La discussione intorno al Memorandum italo-cinese è apparsa piuttosto
curiosa sia nei contenuti sia negli schieramenti che l’hanno animata. Da un
lato si sosteneva che era a rischio l’indipendenza nazionale e lo storico
rapporto privilegiato con l’Occidente, dall’altro che finalmente si affermava
un principio di autonomia e di sovranità nazionale. Lega, Pd e buona parte di
Confindustria sollevavano preoccupazioni varie, M5S e Autorità portuali
facevano i sostenitori, mentre Prodi e Mattarella non drammatizzavano. Anche
sul piano internazionale la polemica ha seguito un copione incentrato su forti
polarità tra preoccupati, o esplicitamente ostili, e favorevoli. Nei primi
c’erano innanzitutto gli Usa, seguiti da importanti esponenti dei principali
paesi europei, tra i secondi esponenti di paesi periferici. Complessivamente un
gioco fatto di intrecci raramente coerenti, ancor meno disinteressati.
A che punto sono le relazioni tra
Occidente e Cina?
Iniziamo dalle preoccupazioni sui rischi per l’indipendenza nazionale,
continentale e, persino, dell’intero Occidente. L’accordo tra Italia e Cina
sarebbe un accordo unico nel suo genere, una testa di ponte per
l’approfondimento del ruolo cinese all’interno del Vecchio Continente, che
porterebbe allo sgretolamento degli interessi e degli assetti del mondo
liberal-democratico. Una sorta di salto di campo per l’Italia, un tradimento in
buona misura. Per sollevare tali obiezioni in maniera così perentoria bisogna
aver rimosso i processi sovranazionali in corso da tempo in quasi tutti i paesi
occidentali, che hanno rimescolato parecchio le carte degli assetti geopolitici
ed economici.
La globalizzazione affermatasi a partire dagli anni Settanta è stata un
combinato di tendenze innovatrici sul piano tecnico e politico-economico che ha
consentito ai paesi più ricchi di superare l’impasse del modello
fordista-keynesiano, creando condizioni produttive per poter ridurre i redditi
medio-bassi senza deprimerne i consumi, per sconfiggere politicamente il lavoro
rendendo sopportabile la precarietà. Con il risultato di ristabilizzare
l’economia di mercato e al contempo far ripartire i profitti. Da qui l’aumento
di investimenti esteri che nel tempo hanno avuto come eterogenesi dei fini la
creazione di una crescente autonomia economico-politica dei paesi emergenti
coinvolti in tali processi.
La Cina costituisce il caso più evidente e avanzato. A partire dalla fine
dei Settanta il Partito Comunista Cinese abbraccia la tendenziale apertura
dell’economia, basandosi su un mercantilismo sempre più spinto e orientato
prevalentemente alle esportazioni. Lo sviluppo dell’economia non si esaurisce
sotto l’impulso di interessi stranieri, il governo cinese riesce a cambiar di
segno agli investimenti esteri, rendendoli un volano per la crescita del paese.
Da piattaforma dei capitalismi occidentali la Cina diventa un propulsore a
spinta autonoma. Il modello che in un relativo breve lasso di tempo si afferma
è un modello capace di incrinare l’egemonia mondiale della potenza
statunitense. La crisi del 2007-08, inoltre, permette un’accelerazione di
queste tendenze, consentendo di rafforzare investimenti e acquisizioni non solo
nei paesi emergenti, ma anche in quelli occidentali. Dai beni nei settori
strategici, quali infrastrutture ed energia, ai titoli di Stato, dalla
tecnologia a elevato valore aggiunto fino alle aziende in bancarotta. In molti
di questi casi la Cina si è esposta finanziariamente in maniera ingente,
proprio perché la scommessa era quella di porre le basi per diventare una
potenza industriale ed economica di prim’ordine a livello mondiale.
Negli Usa l’acquisto di attori economico-produttivo strategici da parte dei
cinesi è stato in vario modo ostacolato, ma al contempo è stato concesso
l’acquisto di una marea di Treasuries (bond governativi), tant’è che insieme al
Giappone la Cina rappresenta il paese che ne detiene di più per una quota pari
all’8%. L’interconnessione finanziaria tra i due potentati è piuttosto
avanzata, dato che dei 3.100 miliardi di dollari di riserve valutarie cinesi
circa un terzo è denominato in dollari. In Europa, invece, l’accortezza sulla
cessione di asset strategici è stata più blanda fino a ora, sebbene il Vecchio
Continente fosse combattuto tra tradizione democratica e rispetto dei diritti
umani da un lato e tradizionale apertura commerciale dall’altro. La Cina ha
fatto incetta di quote di società di energia portoghesi e italiane, ha
acquisito il principale porto dell’area orientale del Vecchio continente, il
Pireo, con l’ambizione di farne un trampolino per le proprie merci in tutta
l’area centro-orientale. Ma lo shopping non si esaurisce ai soli paesi
periferici. In Germania è in corso l’acquisto di imprese medio-piccole ad alta
tecnologia oppure della catena di distribuzione tedesca. Cioè produzione di
qualità e beni strumentali di cui le fabbriche cinesi hanno bisogno e consumi
teutonici. E quando si parla di consumi si parla anche di modalità di
marketing, di uso dei brand tedeschi, insomma di come adottare le tecniche con
le quali la Germania mantiene la gestione delle principali quote di
esportazione nell’Europa. Un’azienda statale cinese ha acquisito il 14% della
francese Peugeot, eguagliando le quote della originaria famiglia titolare e
quelle dello Stato transalpino, un’altra ha acquisito il 49,9% del principale
aeroporto meridionale, quello di Tolosa. Infine arrivano investimenti e
acquisizioni nel settore del vino, di cui la Cina ormai costituisce uno dei
principali importatori a livello mondiale, e principalmente nella regione di
Bordeaux, quella con il più elevato valore dei terreni per vigneti.
Complessivamente negli ultimi quarant’anni il commercio di beni tra Cina e Unione
europea è passato da meno di 4 miliardi di dollari a oltre 600, il commercio di
servizi è cresciuto da 0 a oltre 100 miliardi e la quota di investimenti è
passata da 0 a quasi 200 miliardi.
Preoccupazioni tardive
Questi numeri forniscono il profilo di un processo che da tempo sta
modificando in profondità le relazioni internazionali, che scompagina vecchi
schieramenti e i cui fattori propulsivi non risiedono certo esclusivamente
nell’estremo oriente.
Il grado di interdipendenza è aumentato a causa dei reciproci vantaggi che
comportava per le classi dominanti dei paesi coinvolti. Sotto la retorica della
trionfante globalizzazione i processi avvenuti apparivano win win,
nessuno sembrava perderci. Tranne i lavoratori e le lavoratrici dei paesi
sviluppati che in tale consesso erano diventati le vittime sacrificali per il
rilancio di un ciclo globale. È solo negli ultimi anni che tali fenomeni
sembrano rimettere in discussione qualcosa di più degli interessi della vecchia
classe operaia occidentale: l’affermazione dei paesi emergenti, e in
particolare della Cina, incrina le tradizionali gerarchie di potenza e
ricchezza, dando vita a smottamenti sociali che hanno finito per risucchiare le
classi medie dei paesi occidentali. Persino una parte significativa della
piccola e media impresa di questi paesi, abituata a vivere prevalentemente di
domanda interna, è stata sacrificata sull’altare della competizione
multinazionale. Ecco allora la critica degli effetti della globalizzazione,
l’affermarsi di crescenti politiche sovraniste, fino a giungere alle guerre
commerciali di Trump. Anche in Europa sono stati approvati diversi documenti
che sottolineano come vi sia l’esigenza di un «multilateralismo efficace» al
momento messa in forse dalla tendenza cinese a negare relazioni equilibrate e
improntate alla reciprocità.
L’Europa per ora gioca ancora di fioretto con la Cina, in considerazione
dei rapporti commerciali esistenti, denunciando un’apertura selettiva dei
mercati cinesi, che protegge le proprie imprese pubbliche e private e limita
l’accesso ai programmi finanziati dallo Stato per le aziende straniere. In
buona misura per ora l’Europa si è limitata a sollevare il problema che la
collaborazione cino-europea non si stia svolgendo ad armi pari. Ma ecco che le
critiche all’Italia, responsabile di aver firmato il Memorandum con la Cina,
sembrerebbero costituire una levata di scudi inedita. Come se tale passaggio
rappresentasse una fuoriuscita dagli schemi di gioco fin qui adottati. Un
eccesso di collaborazione.
Indubbiamente le relazioni di un paese come la Germania con la Cina
appaiono più bilanciate e reciproche, ma persino lì vi è una preoccupazione
crescente per le concessioni fatte negli ultimi decenni, foriere di possibili
squilibri e asimmetrie. È pensabile che la media impresa teutonica non
costituisca un asset strategico nazionale da tutelare quando viene venduta
massicciamente a soggetti stranieri? Da un lato, dunque, i paesi centro-europei
e anglosassoni hanno promosso questo grande processo che è stato la globalizzazione,
dall’altro ora provano a frenarne le controindicazioni più pericolose.
Controindicazioni che ricadono direttamente a casa loro, ma che vedono anche
protagonisti quei paesi periferici occidentali che meno hanno goduto degli
effetti positivi dei commerci internazionali e che ora provano, in maniera
magari scomposta e un po’ disinvolta, a torcere a loro parziale vantaggio gli
appetiti cinesi.
Il quadro ipercompetitivo determina reazioni automatiche incentrate
sull’autodifesa, dove le catene del valore che ruotano intorno al Centro-Europa
stigmatizzano un atteggiamento arrendevole nei confronti della Cina. I soggetti
legati alla logistica mediterranea o al mondo dell’impresa dei periferici da
parte loro rilanciano un ruolo di sub-protagonisti tra i nuovi flussi di
investimenti asiatici. Un’apparente confusione, fatta di veti incomprensibili
sennonché spiegabili sotto il segno di un regime internazionale
ipercompetitivo, dove ogni paese e ogni impresa si posizionano sulla base delle
proprie convenienze.
In tale contesto non c’è Occidente o Europa che tenga. Gli Usa giocano la
propria partita come i Paesi europei più importanti, gli altri giocano di
rimessa. Nella partita i più potenti non tendono allo sfascio e neppure alla
rottura irreparabile con la Cina, nessuno potrebbe permetterselo in una fase
così stagnante, ma tutti provano a ritagliarsi i migliori spazi di convivenza
con l’Impero Celeste, anche a danno dei vicini, cioè inibendo quelle ipotesi
altrui che come effetto collaterale hanno il proprio indebolimento. Nessuno fa
sconti a nessuno.
Da questo punto di vista, senza eccessiva malizia si potrebbe ritenere che
le critiche al Memorandum abbiamo anche come retroscena la preoccupazione per
gli investimenti cinesi nei porti di Genova e Trieste, i quali potrebbero,
almeno in parte, contendere la scena internazionale ai tradizionali porti del
nord-Europa, abituati a essere i campioni incontrastati a livello continentale.
Il modello cinese e le speranze di
autonomia nostrana
Detto ciò, si potrebbe restare affascinati da una prospettiva di recupero
di autonomia, se non addirittura d’indipendenza, dei paesi periferici e, nella
fattispecie, dell’Italia. Quest’ultima potrebbe rilanciare un proprio ruolo
nello scacchiere internazionale in considerazione della propria posizione
geografica. È credibile tale prospettiva nell’attuale contesto? Ogni
fascinazione o, perlomeno, approccio pragmatico sul tema passa attraverso un
giudizio in qualche misura benevolo o di sottovalutazione del ruolo della Cina.
Difficile, però, non cogliere la dinamica interna e di conseguenza
internazionale cinese. C’è chi riprende la definizione del Partito comunista di
«socialismo con caratteristiche cinesi», che mette in evidenza come quel paese
gigantesco sia ancora incentrato su un’economia pianificata, dove il mercato
svolge un ruolo subordinato alla logica di socializzazione. Una visione che
ancora sottolinea i 90 milioni di iscritti al partito, il ruolo delle assemblee
nelle campagne, l’uso alternativo delle nuove tecnologie sottratte alle
centrali internazionali come Amazon, Google, Facebook, e così via. Le
gradazioni nei giudizi positivi sono varie e vanno dai nostalgici tout court a
coloro i quali trovano nel modello cinese una maggiore efficacia nel gestire
l’economia di mercato. Quest’ultimi sono, secondo me, i più interessanti poiché
mettono in evidenza le novità intervenute negli ultimi decenni in Cina.
Possiamo chiamarlo capitalismo di Stato o capitalismo autoritario, le
definizioni si sprecano, ma è certo che per la capacità di penetrazione in
campo internazionale quello cinese non è più un sistema economico a trazione
socialista, checché ne dica l’ideologia di partito. Il socialismo, persino
nella sua variante stalinista (quella del socialismo in un paese solo),
non ha mai ipotizzato una strisciante penetrazione economica nel campo avverso
fatta di acquisizioni e investimenti esteri. Il socialismo non ha mai inteso
comprare il capitalismo per chiuderlo o per farlo fallire. Semmai solitamente è
accaduto che quest’ultimo progressivamente fosse riuscito a sedurre il primo,
finendo per snaturarlo. Sia dove le forze socialiste governavano sia dove
riuscivano solo a fare opposizione.
Il caso cinese, però, ha una marcia in più nel suo genere. Il partito non
perde il controllo e fin dai tempi di Deng Xiaoping lancia le parole d’ordine
«diventare ricchi è glorioso» oppure «facciamo diventare ricco qualcuno, per
prima cosa» che costituiscono un obiettivo cambio di passo, dando crescenti
spazi al mercato e riducendo enormemente la povertà (paradossalmente i calcoli
tesi a dimostrare la riduzione della povertà globale sono principalmente
debitori del grande balzo cinese). Ciò avviene all’insegna di nuovi squilibri:
la formazione di classi sociali fondate sul loro ruolo nel mercato e un partito
che gestisce la società sempre in maniera autoritaria. Qualcuno in questi
ultimi decenni ha iniziato a diventare ricco, ma non si è fermato lì, ha
iniziato a esportare le proprie ricchezze nei paradisi fiscali, a svolgere una
funzione economico-finanziaria sia a livello nazionale sia globale, a godere
della pace sociale interna garantita non solo dalla crescita economica, ma da
un controllo verticistico della piramide sociale sedimentatasi negli anni. Lo
studioso della Cina Simone Pieranni individua in un discorso del 2013 di Xi
Jinping, recentemente pubblicato nella rivista teorica del partito, il momento
in cui si ponevano le basi «dell’ipercontrollo e della totale centralità del
Pcc». L’intreccio tra economia e politica rende difficile segnare un confine
netto tra le due sfere, ma è indubbio che vadano affermandosi nuove classi
sociali che, nonostante non godano di una garanzia completa per la proprietà
privata, compongono nuovi tasselli nelle divisioni sociali. Non a caso vi è una
crescente attenzione internazionale all’efficienza cinese nella gestione della
propria economia di mercato. A volte viene proprio presentato come un modello
alternativo a quello anglosassone di stampo liberista.
Nel 2017 a Davos è apparso curioso lo scontro tra gli Stati Uniti trumpiani,
imbevuti di istanze protezionistiche e sovraniste, e la Cina di Xi Jinping,
convintamente globalista, seppur con in mente una globalizzazione confacente
alle caratteristiche del proprio Paese. Quello avvenuto nella rinomata località
svizzera non è stato certo la rappresentazione di uno scontro tra capitalismo e
socialismo, quanto tra due approcci opposti su come gestire l’economia di
mercato, cioè un’economia dove la competizione resta al centro, ma che i
principali attori planetari vogliono dispiegare su scale territoriali
differenti, partendo dai reciproci punti di forza. La logica competitiva,
dunque, resta inesorabile. Parafrasando Humphrey Bogart, si potrebbe dire «è il
mercato bellezza e tu non ci puoi far niente. Niente».
All’interno di un quadro internazionale in cui l’economia stenta a
crescere, ognuno mette in campo le sue migliori armate per vincere quella che
resta una guerra economica, fatta di dazi da un lato e prodotti a minor costo
dall’altro. Non solo, ormai la Cina ha assunto un ruolo di potenza mondiale
grazie alla qualificazione delle proprie produzioni, riuscendo a competere
anche sui segmenti tecnologicamente avanzati. La contesa è sempre più senza
esclusione di colpi.
Val la pena, infine, sottolineare due aspetti dal carattere strutturale che
contribuiscono a focalizzare il profilo economico della Cina contemporanea. Il
primo è dato dalla sua capacità di penetrazione, una forza principalmente
commerciale che sembra aver reso più coerenti i principi dell’economia
dominante, come se fosse in corso una lotta egemonica in cui anziché con le
guerre i territori si conquistano attraverso il potere di seduzione del
mercato. Qualcuno potrebbe leggere in ciò il carattere più evoluto del modello
cinese, ma altrettanto coerentemente si può mettere in luce la messa in pratica
della funzione del denaro in una economia di mercato. Cos’è il denaro se non
potere di fascinazione e di egemonia? La quintessenza del capitalismo. Ecco
dimostrata la superiorità cinese nel conquistare in maniera raffinata nuovi
mercati al servizio dell’economia di mercato.
Il secondo aspetto è la rapidità con cui l’uso dell’economia a debito,
prerogativa dei paesi a economia matura, sia penetrata nell’Impero Celeste. In
pochi decenni quella che con qualche nostalgia della presunta separazione tra
sfera finanziaria e dell’economia reale si potrebbe considerare «fabbrica del
mondo» ha fatto ricorso al debito per stare al passo con i tempi. Un ricorso
non accessorio, se si considera che il debito complessivo è passato nel solo
lasso di tempo dal 2008 al 2017 dal 140 al 220% del Pil. Un processo di
omologazione realizzatosi a tappe forzate, nonostante il prevalente ruolo di
un’economia produttiva sottostante.
È socialismo questo? È un modo diverso di intendere l’economia rispetto a
quello dominante? Oppure è la dimostrazione che il terreno privilegiato in cui
la Cina ha deciso di competere con l’Occidente è quello di un’economia di
mercato avviata addirittura verso la finanziarizzazione, per riuscire a
superare i propri limiti? E che tale modello fondato sui debiti potrebbe anche
essere almeno una parte della chiave del suo successo? Oppure si può ritenere
che anche il socialismo abbia necessità della droga monetaria per svilupparsi?
Se questo è il profilo della Cina, pensare di ritagliarsi un ruolo autonomo
è illusorio oppure risponde a una logica di corto respiro di cui è imbevuta la
nostra attuale cultura. Una logica, questa sì, molto lontana da quella cinese
in cui permane l’ambizione a pianificare e possedere una visione. La veduta
corta è prerogativa dell’attuale capitalismo onnivoro, ma non è sempre stato
così. La pianificazione negli investimenti e la progettualità non sono estranei
a un orizzonte innervato di profitti e capitali. Anche in questo caso c’è chi
vede in Cina un recupero di energie per l’economia di mercato e non certo una
loro negazione.
La Nuova Via della Seta
Arriviamo così al progetto soprannominato Nuova Via della Seta, considerato
il più grande progetto di opere infrastrutturali della storia, inteso come
veicolo per l’espansione geopolitica della Cina, che a malapena nasconde
l’ambizione di costruire in prospettiva un’unica area sul terreno delle
alleanze economiche. Si parla di oltre mille miliardi di dollari che la Cina
dovrebbe investire lungo molteplici corridoi, terrestri e marittimi, per
avvicinare la Cina a buona parte dell’Asia e dell’Europa, passando per
Medio-oriente e Africa. Quest’opera, sottolinea Danilo Taino in un recente testo che
riflette sulla guerra fredda tra Usa e Cina, è la scommessa dell’Impero Celeste
di «costruire attorno a sé un nuovo ordine internazionale, fisico e politico.
Un’Eurasia da tenere assieme con infrastrutture, legami commerciali e relazioni
diplomatiche, qualche volta vassallaggi, e con al centro Pechino». Un progetto
che la Cina ipotizza di realizzare grazie ai suoi ormai potenti «muscoli
industriali e finanziari». Come detto, il progetto sottende una sofisticata
funzione politico-economica cinese a livello internazionale, sorretta proprio
dal ruolo seduttivo di capitali e commerci. Una funzione che risponde non
semplicemente a necessità geopolitiche quanto all’edificio economico cinese,
fatto di esportazioni e sovracapacità produttiva. La Cina, per quanto abbia
ridotto e riorientato la propria crescita sul versante interno, abbisogna
comunque di una grande domanda estera per reggere i propri ritmi di sviluppo.
Che la portata della Nuova via della Seta sia enorme lo dimostra il fatto
che il coinvolgimento dei partner è iniziato anche sul piano finanziario con la
costituzione della Asian Infrastructure Investiment Bank (Aiib)
con sede proprio a Pechino. Tra i soci di questo istituto ci sono paesi come la
Corea del Sud e l’Australia, tradizionali alleati Usa. Persino la Gran Bretagna
partecipa con un’intesa per la City di Londra come centro regolatore
internazionale dei contratti stipulati in renminbi, la valuta cinese. Nell’arco
di pochi anni l’Aiib ha raggiunto i 68 soci membri e la gran parte delle quote
azionarie non fanno capo alla Cina. Partecipano anche Germania e India, in
ordine come secondi e terzi azionisti. La natura di questo ambizioso progetto è
una grande convergenza di molteplici interessi su scala internazionale, in
quanto la Cina costituisce un immenso mercato di sbocco e al contempo una
piattaforma produttiva unica. Convergenza che finisce per contraddire gli
interessi del rivale principale, gli Usa. Il potere di attrazione di questo
progetto è tale che anche i principali alleati degli Usa non disdegnano di
parteciparvi, creando continue tensioni diplomatiche e commerciali.
Era pensabile che l’Italia, con le sue debolezze, restasse estranea a tale
orbita d’interessi? Il Memorandum costituisce uno dei passaggi del
coinvolgimento italiano. È evidente che il confronto non avviene alla pari,
anzi si può affermare che, stante il quadro ipercompetitivo, la debolezza di un
paese nei confronti della Cina è direttamente proporzionale alla sua funzione
subalterna negli accordi. Il problema, dunque, è nel manico. È
nell’impostazione generale delle relazioni internazionali. Il profilo a elevata
concorrenza endogena dell’Europa rafforza la tendenza a rendere subalterni i
paesi più deboli. La Nuova Via della Seta fagocita lungo il proprio percorso
ideale di costruzione tutti i paesi che la Cina incontra. Non a caso
recentemente il Partito Comunista ha lanciato la parola d’ordine del
«ribilanciamento» per circoscrivere le accuse che giungono al governo cinese
sui rischi di poca trasparenza nella costruzione delle opere e sul dare vita a
una trappola del debito per i paesi coinvolti, i quali patiscono la sfasatura
tra l’investimento finanziario richiesto e le possibili ricadute benefiche
all’economia interna, finendo per esporsi ai prestiti cinesi. Uno dei principali
paesi vittima di questi meccanismi è il Pakistan.Detto ciò, colpisce come
emergano segnali di sudditanza o di poca trasparenza nel gestire perlomeno
parti del Memorandum con l’Italia. Gli accordi tra Autorità portuale genovese e
la China communications construction company (Cccc), una delle principali al
mondo nel settore delle costruzioni, appaiono poco chiari. Inizialmente
l’intento sembrava una collaborazione in cui il gigante delle costruzioni
cinese fornisse assistenza tecnica nella formulazione dei bandi di gara per le
opere di implementazione dello scalo ligure, come se in questo vi fosse bisogno
di un know howcinese, poi si è scoperto che dove la società cinese
intenderà partecipare ai bandi di gara non parteciperà alla loro formulazione.
Insomma una fumosità preoccupante su regole e ruoli che non lascia tranquilli
già in partenza e che rischia di marginalizzare la funzione di garante della
proprietà pubblica e dell’interesse generale. Finendo per confermare che, da
qualunque punto si guardi, il rischio di peggiorare il contesto sia molto
concreto.
*Marco Bertorello collabora con il Manifesto ed è
autore di volumi e saggi su economia, moneta e debito fra cui Non c’è
euro che tenga (Alegre) e, con Danilo Corradi, Capitalismo
tossico(Alegre).
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