per motivi economici (da 4,3% nel 2019 a 4,2% nel 2023), ma comunque in aumento rispetto al 2022: +1,3 punti percentuali in un solo anno.     Torna inoltre ai livelli pre-Covid l’emigrazione ospedaliera extra-regione: nel 2022 l’8,3% dei ricoveri in regime ordinario per acuti. Basilicata, Calabria, Campania e Puglia sono le regioni con maggiori flussi in uscita non compensati da flussi in entrata; in Sicilia e Sardegna, sebbene l’indice di emigrazione ospedaliera sia contenuto, è molto superiore all’indice di immigrazione ospedaliera.     Risulta in continuo aumento la quota di anziani assistiti in Assistenza domiciliare integrata (Adi), dal 2,9% nel 2019 al 3,3% nel 2022, ma resta una forte variabilità territoriale: dal 3,8% nel Nord-est al 2,6% al Sud.  Se si considera anche l’assistenza residenziale, rimane il Nord-est l’area con la maggiore presa in carico di anziani fragili (6,2% nel 2021) e il Sud con quella più bassa (2,8% nel 2021). Dal rapporto emerge anche che è in crescita in Italia la speranza di vita: al 31 dicembre scorso “è pari a 83,1 anni, in aumento rispetto al 2022 (82,3)”, un dato con cui si “recupera quasi del tutto il livello del 2019 (83,2 anni)”. In particolare, “gli uomini con 81,1 anni di vita media attesa tornano allo stesso livello del 2019, mentre per le donne (85,2 anni) mancano ancora 0,2 anni (85,4 nel 2019)”.

La speranza di vita in buona salute nel 2023 è pari a 59,2 anni e si riduce rispetto ai 60,1 anni del 2022″, si precisa nel testo, e “tale riduzione ha riportato l’indicatore quasi al livello del 2019 (58,6 anni), ridimensionando l’incremento anomalo verificatosi tra il 2020 e il 2022 dovuto alla componente soggettiva, per effetto della più diffusa percezione di condizioni di buona salute in tempi di pandemia”, indica l’Istituto di statistica. Nel 2021, va avanti il dossier, nella Penisola “il tasso di mortalità per tumori della popolazione adulta di 20-64 anni è pari a 7,8 per 10.000 residenti e si è ridotto rispetto a quanto osservato nel 2020 (8,0 per 10.000 residenti)”. Tuttavia, “si osservano disuguaglianze socioeconomiche anche per la mortalità per tumori della popolazione adulta, con uno svantaggio che aumenta al diminuire del livello di istruzione”, e “sono più marcate nei maschi, dove gli individui meno istruiti hanno una mortalità 2,1 volte maggiore dei più istruiti, nelle femmine tale rapporto scende a 1,4”.

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L’autonomia differenziata porterà alla fine del Servizio Sanitario Nazionale

Convegno a Bologna: “AutoNOmia Differenziata, quali rischi per il SSN?”. Migliore: “In sanità l’autonomia regionale è già una realtà, la riforma deve essere un’opportunità per individuare i correttivi per una maggiore equità”

Se passa l’autonomia differenziata sarà la fine del servizio sanitario nazionale“. Con queste parole Pierino Di Silverio, Segretario nazionale Anaao Assomed, ha rappresentato al numeroso pubblico che ha partecipato al Convegno di Bologna dal titolo “Autonomia differenziata. Quali rischi per il Servizio Sanitario Nazionale?” le preoccupazioni dell’intera categoria di medici e dirigenti sanitari.

“Il servizio sanitario nazionale – ha affermato Stefano Bonaccini, Presidente dell’Emilia Romagna nel suo intervento di saluto – non è mai stato a rischio come oggi. Il Governo lo sta smantellando e il risultato è che sono esplose le assicurazioni private, medici e infermieri, a causa di salari troppo bassi e di turni massacranti, emigrano verso il privato o cambiano lavoro. Presto potrà curarsi solo chi ne avrà le possibilità economiche.
Serve una grande mobilitazione, perché ormai siamo di fronte a un’emergenza nazionale. Dobbiamo batterci per riaffermare che il diritto alla salute deve essere garantito a chiunque, ad un povero esattamente come ad un ricco”.

L’autonomia differenziata in campo sanitario rappresenta una sfida per le Regioni, ma una sfida che può portare con sé grandi benefici: per quanto mi riguarda, dunque, ritengo sia necessario proseguire nel percorso intrapreso – ha dichiarato il presidente di Regione Liguria Giovanni Toti nel messaggio inviato all’Anaao Assomed. In primo luogo, autonomia significa assunzione di responsabilità da parte di chi amministra un territorio, senza la possibilità di “distribuire” gli effetti delle scelte fatte e di ciò che non va sul governo centrale ma con la necessità di rispondere in prima persona alle critiche e alle richieste dei cittadini. In secondo luogo, perché permetterà di adattare i servizi forniti alle esigenze specifiche del territorio, tenendo conto delle caratteristiche uniche di ogni area del Paese e con la possibilità di avere un costante dialogo con i cittadini, anche attraverso la digitalizzazione. Insomma l’autonomia consentirà di essere più competitivi ed efficienti”.

Preoccupazione per il rischio di un servizio sanitario frammentato e disuguale è stata espressa dagli esperti intervenuti.

Per Francesco Pallante, Professore Associato di Economia Politica, l’Autonomia differenziata, così come proposta, non risponde all’attuale crisi del diritto alla salute e rischia di acuire le disuguaglianze tra le diverse regioni. Risolvere l’attuale crisi del diritto alla salute a beneficio delle sole regioni più dinamiche è una prospettiva che si colloca al di fuori dal quadro costituzionale e ha suggerito l’esigenza di tornare alla Costituzione, a partire dal pieno rispetto dei principi di uguaglianza e di unità.

Sull’identificazione e finanziamento dei Leps si è concentrato l’intervento di Francesco Porcelli
 Associato di Economia Politica – Università degli Studi di Bari “Aldo Moro” e membro del Comitato scientifico per la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni, il cui percorso, iniziato a maggio del 2023, dovrebbe portare a una normativa organica in tema di LEP. L’attività di ricerca ha cercato di rispondere a domande cruciali come: Cosa si intende per LEP? Quali sono i potenziali LEP che si possono rinvenire nella normativa vigente nelle materie che interessano i diritti sociali e civili? Quali sono i passaggi che consentono di tramutare i LEP in fabbisogno di spesa, sviluppando modelli di perequazione che ne consentono il finanziamento rispettando gli equilibri di finanza pubblica? Anche se le risposte non sono ancora complete e univoche, la definizione organica dei LEP, indipendentemente dall’attuazione dell’autonomia differenziata, è un’operazione di grande portata, in quanto attua una parte della Costituzione che pone le basi per la riduzione dei divari territoriali.

Le preoccupazioni si basano su dati concreti per Enrico Coscioni, Presidente di Agenas, che sottolinea l’importanza di un dibattito attento e responsabile, che ponga al centro la salute dei cittadini e l’equità del SSN: “Alla luce dei dati sulla spesa sanitaria, sulla carenza di personale e sulle disomogeneità regionali, è fondamentale interrogarsi se il SSN sia pronto per questa nuova fase. Il dibattito sull’autonomia differenziata deve essere condotto con attenzione e senso di responsabilità, ponendo al centro la tutela della salute dei cittadini e la garanzia di un SSN equo ed efficiente.” E ricorda alcuni dati sul confronto impietoso sulla spesa sanitaria pubblica e privata rispetto a Germania e Francia: nel 2022 la spesa sanitaria pubblica italiana è pari a circa 131 miliardi rispetto ai 423 della Germania e ai 271 della Francia, mentre l’incidenza della spesa sanitaria pubblica in rapporto al Pil è stata pari al 6,8%, inferiore di ben 4,1 punti a quella tedesca (10,9%), di 3,5 punti a quella francese (10,3%), e inferiore di mezzo punto anche a quella spagnola (7,3%).

Anna Lisa Mandorino Segretaria Generale di Cittadinanzattiva ha evidenziato i rischi di una frammentazione nell’accesso alle cure sanitarie, con cittadini di serie A e di serie B a seconda della regione di residenza, richiamando l’urgente necessità di stabilire i Livelli Essenziali di Prestazioni (LEP) come standard minimi garantiti a tutti i cittadini. “Se facessimo l’ipotesi, estrema ma possibile, che tutte le Regioni chiedessero per sé forme di regionalismo asimmetrico così articolate, l’Italia, come Stato unitario, semplicemente non esisterebbe più e lo si sarebbe deciso senza alcun tipo di partecipazione popolare”.

I rischi di un sistema sanitario frammentato sono stati evidenziati da Giovanni Trianni di Medicina Democratica Emilia Romagna. Teme un “marasma istituzionale” con gravi conseguenze per la sanità pubblica. “Siamo a dieci giorni dalla discussione del ddl di autonomia differenziata e Medicina Democratica propone azioni concrete quali una stagione di scioperi generali, preparazione a referendum abrogativi eventualmente possibili, la preparazione di ricorsi alla Corte Costituzionale, una campagna di sensibilizzazione verso i cittadini e cittadine di non votare candidati e candidate, alle prossime elezioni europee/amministrative che sostengono la autonomia differenziata”.

“Il convegno – ha concluso Pierino Di Silverio – ha messo in luce le profonde criticità dell’Autonomia Differenziata per il SSN. Le voci degli esperti e delle associazioni chiedono un dibattito pubblico aperto e costruttivo sul futuro della sanità in Italia, con l’obiettivo di tutelare il diritto alla salute per tutti i cittadini”. “È fondamentale che il dibattito sull’Autonomia Differenziata si svolga in modo aperto e trasparente, coinvolgendo tutti gli stakeholder interessati, al fine di trovare soluzioni che tutelino il diritto alla salute e garantiscano un SSN di qualità per tutti i cittadini”.

In sanità sperimentiamo l’autonomia regionale da quasi venticinque anni. La modifica del Titolo V del 2001 ha creato di fatto 21 sistemi sanitari. La riforma può e deve essere dunque un’opportunità per garantire maggiore equità e stabilità al sistema sulla base dell’esperienza che abbiamo maturato”. Questa la posizione che il presidente della Fiaso, Giovanni Migliore, porterà come contributo nel convegno “AutoNomia differenziata: quali rischi per il SSN?” organizzato da Anaao a Bologna. 

“La tutela della salute è un bene costituzionalmente garantito – spiega Migliore – e lo Stato, attraverso i Livelli Essenziali di Assistenza (Lea), definisce le prestazioni e i servizi che il SSN deve offrire sul territorio a tutti i cittadini. Nel 2022 sette regioni, di cui cinque al Sud, non hanno raggiunto la sufficienza rispetto all’erogazione dei Lea. E’ necessario quindi intervenire con strumenti nuovi, lì dove ormai ci sono difficoltà consolidate nel tempo, per ridurre le disuguaglianze di accesso ai servizi sanitari”. 

I LEA, negli anni tra il 2020 e il 2023, sono stati finanziati per l’87,3% dall’imposizione fiscale diretta ed indiretta, per l’1,6% dai ricavi e dalle entrate proprie delle Aziende sanitarie, per l’8,5% dalla partecipazione delle Regioni a statuto speciale e delle Province autonome e per il 2,6% dalla voce relativa al Fondo sanitario nazionale.

L’imposizione fiscale, quindi, costituisce la parte preponderante delle fonti che finanziano il Fondo sanitario nazionale: la componente diretta, rappresentata dalle risorse derivanti dall’Irap e dall’addizionale Irpef, incide per il 26,2% (Irap 18,1% e addizionale Irpef 8,1%), la componente indiretta (Iva e accise) per il 61,1%. 

Il riparto delle disponibilità finanziarie per il Servizio sanitario nazionale – continua Migliore – avviene sulla base di criteri che sono cambiati più volte nel corso degli anni, per adeguare le risposte alle criticità che emergevano via via nella assegnazione delle risorse. Ci sono dunque i margini, anche attraverso il Fondo di garanzia dello Stato, per assicurare a tutte le regioni la copertura dei livelli essenziali delle prestazioni, magari anche aumentando le risorse stanziate per il Fondo sanitario nazionale, storicamente sotto finanziato rispetto alla media dei paesi europei più avanzati”.   

Ma non basta – conclude Migliore – serve avere il coraggio di cambiare le regole ed è necessario uno sforzo straordinario di sistema, per dare ai cittadini risposte adeguate ed in tempi congrui ai loro bisogni. Fino ad oggi, nonostante tutte le difficoltà, grazie alla capacità di innovazione delle aziende, con un sistema che abbiamo definito frugale siamo riusciti a garantire uno stato di salute della popolazione buono ed una aspettativa di vita tra le più elevate nei paesi occidentali. Adesso è necessario fare di più. E noi non ci sottraiamo dalla discussione, anzi, abbiamo anche chiesto alla politica di ridefinire la figura del direttore generale, per valorizzare ancora di più competenza ed esperienza, indispensabili per gestire bene le risorse affidate alle aziende sanitarie”.

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Dalla sanità pubblica alla sanità del lusso - Ilaria Marciano

A differenza di altri Paesi europei, in Italia si disinveste sulla sanità. Mancanza di disponibilità e ripetuti tagli nel settore spingono sempre più italiani a spostarsi dal Mezzogiorno verso nord per farsi curare. La riforma dell’autonomia differenziata rischia di rendere l’accesso alle cure, più che un diritto, un privilegio.

C’è un diritto, quello alla salute, che sempre meno cittadini possono dare per scontato: le lunghe liste d’attesa, la mancanza di disponibilità nelle strutture pubbliche, i costi nel settore privato che diventano sempre meno accessibili hanno reso ormai la sanità italiana un lusso.

Il Servizio sanitario nazionale, infatti, è al centro di un profondo divario tra il Nord e il Sud del Paese, un divario che nel corso degli anni, secondo il rapporto Svimez 2024, si è ampliato significativamente. E le cifre parlano chiaro: mentre le risorse pro capite investite nel SSN sono diminuite del 2% tra il 2010 e il 2019, altri Paesi europei hanno visto un incremento significativo. Come la Spagna, che nello stesso periodo ha registrato un +9%, o il Regno Unito (27%), ma anche Francia (+32%) e Germania (+38%). Solo la pandemia da Covid-19 ha portato un’incerta inversione di tendenza, con un aumento della percentuale di PIL investita nella sanità in tutti i Paesi. Gli effetti di questa mancanza di investimenti e ripetuti tagli nel settore sanitario, dunque, hanno dato vita a disuguaglianze sempre più marcate tra il Nord e il Sud Italia: secondo il rapporto, infatti, le regioni meridionali mostrano livelli di spesa per abitante inferiori alla media nazionale di 2140 euro. In particolare, la spesa corrente più contenuta si registra in Calabria (1748 euro), seguita da Campania, Basilicata e Puglia. Per quanto riguarda gli investimenti, i valori più bassi emergono in Campania (18 euro), Lazio (24 euro) e Calabria (27 euro), rispetto alla media nazionale di 41 euro. Oltre ai dati finanziari, il fattore sociale aggiunge un ulteriore strato di disuguaglianza: su 1,6 milioni di famiglie italiane che vivono in povertà sanitaria, 700mila di queste vivono nel Mezzogiorno: in particolare, le famiglie considerate in povertà sanitaria sono l’8% al Sud, il 5,9% al Nord-Ovest, il 5% al Centro e il 4% al Nord-Est. Le conseguenze di questo divario, naturalmente, non sono solo statistiche, e producono degli effetti concreti che si traducono in una costante migrazione di pazienti dal Sud al Centro-Nord del Paese, soprattutto per le patologie più gravi. Per esempio, nel 2022, su un totale di 629 mila migranti sanitari, il 44% proveniva da una regione del Mezzogiorno; per le patologie oncologiche, oltre 12.400 pazienti meridionali si sono dovuti spostare per ricevere cure al Centro o al Nord.

I dati del rapporto Svimez, dunque, restituiscono l’immagine di un Paese diviso a metà nell’accesso alle cure ed evidenziano un quadro preoccupante del sistema sanitario italiano. E adesso il rischio, se verrà approvata la riforma dell’autonomia differenziata – passata a fine gennaio al Senato e ora in attesa di essere discussa alla Camera – è che questo divario si acuisca, rendendo l’accesso alle cure, più che un diritto, un privilegio.

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L’allarme di Cartabellotta: salviamo la Sanità pubblica dal disastro dell’autonomia 

Si scrive «autonomia differenziata» ma si legge «frattura del Paese», sicuramente in sanità. Ecco perché, con l’avvio della discussione parlamentare del ddl Calderoli, è cruciale ribadire che la tutela della salute deve essere espunta dalle materie su cui le Regioni possono richiedere maggiori autonomie. Perché in caso contrario si finirebbe per legittimare normativamente il divario tra Nord e Sud, violando il principio costituzionale di uguaglianza dei cittadini nell’esercizio del diritto alla tutela della salute. Ed esistono almeno sei buone ragioni per farlo.

Primo. Il Servizio sanitario nazionale attraversa una gravissima crisi di sostenibilità e il sotto-finanziamento costringe anche le Regioni virtuose del Nord a tagliare i servizi e/o ad aumentare le imposte per scampare al piano di rientro. E guardando alla crescita economica del Paese, all’impatto atteso del nuovo Patto di Stabilità e all’assenza di misure concrete per ridurre evasione fiscale e debito pubblico, non ci sono risorse né per rilanciare il finanziamento pubblico della sanità, né tantomeno per colmare le diseguaglianze regionali. Inoltre, con l’autonomia differenziata le Regioni potranno trattenere il gettito fiscale, che non sarebbe più redistribuito su base nazionale, impoverendo ulteriormente il Mezzogiorno.

Secondo. Il Comitato istituito per definire i livelli essenziali delle prestazioni (Lep) ha ritenuto che non sia necessario assolvere tale compito in materia di salute, perché esistono già i livelli essenziali di assistenza (Lea). Una pericolosa scorciatoia, visto che il ddl Calderoli rimane molto vago sul finanziamento oltreché sulla garanzia dei Lep secondo quanto previsto dalla Carta costituzionale. Ed è evidente che senza definire, finanziare e garantire in maniera uniforme i Lep in tutto il territorio nazionale è impossibile ridurre le diseguaglianze regionali.

Terzo. In sanità il gap tra Nord e Sud è sempre più ampio, al punto da configurare una vera e propria «frattura strutturale», come dimostrano sia i dati sugli adempimenti ai Lea sia quelli sulla mobilità sanitaria. Il monitoraggio 2021 dei Lea documenta infatti che delle 14 Regioni adempienti solo 3 sono del Sud (Abruzzo, Puglia e Basilicata) e tutte a fondo classifica: alla maggior parte dei residenti al Sud non sono dunque garantiti nemmeno i Lea. E queste diseguaglianze alimentano il fenomeno della mobilità sanitaria: nel 2021 4,25 miliardi scorrono prevalentemente dalle Regioni meridionali verso Emilia-Romagna, Lombardia, Veneto, le Regioni che hanno già sottoscritto i pre-accordi per le maggiori autonomie e che complessivamente raccolgono il 93,3% dei saldi attivi. Di conseguenza, l’attuazione di maggiori autonomie in sanità nelle Regioni con le migliori performance sanitarie e maggior capacità di attrazione inevitabilmente amplificherà le diseguaglianze già esistenti.

Quarto. Le maggiori autonomie già richieste da Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto ne potenzieranno le performance sanitarie e, al tempo stesso, indeboliranno ulteriormente quelle delle Regioni del Sud, incluse quelle a statuto speciale. In tal senso risulta ai limiti del grottesco la posizione dei presidenti delle Regioni meridionali governate dal centrodestra, favorevoli all’autonomia differenziata. Una posizione autolesionistica che dimostra come gli accordi di coalizione partitica prevalgano sulla salute delle persone. Alcuni esempi: la maggiore autonomia in termini di contrattazione del personale provocherà una fuga dei professionisti sanitari verso le Regioni più ricche, in grado di offrire condizioni economiche più vantaggiose, impoverendo ulteriormente quelle del Sud; così come l’autonomia nella determinazione del numero di borse di studio per scuole di specializzazione e medici di medicina generale determinerà una dotazione asimmetrica di specialisti e medici di famiglia. Ancora, le maggiori autonomie sul sistema tariffario, di rimborso, remunerazione e compartecipazione rischiano di rendere i sistemi sanitari regionali delle entità con regole proprie, sganciate anche da un monitoraggio nazionale, agevolando anche l’avanzata del privato.

Quinto. Nonostante gli entusiastici proclami sui vantaggi delle maggiori autonomie anche per le Regioni del Sud, in sanità è certo che non ne esistono affatto per una ragione molto semplice. Essendo tutte, Basilicata a parte, in piano di rientro o addirittura commissariate (Calabria e Molise), non si trovano nelle condizioni di poter avanzare la richiesta, visto che i piani di rientro di fatto «paralizzano» dal punto di vista organizzativo i sistemi sanitari regionali.

Sesto. Il Pnrr, sottoscritto dall’Italia e per il quale abbiamo indebitato le future generazioni, persegue il riequilibrio territoriale e il rilancio del Sud come priorità trasversale a tutte le missioni. Ovvero, l’intero impianto normativo del ddl Calderoli contrasta il fine ultimo del Pnrr, che dovrebbe costituire un’occasione per il rilanciare il Mezzogiorno, accompagnando il processo di convergenza tra Sud e Centro-Nord quale obiettivo di crescita economica, come più volte ribadito nelle raccomandazioni della Commissione europea.

Ecco perché è fondamentale espungere la tutela della salute dalle materie su cui le Regioni possono richiedere maggiori autonomie. Se così non fosse, saremmo di fronte a una legittimazione normativa della «frattura strutturale» Nord-Sud che comprometterebbe l’uguaglianza dei cittadini nell’esercizio del diritto costituzionale alla tutela della salute, rendendo le Regioni meridionali sempre più «clienti» dei servizi prodotti dalle Regioni del Nord e assestando il colpo di grazia al Servizio sanitario nazionale. Un disastro sanitario, economico e sociale senza precedenti, che viene oscurato dallo «scambio di favori» tra i fautori dell’autonomia differenziata e quelli del presidenzialismo.

https://infosannio.com/2024/01/18/lallarme-di-cartabellotta-salviamo-la-sanita-pubblica-dal-disastro-dellautonomia/


martedì 23 aprile 2024

Non evitare le parole: “Genocidio”, “Pulizia Etnica” e “Territorio Occupato”

 

Gaza. 1944


articoli e video di Michael Hudson, Richard Falk, Elena Basile, Jonathan Cook, Bruna Bianchi, Human Right Watch, Jeremy Scahill, Ryan Grim, Ariella Aïsha Azoulay, Tamir Sorek, Linda Xheza, Pepe Escobar, Clara Statello



Un documento trapelato dal New York Times su Gaza dice ai giornalisti di evitare le parole: “Genocidio”, “Pulizia Etnica” e “Territorio Occupato” – Jeremy Scahill e Ryan Grim

Il New York Times ha dato istruzioni ai giornalisti che si occupavano della guerra di Israele nella Striscia di Gaza di limitare l’uso dei termini “Genocidio” e “Pulizia Etnica” e di “evitare” di usare l’espressione “Territorio Occupato” nel descrivere la terra palestinese, secondo una copia trapelata di un documento interno.

La circolare interna dà inoltre istruzioni ai giornalisti di non usare la parola Palestina “tranne in casi molto rari” e di evitare il termine “Campi Profughi” per descrivere le aree di Gaza storicamente abitate da palestinesi sfollati espulsi da altre parti della Palestina durante le precedenti guerre arabo-israeliane. Le aree sono riconosciute dalle Nazioni Unite come campi profughi e ospitano centinaia di migliaia di rifugiati registrati.

Il documento, scritto dal principale editore del Times Susan Wessling, dall’editore internazionale Philip Pan e dai loro delegati, “offre indicazioni su alcuni termini e altre questioni con cui ci siamo confrontati dall’inizio del conflitto in ottobre”.

Sebbene il documento sia presentato come uno schema per mantenere principi giornalistici oggettivi nel riferire sulla guerra di Gaza, diversi membri del personale del Times hanno dichiarato che alcuni dei suoi contenuti mostrano prove della passività del giornale nei confronti delle narrazioni israeliane.

“Penso che sia il genere di cose che sembrano professionali e logiche se non si ha conoscenza del contesto storico del conflitto israelo-palestinese”, ha detto un giornalista della redazione del Times, che ha chiesto l’anonimato per timore di ritorsioni, riguardo il documento su Gaza. “Ma se lo sai, sarà chiaro quanto sia dispiaciuto per Israele”.

Inviata per la prima volta ai giornalisti del Times a novembre, la guida, che raccoglieva e ampliava le precedenti direttive sul conflitto israelo-palestinese, è stata regolarmente aggiornata nei mesi successivi. Presenta una finestra interna sul pensiero degli editori internazionali del Times mentre affrontano gli sconvolgimenti all’interno della redazione che circondano la copertura del giornale sulla guerra di Gaza…

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La Nakba ha colpito anche gli ebrei – Ariella Aïsha Azoulay

Intervista di Linda Xheza

La regista e accademica ebrea-palestinese Ariella Aïsha Azoulay sostiene che le potenze occidentali si sono servite del sionismo per liberarsi delle comunità sopravvissute alla Shoah e al tempo stesso razzializzare i palestinesi

Nata in Israele, Ariella Aïsha Azoulay, regista, curatrice e accademica, rifiuta l’identità israeliana. Prima di diventare israeliana all’età di diciannove anni, sua madre era semplicemente un’ebrea palestinese. Per gran parte della storia non c’è stato nulla di strano in questa combinazione di parole. In Palestina, per secoli, una minoranza ebraica ha convissuto pacificamente accanto alla maggioranza musulmana.

La situazione è cambiata con il movimento sionista e la fondazione di Israele. La pulizia etnica degli ebrei dall’Europa ha condotto, grazie ai sionisti europei, non solo a quella dei musulmani dalla Palestina ma anche degli ebrei del resto del Medio Oriente, con quasi un milione di persone in fuga a seguito della guerra arabo-israeliana del 1948, molti dei quali in Israele.

Azoulay, professoressa di letteratura comparata alla Brown e autrice di Potential History: Unlearning Imperialism (Verso, 2019), contestualizza il genocidio di Israele a Gaza nella lunga storia dell’imperialismo europeo e statunitense

Ti definisci ebrea palestinese. Potresti dirci di più a riguardo? Per molte persone queste parole sono in opposizione.

Il fatto che questi termini siano intesi come mutualmente esclusivi o in opposizione, come suggerisci, è un sintomo di due secoli di violenza. Nel giro di poche generazioni, diversi ebrei che vivevano in tutto il mondo sono stati privati dei loro vari attaccamenti alla terra, alle lingue, alle comunità, alle occupazioni e alle forme di condivisione del mondo.

La questione che dovrebbe preoccuparci non è come dare un senso alla presunta impossibilità di un’identità ebraico-palestinese, ma piuttosto il contrario: com’è possibile che l’identità fabbricata conosciuta come israeliana sia stata riconosciuta come normale da molti in tutto il mondo dopo la creazione dello stato in Israele nel 1948? Questa identità non oscura soltanto la storia e la memoria delle diverse comunità e forme di vita ebraica, oscura anche la storia e la memoria di ciò che l’Europa ha fatto agli ebrei in Europa, in Africa e in Asia nei suoi progetti coloniali.

Israele ha un interesse condiviso con quelle potenze imperiali a oscurare il fatto che «lo Stato di Israele non è stato creato per la salvezza degli ebrei; è stato creato per la salvezza degli interessi occidentali», come scrisse James Baldwin nel 1979 nella sua Lettera aperta ai rinati. Nel suo testo, Baldwin paragona lucidamente il progetto coloniale euro-americano per gli ebrei al progetto americano per i neri in Liberia: «Gli americani bianchi responsabili dell’invio di schiavi neri in Liberia (dove sono ancora schiavi per la piantagione di gomma Firestone) non l’hanno fatto per liberarli. Li disprezzavano e volevano liberarsene».

Prima della proclamazione dello Stato di Israele e del suo immediato riconoscimento da parte delle potenze imperiali, l’identità ebraico-palestinese era una delle tante che esistevano in Palestina. Il termine «palestinese» non aveva ancora un significato razzializzato. I miei antenati materni, che furono espulsi dalla Spagna alla fine del XV secolo, finirono in Palestina prima che il movimento euro-sionista iniziasse le sue azioni lì e prima che il movimento iniziasse gradualmente a confondere l’assistenza agli ebrei in risposta agli attacchi antisemiti in Europa con l’imposizione di un progetto di colonizzazione sul modello europeo a cui gli ebrei possono partecipare – un progetto non solo interpretato come liberazione ebraica ma basato sulla crociata europea contro gli arabi. La decolonizzazione richiede il recupero delle identità plurali che un tempo esistevano in Palestina e in altri luoghi dell’Impero Ottomano, in particolare quelle in cui ebrei e musulmani coesistevano.

Nel tuo film più recente, The World Like a Jewel in the Hand, parli della distruzione di un mondo ebraico-musulmano condiviso. Metti in primo piano l’appello degli ebrei che, alla fine degli anni Quaranta, rifiutarono la campagna sionista europea e esortarono i loro compagni ebrei a resistere alla distruzione della Palestina. Considerata la recente distruzione di vite umane, infrastrutture e monumenti a Gaza, pensi che sia ancora possibile per ebrei e musulmani rivendicare un mondo condiviso?

Innanzitutto c’è la storia. I sionisti hanno cercato di cancellare per sempre dalla nostra memoria questo appello degli ebrei antisionisti. Questi anziani ebrei facevano parte di un mondo ebraico-musulmano e non volevano allontanarsene. Mettevano in guardia contro il pericolo che il sionismo rappresentava per gli ebrei come loro in tutto il mondo che esisteva tra il Nord Africa e il Medio Oriente, compresa la Palestina.

Dobbiamo ricordare che fino alla fine della Seconda guerra mondiale, il sionismo era un movimento marginale e poco importante tra i popoli ebrei di tutto il mondo. Quindi, fino a quel momento, i nostri anziani non dovevano nemmeno opporsi al sionismo; potevano semplicemente ignorarlo. Fu solo dopo la Seconda guerra mondiale, quando gli ebrei sopravvissuti in Europa – che per la maggior parte non erano sionisti prima della guerra – non avevano quasi nessun posto dove andare, che le potenze imperiali euro-americane colsero l’opportunità di sostenere il progetto sionista. Per loro, si trattava di una valida alternativa alla permanenza degli ebrei in Europa o alla migrazione negli Stati uniti, e utilizzarono gli organismi internazionali da loro creati per accelerarne la realizzazione.

Così facendo, propagarono la menzogna secondo cui le loro azioni costituivano un progetto di liberazione ebraica, mentre, in realtà, questo progetto perpetuava lo sradicamento di diverse comunità ebraiche lontano dall’Europa. E, cosa ancora peggiore, la liberazione ebraica venne usata come licenza e motivo per distruggere la Palestina. Ciò non avrebbe potuto essere perseguito senza che un numero crescente di ebrei diventassero mercenari d’Europa: gli ebrei che erano emigrati in Palestina mentre fuggivano dal genocidio in Europa o dopo essere sopravvissuti, gli ebrei palestinesi che precedettero l’arrivo dei sionisti e quegli ebrei che furono attirati a venire in Palestina o non avevano altra scelta se non quella di abbandonare il mondo ebraico-musulmano da quando Israele è stato istituito, con un programma chiaro: essere uno stato anti-musulmano e anti-arabo. Tutti sono stati spinti dall’Europa e dai sionisti europei a vedere arabi e musulmani come loro nemici.

Non dobbiamo dimenticare che i musulmani e gli arabi non sono mai stati nemici degli ebrei e, inoltre, che molti di questi ebrei che vivevano nel mondo a maggioranza musulmana erano essi stessi arabi. È solo con la creazione dello Stato di Israele che queste due categorie – ebrei e arabi – si escludono a vicenda.

La distruzione di questo mondo ebraico-musulmano in seguito alla Seconda guerra mondiale permise l’invenzione di una tradizione giudaico-cristiana, che sarebbe diventata, da quel momento in poi, una realtà, poiché gli ebrei non vivevano più al di fuori del mondo cristiano occidentale. La sopravvivenza di un regime ebraico in Israele richiedeva più coloni, e quindi gli ebrei del mondo ebraico-musulmano furono costretti ad andarsene per diventare parte di questo stato etnico. Distaccati e privati delle loro storie ricche e diversificate, finirono per essere socializzati al ruolo assegnato loro dall’Europa: mercenari di questo regime coloniale di insediamento per ripristinare il potere occidentale in Medio Oriente.

Comprendere questo contesto storico non riduce la responsabilità degli autori sionisti per i crimini commessi contro i palestinesi nel corso dei decenni; piuttosto, ricorda il ruolo dell’Europa nella distruzione e nello sterminio delle comunità ebraiche principalmente, ma non solo, in Europa, e il suo ruolo nella consegna della Palestina ai sionisti, i presunti rappresentanti dei sopravvissuti a questo genocidio che formarono una postazione occidentale per questi stessi attori europei in Medio Oriente.

Paradossalmente, l’unico posto al mondo in cui ebrei e arabi – la maggior parte dei quali musulmani – condividono oggi lo stesso pezzo di terra è tra il fiume e il mare. Ma dal 1948 questo luogo è stato caratterizzato dalla violenza genocida. Le domande urgenti ora sono come fermare il genocidio e come fermare l’introduzione di più armi in quest’area.

Ne La banalità del male, Hannah Arendt descrive i sentimenti contraddittori provati dagli ebrei sopravvissuti all’Olocausto durante gli anni trascorsi nei campi per sfollati in Europa. Da un lato, sosteneva, l’ultima cosa che potevano immaginare era di vivere ancora una volta con gli autori del reato; d’altra parte, disse, la cosa che desideravano di più era tornare ai loro posti. Non dovrebbe sorprenderci che, dopo questo genocidio a Gaza, i palestinesi potrebbero non essere in grado di immaginare di condividere un mondo con i loro autori, gli israeliani. Tuttavia, è questa una prova che anche questo mondo, dove arabi ed ebrei sionisti si sono ritrovati insieme, dovrebbe essere distrutto per ricostruire la Palestina dalle ceneri? È solo nell’immaginazione politica imperiale euro-americana che una tragedia della portata della Seconda guerra mondiale e dell’Olocausto avrebbe potuto concludersi con soluzioni brutali come le spartizioni, i trasferimenti di popolazione, l’indipendenza etnica e la distruzione di mondi.

Noi, su scala globale, abbiamo l’obbligo di rivendicare quello che ho chiamato il diritto a non essere autori di reati e di esercitarlo in ogni modo possibile. Lavoratori portuali che si rifiutano di spedire armi in Israele, studenti che si impegnano in scioperi della fame per fare pressione sulle loro università affinché disinvestano dalle aziende che traggono profitto dalle violazioni dei diritti umani in Palestina, ebrei che sconvolgono le loro comunità e famiglie e rivendicano i loro diritti ancestrali di essere e parlare come antisionisti, manifestanti che occupano edifici statali e stazioni ferroviarie e rischiano di essere arrestati: sono tutti motivati da questo diritto anche se non lo articolano in questi termini. Capiscono il ruolo che i loro governi, e più in generale i regimi sotto i quali sono governati come cittadini, svolgono nella perpetuazione di questo genocidio, e capiscono, come recita lo slogan, che ciò viene fatto in loro nome.

Sono ebrei anche coloro che chiedono il cessate il fuoco. Ma anche le voci ebraiche vengono messe a tacere. In Germania, ad esempio, il lavoro di artisti ebrei affermati è stato cancellato. Pensi che ci sia un interesse a rafforzare una narrativa dominante in vigore dal 1948 da parte dell’Occidente e dello Stato di Israele, sopprimendo al tempo stesso le voci ebraiche che si oppongono alla violenza perpetrata in loro nome?

È vero che le voci ebraiche vengono messe a tacere, non è certo una novità. Le voci degli ebrei furono messe a tacere subito dopo la Seconda guerra mondiale, quando ai sopravvissuti non fu lasciata altra scelta se non quella di rimanere per anni nei campi sradicati. Durante quel periodo, le proprietà saccheggiate dalle loro comunità, anziché essere restituite ai luoghi europei da cui erano state depredate, furono divise come trofei dalla Biblioteca nazionale di Gerusalemme e dalla Biblioteca del Congresso di Washington. E non solo il trauma collettivo dei sopravvissuti – e di noi, i loro discendenti – non è stato preso in considerazione, ma siamo stati messi a tacere attraverso questa menzogna di un progetto di liberazione basato su una narrativa sionista di liberazione attraverso la colonizzazione della Palestina, che a sua volta avrebbe fornito alle potenze euro-americane un’altra colonia al servizio dei propri interessi imperiali.

L’eccezionalizzazione della sofferenza degli ebrei non era un progetto discorsivo ebraico ma occidentale, parte dell’eccezionalizzazione della violenza genocida dei nazisti. Nella grande narrazione del trionfo occidentale su questa forza estrema del male, lo Stato di Israele è diventato un emblema della forza d’animo occidentale e ha segnato la resistenza del progetto imperiale euro-americano. All’interno di questa grande narrazione, gli ebrei furono costretti a trasformarsi da sopravvissuti traumatizzati in carnefci. Ebrei provenienti da tutto il mondo furono inviati per vincere una battaglia demografica, senza la quale il regime israeliano non avrebbe potuto durare. La seconda e la terza generazione nate da questo progetto sono nate senza storie o ricordi dei loro antenati antisionisti o non sionisti, per non parlare dei ricordi degli altri mondi di cui facevano parte i loro antenati. Inoltre, erano totalmente dissociati dalla storia di quella che era la Palestina e dalla sua distruzione. Pertanto, furono facili prede per uno stato-nazione commercializzato dai sionisti e dalle potenze euro-americane come il culmine della liberazione ebraica.

La Nakba, in questo senso, non è stata solo una campagna genocida contro i palestinesi ma, allo stesso tempo, anche contro gli ebrei, ai quali l’Europa ha imposto un’altra «soluzione» dopo quella finale. Senza i massicci finanziamenti e le armi delle potenze imperiali, le uccisioni di massa a Gaza sarebbero cessate in breve tempo, e gli israeliani avrebbero dovuto chiedersi cosa stavano facendo, come sono arrivati a questo punto, sarebbero stati costretti a fare i conti con il 7 ottobre e a chiedersi perché è successo e come si può realizzare una vita sostenibile per tutti tra il fiume e il mare.

Le voci ebraiche in luoghi come la Germania o la Francia continuano a essere le prime messe a tacere per mantenere sia la colonia sionista sia la coesione artefatta di un popolo ebraico rappresentato da forze che sostengono il progetto euro-americano di supremazia bianca. Ma la natura genocida del regime israeliano è stata svelata e non può più essere nascosta a nessuno.

Pensi che ci sia ancora una speranza per i palestinesi e per tutti noi che vogliamo rivendicare un mondo da condividere con gli altri?

Se non c’è speranza per i palestinesi, non c’è speranza per nessuno di noi. La battaglia della Palestina va oltre la Palestina, e i tanti che protestano in tutto il mondo lo sanno.

* Ariella Aïsha Azoulay è una saggista cinematografica, curatrice e professoressa di cultura moderna e letteratura comparata alla Brown University. Linda Xheza si occupa di fotografia e immigrazione alla Amsterdam School for Cultural Analysis, Università di Amsterdam. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione.

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La Barbera, il poliziotto delle torture al G8 di Genova, persona fidata di De Gennaro, accusato di essere figura centrale del depistaggio sull’assassinio di Borsellino

 

La Barbera, uomo fidato di De Gennaro e dietro le quinte delle brutalità e torture poliziesche al G8 di Genova, era noto anche per come trattasse la devianza e la delinquenza comune a Roma al pare di nemici terroristi da sterminare senza darsi troppe preoccupazioni deontologiche e di rispetto delle norme democratiche. Ma ecco che adesso si scopre qualcosa in più: era anche a servizio della mafia come dei servizi deviati.

Figura centrale di questo depistaggio è Arnaldo La Barbera. Mi auguro di non sentire affermazioni, da parte della difesa, sul fatto che si processano i morti, chi non è in grado di difendersi, sugli schizzi di fango, così come fatto in primo grado. Perché al di là delle frasi ad effetto mi piacerebbe capire cosa dovrebbe fare un pubblico ministero quando c’è l’ipotesi di un’azione delittuosa concorsuale nel momento in cui la figura centrale è deceduta. “Dovremmo archiviare anche per gli altri? E nemmeno si possono omettere tutte le argomentazioni che riguardano la figura centrale“. Lo ha detto il pm Maurizio Bonaccorso, applicato alla procura generale, iniziando la sua requisitoria nel processo sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio che si celebra a Caltanissetta nei confronti dei poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo. Tutti ex appartenenti al gruppo di indagine Falcone-Borsellino con a capo Arnaldo La Barbera.

“Dobbiamo partire – ha continuato Bonaccorso – dalle risultanze su Arnaldo La Barbera che ci danno l’immagine di un soggetto che è un ponte tra due mondi, quello di Cosa Nostra e quello dei servizi deviati, entrambi interessati al mancato accertamento della verità. Alla scorsa udienza ho iniziato la requisitoria parlando dell’anomala collaborazione, per non dire inquietante, tra la procura di Caltanissetta e il Sisde nella fase preliminare delle indagini.

Questa collaborazione nasce dall’ostinazione del dottore Tinebra, allora procuratore di Caltanissetta, che all’indomani della strage sollecitò una collaborazione con il Sisde. La cosa singolare è che l’attività del Sisde, anziché entrare in collisione con l’attività della Squadra Mobile di Palermo, si salda perfettamente con essa. Il Sisde veste di mafiosità Vincenzo Scarantino, che fino ad allora era stato un delinquente comune”. Vincenzo Scarantino era definito come un “picciotto” del quartiere della Guadagna che si occupava all’epoca di furtarelli e sigarette di contrabbando.

“Fondamentale è il tema dell’agenda rossa. Abbiamo una serie di fonti dichiarative che ci confermano l’importanza per Borsellino di questa agenda rossa. In questa agenda lui annotava una serie di riflessioni sulla strage di Capaci nella speranza di essere sentito a Caltanissetta”. Così il pm Maurizio Bonaccorso nella sua requisitoria fiume nel processo sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio, che si celebra a Caltanissetta in corte d’Appello.

“La signora Agnese Piraino Borsellino – ha continuato Bonaccorso – ha spiegato che, nella certezza di essere ucciso, Borsellino aveva cominciato a usare due agende, quella grigia e quella rossa, dove annotava sue riflessioni. Il secondo dato è la presenza dell’agenda rossa nella borsa di Borsellino il 19 luglio 1992. Abbiamo sul punto le dichiarazioni della dottoressa Borsellino che ci dice: papà aveva tre agende, una marrone, dove metteva qualche dato e numeri di telefono, l’altra grigia, dove annotava alcune cose, e quella rossa che per lui era importantissima.

Quella mattina aveva portato l’agenda con sé perché non verrà ritrovata a casa dei familiari. In macchina venne accompagnato dal figlio Manfredi che gli porta la borsa e gliela consegna. E l’agenda era in quella borsa. Quando Borsellino scende dalla macchina in via D’Amelio non ha con sé in mano l’agenda rossa. Primo perché lui guida la macchina e poi dalle testimonianze emerge che il dottore Borsellino, prima di andare a citofonare alla madre, si accende una sigaretta.

Quindi aveva in una mano la sigaretta e nell’altra l’accendino, quindi non poteva avere l’agenda in mano. Altro dato su quale abbiamo certezza è l’inesistenza di una seconda borsa di Borsellino”. “Altro dato significativo – prosegue è che questa agenda non è stata più trovata, quindi qualcuno se n’è appropriato.

E non è qualcuno di Cosa Nostra. Perché non è pensabile che sulla scena della strage ci fossero dei mafiosi intervenuti per appropriarsi dell’agenda rossa. Altro dato è che la borsa ricompare nella stanza di Arnaldo La Barbera a mesi di distanza, in maniera irrituale, senza che sia stato fatto un verbale di sequestro, e soprattutto viene riconsegnata in maniera irrituale alla famiglia di Borsellino”.

 “Arnaldo La Barbera era a libro paga dei Madonia”. Lo ha detto il pm Maurizio Bonaccorso nella sua requisitoria ripresa questo pomeriggio nel corso del processo sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio che si celebra a Caltanissetta dinanzi alla Corte d’Appello presieduta dal giudice Giovanbattista Tona. In aula anche il procuratore generale Fabio D’Anna e il sostituto procuratore generale Gaetano Bono.

Bonaccorso questa mattina aveva già parlato di finanziamenti all’ex capo della Squadra Mobile, Arnaldo La Barbera da parte del Sisde. “Il dottore Arnaldo La Barbera – ha continuato Bonaccorso – aveva un tenore di vita altissimo. Abbiamo accertato che Arnaldo La Barbera versava continuamente soldi sul suo conto corrente. In un anno circa 100 milioni di lire. Difficile credere che si potesse trattare di trasferte. Neanche avesse fatto il giro del mondo.

Quello che è significativo sono le modalità in cui questo contante viene versato. Nel ’91 c’è un solo versamento di 8 milioni di lire, nel ’92 questa persona di colpo cambia abitudini rispetto alla sua attività bancaria e comincia a fare versamenti continui per importi davvero consistenti. Certamente non sono tutti proventi illeciti ma questo dato ci conferma quello che hanno detto i collaboratori Vito Galatolo e Francesco Onorato e cioè che La Barbera era a libro paga dei Madonia.

Quindi abbiamo un personaggio ambiguo che da un lato viene costantemente finanziato dal Sisde. Dall’altra parte abbiamo i collaboratori che ci raccontano di un rapporto con la mafia”.

Sui rapporti tra La Barbera e la mafia il pm ha richiamato un episodio raccontato nel corso del processo da parte del collaboratore di giustizia Vito Galatolo. “Vicolo Pipitone – dice il pm – era il luogo dove si sono fatti i più importanti summit di mafia, dove venivano fatti omicidi. Da lì partivano anche i commando per uccidere. Il collaboratore di giustizia Vito Galatolo, chiamato a testimoniare durante questo processo, ci ha detto che vide Arnaldo La Barbera entrare in vicolo Pipitone in due episodi per incontrare suo zio Pino Galatolo che in quel periodo era ai domiciliari, e quindi non poteva uscire”.

 

Fonti:

https://www.ansa.it/sicilia/notizie/2024/04/16/borsellino-pm-la-barbera-figura-centrale-del-depistaggio_0e704435-e261-429c-a926-3cd6f8e64c9a.html

https://www.ansa.it/sicilia/notizie/2024/04/16/borsellino-pm-la-barbera-a-libro-paga-anche-della-mafia_ede8ddb9-6f13-4eb4-8004-cd27ce3a5c04.html

 

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lunedì 22 aprile 2024

la censura fascista di Meloni, e dei suoi sicari

 

Il testo del monologo di Antonio Scurati sul 25 aprile: lo scrittore avrebbe dovuto leggerlo su Rai3

Giacomo Matteotti fu assassinato da sicari fascisti il 10 di giugno del 1924. Lo attesero sottocasa in cinque, tutti squadristi venuti da Milano, professionisti della violenza assoldati dai più stretti collaboratori di Benito Mussolini. L’onorevole Matteotti, il segretario del Partito Socialista Unitario, l’ultimo che in Parlamento ancora si opponeva a viso aperto alla dittatura fascista, fu sequestrato in pieno centro di Roma, in pieno giorno, alla luce del sole. Si batté fino all’ultimo, come lottato aveva per tutta la vita. Lo pugnalarono a morte, poi ne scempiarono il cadavere. Lo piegarono su se stesso per poterlo ficcare dentro una fossa scavata malamente con una lima da fabbro.

Mussolini fu immediatamente informato. Oltre che del delitto, si macchiò dell’infamia di giurare alla vedova che avrebbe fatto tutto il possibile per riportarle il marito. Mentre giurava, il Duce del fascismo teneva i documenti insanguinati della vittima nel cassetto della sua scrivania.

In questa nostra falsa primavera, però, non si commemora soltanto l’omicidio politico di Matteotti; si commemorano anche le stragi nazifasciste perpetrate dalle SS tedesche, con la complicità e la collaborazione dei fascisti italiani, nel 1944.

Fosse Ardeatine, Sant’Anna di Stazzema, Marzabotto. Sono soltanto alcuni dei luoghi nei quali i demoniaci alleati di Mussolini massacrarono a sangue freddo migliaia di inermi civili italiani. Tra di essi centinaia di bambini e perfino di infanti. Molti furono addirittura arsi vivi, alcuni decapitati.

Queste due concomitanti ricorrenze luttuose – primavera del ’24, primavera del ’44 – proclamano che il fascismo è stato lungo tutta la sua esistenza storica – non soltanto alla fine o occasionalmente – un irredimibile fenomeno di sistematica violenza politica omicida e stragista. Lo riconosceranno, una buona volta, gli eredi di quella storia?

Tutto, purtroppo, lascia pensare che non sarà così. Il gruppo dirigente post-fascista, vinte le elezioni nell’ottobre del 2022, aveva davanti a sé due strade: ripudiare il suo passato neo-fascista oppure cercare di riscrivere la storia. Ha indubbiamente imboccato la seconda via.

Dopo aver evitato l’argomento in campagna elettorale, la Presidente del Consiglio, quando costretta ad affrontarlo dagli anniversari storici, si è pervicacemente attenuta alla linea ideologica della sua cultura neofascista di provenienza: ha preso le distanze dalle efferatezze indifendibili perpetrate dal regime (la persecuzione degli ebrei) senza mai ripudiare nel suo insieme l’esperienza fascista, ha scaricato sui soli nazisti le stragi compiute con la complicità dei fascisti repubblichini, infine ha disconosciuto il ruolo fondamentale della Resistenza nella rinascita italiana (fino al punto di non nominare mai la parola “antifascismo” in occasione del 25 aprile 2023).

Mentre vi parlo, siamo di nuovo alla vigilia dell’anniversario della Liberazione dal nazifascismo. La parola che la Presidente del Consiglio si rifiutò di pronunciare palpiterà ancora sulle labbra riconoscenti di tutti i sinceri democratici, siano essi di sinistra, di centro o di destra. Finché quella parola – antifascismo – non sarà pronunciata da chi ci governa, lo spettro del fascismo continuerà a infestare la casa della democrazia italiana.

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Non solo Scurati. A marzo è stata censurata la scrittrice Nadia Terranova con il suo monologo che trattava le cariche della polizia contro gli studenti di Pisa. Pubblichiamo il testo integrale censurato

 

Il potere fisico e i ragazzi di Pisa - Nadia Terranova

Adesso narrerò un apologo ai giudici. Uno sparviero, dopo aver ghermito un piccolo usignolo variopinto, lo trascinò in alto fra le nubi, e quello, trafitto dagli artigli ricurvi, piangeva di dolore. Allora lo sparviero gli disse: «Infelice, di che ti lamenti? Sei preda di uno più forte di te; dove ti porto io, tu andrai, anche se canti; ti divorerò o ti libererò a mio piacere. Stolto è chi combatte i più forti: non riporterà alcuna vittoria e, oltre al danno, dovrà subire la beffa».

L’apologo dello sparviero e dell’usignolo è la prima favola della storia della letteratura occidentale. Si trova nelle Opere e i giorni di Esiodo, un poema del settimo secolo a. C., ed è curioso che la favola sia anche una delle prime riflessioni della nostra civiltà sulla Hybris, la tracotanza, che tanta parte avrà nel mondo classico.

Il potere, si evince dalle parole di Esiodo, è innanzitutto un potere fisico: il più forte, il più grosso, colui che ha più armi – in questo caso, gli artigli – tiene in scacco in più debole.

Partendo da qui, da una storia per bambini, la Hybris diventò nel mondo classico la più disdicevole delle violazioni: abusare di una carica, agire dentro un dislivello politico era un peccato disonorevole, la rivelazione dell’incapacità di essere all’altezza del proprio ruolo. Il dovere dell’uomo che governa, proprio in virtù della propria carica divina, è ergersi al di sopra degli istinti e delle passioni proprie del piano umano.

Nella Politica, Aristotele elenca i comportamenti che i tiranni devono evitare per non cadere nella Hybris, e ne individua due in particolare: percuotere i sudditi e abusare della loro giovinezza.

Monica, madre di uno dei ragazzi colpiti durante la manifestazione in difesa della Palestina a Pisa, ha risposto ai giornalisti che chiedevano se avrebbe accettato delle scuse. È con le sue parole che voglio concludere.

A me delle scuse importa fino a un certo punto. Voglio che queste cose non succedano più. Un’amica di mio figlio è rimasta in osservazione per un trauma cranico, un altro è stato colpito all’addome e aveva sangue nelle urine, si temeva un’emorragia interna. Stiamo parlando di ragazzini, li hanno curati in pediatria.

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