Può il successo di una serie tv giustificare
la manipolazione e falsificazione di eventi che hanno segnato la storia
dell’umanità? Evidentemente sì a giudicare dall’assoluta assenza di critica che
ha accompagnato la serie HBO su Chernobyl, il cui tema conduttore gira intorno
ai segreti e alle bugie del regime sovietico circa le cause dell’incidente. La
narrazione degli avvenimenti che fa da corollario a questa tesi, ci descrive
una non società, penosamente avviata a dissolversi, dove ogni ambito (tecnico,
medico, amministrativo) o è viziato dall’ottusa crudeltà del regime, oppure è
del tutto impreparato ad affrontare gli eventi. Lungi dallo spiegare allo
spettatore cosa stavano facendo quella notte a Chernobyl (e perché), i tecnici
dell’impianto appaiono solo arroganti e incompetenti (non sanno spiegarsi come
sia potuto esplodere il reattore!) mentre l’immagine che si dà dei pompieri è
quella di poveri sprovveduti (pompano acqua sul reattore in fiamme con le
manichette!) a cui però non si può non riservare una doverosa compassione.
Quanto agli scienziati Valerij Legasov,
effettivamente esistito, e Ulana Khomyuk personaggio di fantasia, sono le
figure che salvano, più che le vite umane, la dignità della scienza e in
particolare di quella che si occupa dell’energia nucleare di cui lo
sceneggiatore Craig Mazin è un convinto sostenitore. L’umanità che fa da sfondo
al dramma invece, è suddivisa tra l’incoscienza (alle due di notte si mette ad
osservare la catastrofe esponendo letteralmente i propri figli al pulviscolo
radioattivo che cade dal cielo come una manna!) e l’abbrutimento totale
sintetizzato dai minatori che scavano tutti nudi il tunnel sotto il reattore,
fumando incessantemente come del resto fanno i tecnici della centrale anche
nelle zone dove ciò è universalmente vietato. Che dire poi dei soldati (di cui
la serie non spiega nulla circa l’apporto determinante nell’affrontare
l’emergenza) rappresentati a brandire minacciosamente il mitra perfino contro i
minatori del Donbass! E sì che se c’è, ancora oggi, un legame intangibile in
Russia è quello tra il popolo e l’Armata Rossa.
Possibile mai che dopo tanti anni, dopo il
crollo del comunismo e tutto ciò che ne è seguito si descriva ancora la società
sovietica e il popolo che la componeva in modi così grossolani e insultanti? Il
primo film su Chernobyl è stato fatto in Urss, “Raspad”
del 1990 (visibile su internet con sottotitoli in inglese) dove senza fare
sconti al regime e agli uomini della nomenklatura (letteralmente definiti
bastardi), il dramma della popolazione è trattato con tutt’altra sensibilità;
vi sono scene come l’evacuazione di Prypiat, quasi integralmente “copiata” da
HBO (compreso il cane che insegue gli autobus dell’evacuazione) o quelle
tumultuose relative all’esodo da Kiev, che restituiscono a quella vicenda una
dimensione umana. Qui i soccorritori (pompieri e personale medico) svolgono il
loro compito non per incoscienza di quanto avvenuto (dato che la presenza di
grafite all’esterno dell’impianto glielo fa capire) ma perché è il loro compito e nessun altro può
farlo. Nel film HBO invece un pezzo di grafite incandescente viene addirittura
preso in mano da un incredibilmente ignaro pompiere! Uno dei tanti dettagli
“tecnici” attraverso cui si dipana la manipolazione di quegli avvenimenti che
furono, tardivamente, resi noti dall’Urss, discussi, ridiscussi e alla fine
accreditati anche dalle istituzioni internazionali.
Dietro le quinte dell’incidente
Chi scrive ha un legame particolare con la
tragedia di Chernobyl. All’epoca ero in forze al Servizio Reattore della
Direzione delle Costruzioni dell’Enel con il compito di controllare la
fabbricazione del combustibile nucleare di tutte le centrali dell’Enel, pur
essendo da tempo un attivista antinucleare. Il capo di quel servizio era
l’ingegnere Paolo Fornaciari, figura notissima del nucleare italiano e padre
putativo del PUN (Progetto Unificato Nucleare).
Eravamo tutti sbigottiti e pur rendendoci
conto che il livello di contaminazione internazionale era indice di un
incidente gravissimo, nessuno di noi pensò all’esplosione nucleare del reattore
perché, semplicemente, non era tecnicamente possibile. D’altra parte quando
sette anni prima, a Thre Mile Island, si era rischiata una esplosione meccanica
conseguente alla formazione di idrogeno che avrebbe potuto avere esiti ben più
gravi, nessuno esperto (nè la NRC nè L’IAEA) mise in conto che si potesse
giungere alla distruzione del reattore. Dunque quando nel primo episodio
l’operatore di Chernobyl, pressato dal suo capo, dice di non sapersi spiegare
come il reattore sia esploso pur avendone l’evidenza (la grafite sparsa
all’esterno), non è un incapace, ma esprime il medesimo atteggiamento che
ebbero gli esperti di tutto il mondo di fronte alle notizie trapelate dall’Urss
che il reattore era distrutto.
A questo riguardo va detto una volta per tutte
che il silenzio, vergognoso e colpevole, delle autorità sovietiche prima
dell’annuncio ufficiale dell’incidente da parte di Gorbaciov, non fu così
totale come fu fatto credere. A partire dal 28 aprile, gli ambienti tecnici e
scientifici dell’Urss intrattennero discreti ma ripetuti contatti con
l’occidente: con la Svezia certamente, in quanto paese colpito sensibilmente
dalla nube radioattiva, ma anche con tecnici e scienziati della Germania e
dell’Italia a cui fu chiesto consiglio su come “trattare” il nocciolo, ovvero
se era il caso di raffreddarlo con acqua oppure no. La risposta unanime fu che
era meglio ricoprirlo di sabbia, boro e piombo, cosa che poi fu realizzata in
una decina di giorni grazie agli elicotteristi dell’aviazione (molti dei quali
reduci dall’Afhganistan) che effettuarono 1400 missioni scaricando sul cratere
oltre 5000 t di queste sostanze. Ma l’aspetto eccezionale di questi contatti fu
che nel chiedere “consiglio” i tecnici sovietici ci fecero implicitamente
sapere che il nocciolo di Chernobyl era scoperto, altrimenti come si sarebbe
potuto ricoprire con sabbia etc, se esso fosse stato ancora racchiuso nella
struttura di cemento armato? Perciò quando nella seconda puntata HBO, Ulana
Khomyuk fa notare a Legasov che l’operazione di copertura del nocciolo è quasi
un errore perché così facendo il “calore” del nocciolo, non riversandosi più
verso l’esterno, avrebbe portato al surriscaldamento e allo scoppio delle
cisterne piene di acqua poste alla base del reattore, si operano due
manipolazioni. La prima è che, come ho detto, quell’operazione era condivisa
anche in “occidente” essendo la cosa giusta da fare; la seconda è che la
copertura del nocciolo non aveva lo scopo di schermarne il calore, ma di
contenere l’emissione di radiazioni inondandolo di materiali “assorbenti” come
boro, piombo, sabbia.
Dunque sapevamo che il nocciolo era scoperto,
ma non come si era giunti a questo. Solo nell’agosto del 1986 l’Urss spiegò al
mondo la sua verità. Ad illustrarla a Vienna
in una conferenza straordinaria, fu lo stesso Legasov ed è quella che poi fu
ufficializzata nel rapporto IAEA INSAG 1 (International Nuclear Safety Advisory Group) del
settembre 1986 quindi ben prima di quanto lasci intendere la quarta puntata
della serie HBO. Sintetizzando: l’incidente era attribuito alla mancata
osservanza delle procedure di sicurezza da parte del personale in turno,
durante lo svolgimento di un test. In particolare la messa fuori servizio intenzionale dei sistemi di
emergenza e le violazioni dei regolamenti operativi da parte del personale,
rappresentavano una combinazione talmente improbabile da non poter essere
prevista in sede di progetto. Il reattore era venuto a trovarsi in uno stato di
instabilità tale per cui il coefficiente di reattività positivo aveva poi
causato un aumento incontrollabile di potenza distruggendo il reattore.
A Vienna però Legasov non si limitò solo ad illustrare la
relazione ufficiale della Commissione sovietica ma ebbe più di un incontro off records con scienziati e tecnici di altri Paesi. Ad uno di
questi incontri prese parte anche l’ingegner Fornaciari che poi, al suo
ritorno, ce ne fece un resoconto dettagliato, sottolineando tre aspetti su cui
Legasov si era soffermato. Il primo riguardava il test consistente nella
verifica che, in caso di scram del reattore e di contemporanea perdita di
alimentazione elettrica dalla rete, la forza di inerzia del gruppo
turbina-alternatore fosse in grado di alimentare da sola e per un certo tempo i
servizi di emergenza dell’impianto. La cosa lasciò di stucco tutti gli esperti
occidentali, non per la sua audacia, ma per le ricadute positive che avrebbe
potuto avere in termini di sicurezza. Ciò che ancora oggi infatti rappresenta
un piccolo ma insormontabile blind hole è che in caso di contemporanea
perdita del reattore e della rete esterna, il funzionamento dei servizi di
emergenza è assicurato da motori diesel, di enorme potenza, che per quanto
siano rapidi nell’avviarsi, non sono in grado di erogare energia prima di 40-60
sec. Questo tempo può sembrare breve, ma in termini di fisica nucleare non è
così: di qui l’estrema rilevanza del test di Chernobyl che peraltro non era la
prima volta che veniva effettuato.
Il secondo aspetto riguardava le modalità di svolgimento del test,
assolutamente negative fin dal suo inizio. I tecnici non riuscivano a
stabilizzare il reattore alla potenza desiderata, che oscillò sensibilmente e
per parecchio tempo, decidendo così di passare dalla gestione automatica dei
parametri fondamentali, alla gestione manuale. Nel fare questo esclusero i
sistemi di raffreddamento di emergenza ECCS, arrivando a “ponticellare” (parole
di Legasov riferite da Fornaciari) i sistemi di protezione reattore allo scopo
di non avere interferenze nell’esecuzione del test. Ma a causa del transitorio
da Xeno – iniziato
circa un’ora prima dell’incidente dopo che la potenza del reattore era scesa
quasi a zero – decisero di estrarre altre barre di controllo per riguadagnare
potenza, lasciandone inserite solo 8 mentre la procedura di esercizio imponeva
che, in qualsiasi condizione, almeno 30 barre dovevano restare inserite nel
nocciolo.
Il terzo aspetto riguardava alcune caratteristiche di progetto dei
reattori RBMK (grafite-acqua) riferibili al coefficiente di reattività positivo,
che alla luce dell’incidente di Chernobyl, sarebbero state riesaminate. Su
questo punto Legasov, richiesto di ulteriori spiegazioni, si dichiarò non
sufficientemente esperto per rispondere, essendo lui un chimico e non un
fisico. Ma per quanto stringato, questo accenno aveva una grande rilevanza
perché, ancora una volta, gli scienziati sovietici (attraverso Legasov)
facevano sapere ai loro colleghi occidentali che il progetto dei reattori RBMK
andava rivisto (cosa che poi puntualmente accadde) perché quel reattore era
“malato”, aveva il “soffio” come lo definì uno di loro.
Ricordo che quando uscì il rapporto ufficiale dell’IAEA di
quest’ultimo accenno non c’era traccia e neppure nelle abbondanti pubblicazioni
tecnico-scientifiche dedicate all’analisi dell’incidente: eppure, sia pure in
forma non ufficiale, i sovietici ce l’avevano fatto sapere che qualcosa non
andava. Ma a livello internazionale prevalse la difesa della scelta nucleare
rispetto al dovere di informazione e trasparenza: l’incidente di Chernobyl
aveva letteralmente terrorizzato l’opinione pubblica mondiale e non c’era modo
di convincerla che fosse solo colpa della tecnologia russa, anche perché per le
persone comuni i reattori si somigliano tutti. Come spiegare infatti che i
reattori inglesi fossero più sicuri di quelli russi anche se tutti e due
impiegavano grafite. Del resto anche i reattori della
General Electric erano reattori ad acqua bollente come quello di Chernobyl; e
poi come giustificare le critiche al reattore RBMK a causa del suo coefficiente
di reattività positivo, quando in Italia si costruiva il Cirene che aveva il
medesimo handicap?
L’IAEA, i grandi gruppi industriali e le utilities nucleari di
tutto il mondo fecero fronte verso l’opinione pubblica accettando e ratificando
che la causa principale dell’incidente fossero le violazioni alle procedure di
sicurezza anche perché, in separata sede, l’Urss aveva già preso impegni con
l’IAEA per rivedere il progetto RBMK. Di questo se ne ebbe contezza nel 1987 al
secondo incontro internazionale post Chernobyl e poi, definitivamente, nel 1992
con l’emissione del rapporto INSAG 7.
Pregiudizi e falsificazioni
Di questa dimensione internazionale del problema suscitato da
Chernobyl, non c’è traccia nella serie HBO; anzi è proprio qui che il focus
della questione invece di soffermarsi sulle intrinseche difficoltà della
tecnologia nucleare e sull’omertà con cui vennero coperte, viene indirizzato
contro il regime sovietico attraverso una falsa versione delle cause
dell’incidente. Dando esclusivo credito alle dichiarazioni degli operatori in
turno (“abbiamo fatto tutto secondo le procedure”) ribadita anche nel processo
del 1987, si arriva a sostenere che fu proprio l’attivazione del pulsante di
emergenza (AZ-5) a causare lo scoppio perché le “punte” (così vengono definite)
delle barre di controllo erano state fabbricate in grafite invece che in boro
per risparmiare e dunque, scendendo dall’alto, appena la grafite era entrata
nel nocciolo, era aumentata la reattività provocando lo scoppio. Niente di più
falso e ignobile!
L’argomento fu trattato proprio nell’INSAG 7, arrivando a
concludere che sì i reattori RBMK presentavano delle lacune di progetto
riguardo al controllo della reattività, ma che in ogni caso la violazione delle
procedure da parte del personale era stata determinante nel causare
l’incidente. Quanto alle cosiddette “punte” delle barre di controllo – peraltro
comuni a tutti i reattori del mondo (nei reattori General Electric si chiamano
“follower” perché le barre di controllo entrano dal basso) – esse devono essere fatte di materiale diverso
dal boro (che è un assorbitore di neutroni) per esigenze di equilibrio del
flusso neutronico nel nocciolo durante le variazioni di potenza. L’aver
attribuito questo fatto a un meschino calcolo economicistico dei sovietici
(rispetto al costo generale di un reattore 3-400 Kg in più di boro sono una
bazzecola!) è indice di un pregiudizio duro a morire che vuole scaricare sul
cosiddetto “impero del male” le conseguenze negative di una scelta – quella
nucleare – che fu originariamente concepita dall’Occidente capitalista per
scopi di guerra e che nella sua versione civile (atoms for peace) non ha portato affatto pace e
benessere.
Nella mia vita ho maneggiato, non so quante volte, uranio,
plutonio e loro affini. Ho sezionato barre di combustibile ridotte a brandelli
per scopi di ricerca; ho visto da vicino il silenzioso, reverente timore di chi
lavora negli impianti nucleari diventare paura durante un’emergenza da cui non
puoi fuggire. E ho visto questi uomini pregare che il “dio” dei controlli
automatici, dei rivelatori di flusso, delle valvole di sicurezza, tenesse a
bada il “mostro” racchiuso in poderosi, quanto effimeri, vincoli di ferro e
cemento. E allora ho capito che il rischio non valeva la partita; che tutto
questo costituiva una inutile, dispendiosa complicazione per produrre energia
altrimenti ottenibile per altri modi. Quando ci fu l’incidente di Chernobyl ero
già impegnato da tempo contro il nucleare ma non riuscivo a togliermi di dosso
il pensiero di quella gente accorsa a cercare di fare fronte a una catastrofe
di cui non avevano alcuna colpa. Soldati, liquidatori, medici e vigili del
fuoco, ma che ci sono venuti a fare? Perché non sono fuggiti lontano dal dramma
e dalle radiazioni, facendo violenza a quell’umano istinto di conservazione che
ti spinge a mettere in salvo la tua vita?
Lo chiamano eroismo, ma è qualcosa di infinitamente più semplice e
nello stesso tempo più difficile da realizzare: è senso di appartenenza ad una
collettività, è dovere sociale, rispetto delle generazioni a venire per le
quali si arriva a dare in pegno la propria vita, come farebbe una madre per i
figli. Ma è anche la denuncia estrema di una scelta tecnologica fatta in danno
dell’umanità.
Questo è stato il lascito dei pompieri di Chernobyl che nel
febbraio 1987 mi spinse a fare obiezione di coscienza verso il nucleare, tutto,
non solo quello sovietico.
Oggi, con la serie HBO, quei pompieri muoiono per la seconda
volta, non per mano dell’industria nucleare, ma per quella dell’industria dello
spettacolo che, in questo caso, altro non è che la continuazione della prima
con altri mezzi.
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