sabato 31 ottobre 2020

L’onda lunga delle disuguaglianze - Francesco Gesualdi

Fin dall’inizio si è capito che il coronavirus semina morte soprattutto fra le persone più fragili. E constatato che in Italia il 59% dei casi sono insorti fra gli ultraottantenni,  in un primo momento si è pensato che la fragilità dipendesse prevalentemente dalla condizione anagrafica.   

Ma studi  successivi, condotti  in varie parti del mondo,  hanno evidenziato come l’età avanzata sia elemento di  fragilità soprattutto se associata a malattie concomitanti.

Lo testimonia anche l’Italia attraverso i numeri dell’Istituto Superiore di Sanità:  il 65% dei deceduti  da coronavirus soffriva  di ipertensione arteriosa, mentre il 28% di cardiopatia ischemica, per intendersi tutte quelle malattie che determinano un insufficiente apporto di sangue e di ossigeno al muscolo cardiaco.

Ma a sorpresa si è scoperto che anche il diabete è una patologia ampiamente ricorrente riscontrandola nel 29% dei decessi.

Conferma che viene dalla stessa Organizzazione Mondiale della Sanità: “il Covid 19 ha conseguenze più gravi in persone ultrasessantenni affetti da malattie polmonari, malattie cardiache, diabete e altre patologie coinvolgenti il sistema immunitario.”

Il che aiuta a capire meglio un fenomeno   osservato soprattutto negli Stati Uniti che  a fine settembre contavano   200mila vittime da coronavirus.

Anche in questo paese l’età ha avuto un ruolo importante considerato che il 79% dei decessi si è verificato nella popolazione oltre i 65 anni.

Il paese è in linea col resto del mondo anche per ciò che riguarda le malattie concomitanti: oltre il 70% dei decessi ha riguardato persone con ipertensione arteriosa, malattie cardiache, diabete e altri disordini metabolici.

Ma non torna la distribuzione dei morti per etnia. Negli Stati Uniti la componente bianca rappresenta il 60% della popolazione, quella nera il 13%, quella latinoamericana il 17%.

Tuttavia i deceduti bianchi hanno rappresentato il 52% del totale, mentre quelli neri il 21%, alla pari con i latino americani.

Numeri, però, che esprimono tutto il loro significato solo se associati a un altro raffronto:  i morti di ciascun gruppo  in rapporto alla propria popolazione.

Facendo questo esercizio scopriamo che la componente nera è quella a maggior mortalità con un deceduto ogni mille abitanti, un’incidenza più che doppia rispetto a quella della popolazione bianca, il cui tasso di mortalità  si è fermata allo 0, 4 per mille, percentuale ampiamente al di sotto anche di quella dei latino americani attestata allo 0,7 per mille.

Dal che se ne deduce che  neri e latino americani hanno un tasso di malattie cardiovascolari e metaboliche più alto della popolazione bianca.

Ed essendo altrettanto certo che la popolazione nera e latino americana generalmente è più povera di quella bianca, rimane da capire perché i più poveri hanno una maggiore propensione dei ricchi a sviluppare tali malattie.

 

Molti analisti concordano che la spiegazione vada ricercata negli stili di vita, in particolare nell’alimentazione scorretta e nella sedentarietà.

Da un punto di vista alimentare i più poveri hanno la tendenza ad escludere frutta e verdura, generalmente di alto prezzo,  per orientarsi verso il cibo industriale, anche detto junk food, cibo spazzatura, che  a causa dell’elevato tenore di  grassi, zuccheri e sali, a lungo andare destabilizza  l’organismo.

Scarse conoscenze, pochi soldi e una vita di corsa sono alla base di modi di alimentarsi insalubri, mentre la tendenza a fare poco movimento, neanche le camminate,  è alimentata dalla poca sicurezza esistente nei quartieri poveri e dalla mancanza di zone verdi in cui fare moto senza l’incubo del traffico.

Gli inevitabili effetti sono sovrappeso e obesità e insieme ad essi ipertensione, malattie cardiocircolatorie, diabete. Il sovrappeso desta preoccupazione anche in Gran Bretagna dove il problema riguarda il 64% della popolazione adulta.  

Ed ora che Boris Johnson ha messo a fuoco quanto possa essere letale in caso di malattia da coronavirus,   ha deciso di lanciare una crociata per riportare il popolo britannico al peso forma.

Fra le proposte c’è quella di proibire la pubblicità   del cibo spazzatura durante le ore di maggiore ascolto della TV da parte dei bambini, di proibirne le promozioni commerciali, di costringere i ristoranti ad accompagnare i menù con l’indicazione delle calorie sviluppate, di incoraggiare i medici a prescrivere l’esercizio fisico.

Ma i critici fanno notare che la vera terapia per sconfiggere il sovrappeso è la lotta all’ignoranza, alle disuguaglianze e alla povertà.

(articolo pubblicato anche sul quotidiano l’Avvenire)

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Dialogo di Carl Gustav Jung con il capo indiano Ochwìa Biano (Lago di Montagna)

[…] Abbiamo sempre bisogno di un punto esterno sul quale poggiare per poter adoperare efficacemente la leva della critica. Questo vale particolarmente per i fatti psicologici, in cui, per natura, siamo molto più coinvolti con la nostra soggettività che in qualsiasi altra scienza.

Per esempio, come potremmo renderci conto delle caratteristiche nazionali, se non avessimo mai avuto l’occasione di considerare la nostra nazione dall’esterno? Considerarla dall’esterno significa considerarla dal punto di vista di un’altra nazione. Per poterlo fare dobbiamo acquistare una sufficiente conoscenza dell’anima collettiva straniera, e nel corso di questo processo di assimilazione urtiamo in tutte quelle incompatibilità che costituiscono il pregiudizio e le caratteristiche nazionali. Tutto ciò che ci irrita negli altri può così portarci alla comprensione di noi stessi.

Capisco l’Inghilterra soltanto quando vedo in che cosa io, svizzero, non mi adatto ad essa. Capisco l’Europa, il nostro problema più grande, solo quando vedo in che cosa io, come europeo, non mi adatto al mondo.

Grazie alla mia conoscenza di molti americani, e ai miei viaggi in America e all’interno di quel continente, ho acquistato una considerevole conoscenza e capacità di critica del carattere europeo; mi è sempre parso che non ci possa essere nulla di più utile, per un europeo, che osservare l’Europa, una volta o l’altra, dalla cima di un grattacielo.

Quando contemplai perla prima volta lo spettacolo europeo dal Sahara, mi resi conto di quanto completamente, persino in America, fossi ancora impacciato e legato dalla coscienza culturale dell’uomo bianco.

Fu allora che maturò in me il desiderio di portare più a fondo i paragoni storici. Il viaggio seguente mi condusse in compagnia di alcuni amici americani, a visitaregli indiani del Nuovo Messico, i Pueblos, costruttori di città. “Città”, tuttavia, è una parola troppo grossa: ciò che essi costruiscono in realtà sono solo villaggi; ma le loro case assiepate, costruite l’una sull’altra, suggeriscono la parola “città”, come pure il loro linguaggio e tutte le loro maniere.

Fu quella la prima volta che ebbi l’occasione di parlare con un non-europeo, cioè con un non-bianco. Era un capo dei Pueblos Taos, un uomo intelligente, dell’età di quaranta o cinquant’anni. Il suo nome era Ochwìa Biano (Lago di Montagna). Potei parlare con lui come raramente ho potuto con un europeo. Certamente era prigioniero del suo mondo, così come un europeo lo è del proprio, ma che mondo era!

Parlando con un europeo ci si incaglia sempre nei banchi di sabbia delle cose conosciute da tempo ma mai comprese; con questo indiano invece la nave galleggiava su mari profondi, sconosciuti. E non si sa che cosa sia più affascinante, se la vista di nuove spiagge o la scoperta di nuove vie d’accesso a ciò che ci è noto da sempre e che abbiamo quasi dimenticato.

“Vedi” diceva Ochwìa Biano “quanto appaiono crudeli i bianchi. Le loro labbra sono sottili, i loro nasi affilati, le loro facce solcate e alterate da rughe. I loro occhi hanno uno sguardo fisso, come se stessero sempre cercando qualcosa.

Che cosa cercano? I bianchi vogliono sempre qualche cosa, sono sempre scontenti e irrequieti. Noi non sappiamo cosa vogliono. Non li capiamo. Pensiamo che siano pazzi.” Gli chiesi perché pensasse che i bianchi fossero tutti pazzi. “Dicono di pensare con la testa” rispose.” Ma certamente. Tu con che cosa pensi?” gli chiesi sorpreso. “Noi pensiamo qui”, disse, indicando il cuore.

M’immersi in una lunga meditazione. Per la prima volta nella mia vita, così mi sembrava, qualcuno mi aveva tratteggiato l’immagine del vero uomo bianco. Era come se fino a quel momento non avessi visto altro che stampe colorate, abbellite dal sentimento.

Quell’indiano aveva centrato il nostro punto debole, svelato una verità alla quale siamo ciechi. Sentii sorgere dentro di me, come una informe nebulosa, qualcosa di sconosciuto ma pure di profondamente intrinseco. E da questa nebulosa, immagine dopo immagine, si districarono dapprima le legioni dei Romani che piombavano sulle città dei Galli, e i tratti decisi di Cesare, di Scipione l’Africano, di Pompeo; poi vidi l’aquila romana sul Mare del Nord e sulle rive del Nilo Bianco; e poi sant’Agostino che portava ai Britanni il credo cristiano sulla punta delle lance romane, e la più gloriosa conversione dei pagani ottenuta con la forza da Carlo Magno; infine le schiere predatrici e omicide dei Crociati. Con una fitta segreta mi resi conto della vuotezza del tradizionale romanticismo intorno alle Crociate! Poi seguirono Colombo, Cortés, e gli altri conquistadores che con il fuoco, la spada, la tortura e il cristianesimo atterrirono persino questi remoti Pueblos, che sognavano pacificamente, al sole, loro padre. Vidi le isole dei Mari del Sud, con la loro popolazione decimata dall’acquavite, dalla sifilide, dalla scarlattina; contagio mutuato dai panni che erano costretti a indossare. Era abbastanza.

Ciò che noi dal nostro punto di vista chiamiamo colonizzazione, missioni per la conversione dei pagani, diffusione della civiltà e via dicendo, ha anche un’altra faccia, la faccia di un uccello da preda, crudelmente intento a spiare una preda lontana, una faccia degna di una razza di pirati e di predoni.

Tutte le aquile e le altre fiere che adornano i nostri stemmi mi parvero gli adatti rappresentanti psicologici della nostra vera natura.[…]

 

Nell’estate del 1959 a Bollingen, Jung scrisse per la sua autobiografia il capitolo sul Kenya e l’Uganda. Il capitolo relativo agli indiani del Nuovo Messico – i Pueblo – è tratto
da un manoscritto inedito.

 

(Ricordi, sogni, riflessioni di Carl Gustav Jung - raccolti ed editi da Aniela Jaffé
traduzione di Guido Russo edizione riveduta e cresciuta)

 

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La scuola in presenza - Penny

  

La scuola in presenza è ciò che resta per non affondare nel baratro della solitudine. È ciò che tiene ancorati i ragazzi, le ragazze, i bambini e le bambine alla normalità, al procedere della vita. È lo sguardo rivolto avanti. Al presente. Che non sfugge. È la parete invisibile che li sostiene in un momento di precarietà. Non importa come siano i banchi, che sia insopportabile a volte la mascherina, quel lavarsi le mani costante, ciò che conta è sapere che non sono solo.

È sapere che il futuro sta nel sorriso della mia compagna di banco. In quella battuta, quella lezione in cui qualcuno ha aggiunto un’informazione importante. In quel corpo vicino al mio che mi obbliga a stare qui e ora, a non poter fuggire.

È la mia mano che annota appunti di filosofia, si prepara nervosa per una verifica di matematica, scrive storie fantastiche di maghi e coccodrilli, prende un pennarello e fa uno scarabocchio perché ancora sono piccolo o piccola e non so disegnare.

La scuola in presenza è ciò che resta per sconfiggere la povertà o per lo meno per vederla e provare a farci qualcosa. È quel bambino o quella bambina o quel ragazzo o ragazza che torna a scuola e sta al riparo per sei otto ore quando a casa è successo l’indicibile, quando a casa, magari, non c’è il riscaldamento ma solo stanze buie affacciate su vite buie.

La scuola in presenza è ciò che resta della diversità possibile nell’uguaglianza. La storia personale conta, ci dice da dove veniamo, cosa ci portiamo dietro, di cosa abbiamo bisogno ma in classe abbiamo tutti lo stesso valore.

La scuola in presenza è ciò che resta per non abbandonare gli alunni con disabilità che sono una risorsa inestimabile all’interno di una classe. I ragazzi e le ragazze disabili, a un certo punto, spariscono dall’istituzione scolastica, non si capisce come mai un bambino disabile debba faticare per avere una copertura totale del suo tempo scuola, eppure sarebbe un diritto. Eppure è un bambino, una bambina, un ragazzo o una ragazza. Questo dovrebbe contare.

La scuola in presenza ci tiene ancorati alla vita, ai progetti, a prospettive di continuità.

La scuola in presenza, anche a spizzichi e bocconi, mi ricorda che io sono l’altro, che il mondo non è la mia cameretta, quello schermo a cui dedico il mio tempo. La scuola mi ricorda che l’esistenza è fatta di relazioni. Non permette il confinamento.

Perché dopo il covid, questo è il rischio, che la memoria di lavoro sia brevissima, la capacità di attenzione pure, che i miei bisogni diventino la mia ossessione, che il tempo perda la consistenza dell’impegno.

Che sia più facile bivaccare che aprire un libro e provare a studiare anche qualcosa che non mi piace. Il rischio è non sapere cosa ci piace, non avere un altro adulto, oltre a mio padre e a mia madre che mi dica: dai che ce la fai. Oppure che mi strigli un po’ e mi richiami al rispetto delle regole.

Non conoscere la consistenza della fatica, la gioia del risultato. Non venire a patti con gli altri.

È un rischio non aprire la pagina del diario e non tracciare nessuna scritta colorata della mia squadra del cuore o del mio cantante preferito. È un rischio non vedere nemmeno gli occhi del compagno di banco per ricordarci che in questa battaglia ci siamo tutti e siamo insieme.

La scuola in presenza, anche a spizzichi e bocconi, è quel filo invisibile, quella corda tesa, a cui i nostri figli e le nostre figlie, di qualunque età, possono ancorarsi per non perdersi del tutto. Non confinarsi.

Percepirsi ancora parte di qualcosa.

La scuola in presenza è ciò che resta di noi.

 

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Dopo l’Impero - Rhyd Wildermuth

 

Qualche mese fa un amico negli Stati Uniti mi ha raccontato una storia agghiacciante. Suo fratello, una delle persone più pacifiche che abbia mai incontrato in vita mia, si è trovato con una pistola puntata contro di lui dal suo vicino.

La situazione che lo ha portato è stata piuttosto complicata, ma il riassunto della storia è questo: il suo vicino, reagendo con profonda emozione alla notizia di un altro nero ucciso dalla polizia, ha minacciato di uccidere il fratello del mio amico perché gli operai che riparavano il suo tetto avevano lasciato cadere pezzi nel cortile di questo vicino.

Il fratello del mio amico lo ha convinto mentre la pistola carica era puntata contro di lui e ha scelto di non chiamare la polizia perché, come molti sanno, è molto probabile che una chiamata di emergenza sul comportamento minaccioso di una persona di colore porti alla morte di quella persona negli Stati Uniti.

Giorni dopo il vicino si è scusato, affermando che era così arrabbiato per il razzismo negli Stati Uniti che vedeva il fratello del mio amico (un uomo bianco) come un simbolo per tutto ciò che accadeva. Non è morto nessuno, il tetto è stato finalmente riparato e dall’ultima volta ho sentito che stanno meglio, nonostante sia difficile scendere completamente da una situazione in cui una pistola è stata puntata alla testa di qualcuno.

Scenari come questo non sono poi così rari. Ho sentito raccontare altre situazioni, molte con minacce di violenza (sebbene questa sia l’unica relativa alle armi di cui mi è stato detto), ciascuna mediata da conflitti razziali più ampi sui quali le persone coinvolte hanno poca influenza. La paura, l’ansia e la sensazione assoluta che l’Altro rappresenti una minaccia imminente nonostante l’umanità della loro carne e presenza ora governano la maggior parte delle nostre relazioni sociali.

Ecco come ci si sente quando cade l’Impero.

Sebbene tendiamo a concentrarci sugli aspetti di sfruttamento e autoritari dell’Impero, non dovremmo dimenticare che hanno anche un effetto pacificante sui conflitti culturali e sociali. La “Pax Romana” è stata chiamata così proprio per questo motivo: la presenza di un centro eccessivamente potente che governava vasti territori in cui vivevano persone con valori culturali molto diversi ha fatto sì che prevalesse una sorta di “pace”. Le tribù gallica, celtica e germanica che in precedenza avevano intrapreso una sanguinosa guerra contro le invasioni romane furono infine “pacificate”, portate nell’impero romano e sotto il suo dominio culturale. Ciò significava che le guerre si fermarono, almeno mentre l’impero era forte.

Quando quell’impero iniziò a sgretolarsi sotto il suo stesso peso, tuttavia, queste vecchie rabbia riemersero. I coltelli furono affilati, nuovi eserciti sollevati, vecchie lealtà tribali riaffermate e il sogno dell’indipendenza resuscitato. Alla fine l’impero non riuscì più a sostenere la pace con la forza e la sazietà economica, e quando cadde non rimase nulla della sua gloria se non vecchi monumenti e strade troppo cresciute.

Gli Stati Uniti sono stati anche chiamati un impero pacificatore (la Pax Americana ) a causa del loro ruolo egemonico sull’emisfero occidentale dopo la seconda guerra mondiale. Non riconosciuto nell’accettazione di questa idea, tuttavia, è che la Pax Americanaesteso al territorio che ora è gli Stati Uniti prima di quella guerra. La maggior parte conosce i sanguinosi conflitti e le campagne di fame che hanno aiutato il governo degli Stati Uniti a “pacificare” le popolazioni indigene lì, ma come l’Impero Romano non lo ha fatto solo attraverso l’aggressione. Ad esempio, i trattati forgiati e i benefici economici scambiati con alcune tribù (le Cinque Tribù Civilizzate) furono una delle cause principali del fallimento della rivolta di Tecumseh, proprio come i trattati romani e il trattamento preferenziale di alcune tribù galliche lasciarono Vercingetorige con pochi alleati nella sua finale opporsi a Giulio Cesare ad Alesia.

Ora, sebbene l’influenza imperiale degli Stati Uniti diminuisca in tutto il mondo, detiene ancora un’influenza egemonica sul paese che rivendica e sulle persone che ha portato alla sua “pace”. Ancora una volta come Roma, offrire i benefici economici dell’Impero (anche se distribuiti in modo diseguale) ai discendenti di coloro che per primi conquistò ha fatto tanto per mantenere la sua presa sui suoi cittadini quanto la ricchezza romana (distribuita in modo non uniforme). Persino le sottoclassi razzialmente oppresse godono ancora di un certo accesso al dominio americano (petrolio e tecnologia a buon mercato) nonostante siano altrimenti esclusi dal regime dei diritti umani che presumibilmente è garantito dalla truffa dell’Impero. Inoltre, l’esercito americano (forse l’istituzione più eterogenea d’America) segue il modello imperiale romano, arruolando i conquistati per conquistare gli altri.

Una terza – e probabilmente più vitale – pacificazione ora governa il mondo, tuttavia: la Pax Capitalis , o “Pace del Capitale”. Dalla nascita del neoliberismo, il capitale ora funziona come una forza imperiale egemonica, chiaramente visibile nei distretti commerciali di ogni città del mondo. Ovunque è lo stesso, le stesse catene internazionali vestite sottilmente nell’estetica culturale locale proprio come l’ Interpretatio Romana ribattezzò gli dei dei conquistati con il loro “equivalente” imperiale. Usiamo ovunque le stesse app dei social media, acquistiamo cibo prodotto dagli stessi conglomerati internazionali, compriamo vestiti fatti nelle stesse fabbriche e, come i cittadini di Roma, ci saziamo di queste spoglie imperiali come nostro premio di consolazione per aver perso le nostre storie.

Sotto l’appiattimento dell’egemonia monoculturale della Pax Capitalis, quelle storie perdute diventano nuove storie plasmate dall’Impero. Prima dell’egemonia della Pax Capitalis , avevamo almeno identità più storiche ma ancora ideologicamente superficiali: religione, nazionalità, professione, tutte sussunte infine nell’identità monoteista e globale del consumatore. Ciò che significava provenire da una famiglia, da un villaggio o da una tribù sono regni di significato a cui la maggior parte delle persone non può più accedere, e ora che il goloso bottino dell’Impero diminuisce, ci resta da costruire dai detriti della storia: razza, sesso, sessualità: il colore della nostra pelle, cosa facciamo dei nostri genitali e cosa significano o non significano.

L’Impero non può più tenerci insieme, non pacificare più i nostri ricordi o l’odio con narrazioni costruite o giochi di pane e circo. E proprio come il fervore religioso verso il dio cristiano è aumentato negli ultimi anni di Roma, così è cresciuta la fede che ciò che l’Impero ha operato nelle nostre vite potrebbe salvarci mentre cadono le mura. Più tecnologia, più politica, più consumo, più di ogni “verità” che è stato sempre e solo un articolo di fede che abbiamo ripetuto per evitare che l’Impero cadesse – a cui ci aggrappiamo come i grani di preghiera in un terremoto.

In tutto questo, dobbiamo chiederci: cosa viene dopo l’Impero? Se l’Impero ci diceva che eravamo consumatori, cosa saremmo quando non esiste l’Impero? Se l’Impero ci ha detto che siamo in corsa, classificati in base al tipo di amore che influenziamo, determinato dallo stato dei nostri corpi per certi tipi di vite e non da quello di altri, allora che dire di noi quando l’Impero non è più lì per far rispettare queste cose?

È molto probabile, anzi inevitabile, che molti di noi si aggrapperanno a quelle vecchie categorie ancora più duramente. La razza, in particolare, può diventare il credo con il più alto numero di morti, specialmente con l’ascesa delle reazioni fasciste al collasso interno della Pax Americana che ora terrorizza il mondo.

È anche possibile, anche se difficilmente inevitabile, che l’esperienza del fratello del mio amico e del suo vicino possa portare a qualcosa di completamente diverso. I momenti di rabbia e paura, disciplinati in noi attraverso la voce costante dei social media e la propaganda dei politici desiderosi di mantenere il potere, possono ancora continuare a prescindere. Eppure, prima che venga premuto il grilletto, prima che venga chiamata la polizia, prima che ogni situazione diventi irrevocabile, l’umanità potrebbe risorgere, scrollarsi di dosso il folle incantesimo collettivo a cui siamo tutti sottoposti e ricordare che siamo sempre esistiti non a causa dell’Impero, ma nonostante esso.

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venerdì 30 ottobre 2020

QUANDO THOMAS BERNHARD FU SALVATO DAI “DEMONI” DI DOSTOEVSKIJ - Cosimo Mongelli

 

Per chi, come me, ritiene di ritrovarsi in un mondo ridicolo, nell’era più ridicola della storia, cui felicità è solo un’impalpabile illusione decantata da chi, della felicità, non ne sa cogliere che l’aspetto più vacuo e artificioso, i significati stanno altrove. Il senso della vita, sta altrove. Per chi, come me, fa della letteratura un’entità dirimente, tra chi è vivo e chi sopravvive, leggere e rileggere Fëdor Dostoevskij è aria da respirare, l’unica aria possibile da respirare. E Dostoevskij e il respiro sono le stigmate di un altro autore a me caro, per me fondamentale: Thomas Bernhard. Ora, per cogliere almeno un riflesso della poetica, della profondità, dell’abisso dell’animo di Thomas Bernhard, leggere i suoi libri autobiografici è passo fondamentale (son cinque, tutti necessari: L’origine, La cantina, Il respiro, Il freddo, Un bambino; sempre sia lode ad Adelphi), è passo decisivo oltre che catartico. E l’animo e la vita di Thomas Bernhard son stati legati a infinito filo con la sua malattia, col respiro appunto, con i polmoni che l’hanno perseguitato sin dall’adolescenza e quindi ucciso a soli 58 anni, nel 1989. Se nel volume (il terzo dei cinque) Il respiro abbiamo lo scrittore ancora adolescente che si ritrova ricoverato a Grossgamin con una sospetta tubercolosi, nel successivo Il freddo la tubercolosi è ferale certezza. Ed è in questo passo autobiografico, il suo soggiorno al sanatorio di Grafenhof, che Dostoevskij si palesa per dare un senso, il senso, alla vita dello scrittore.  Il respiro e Dostoevskij. Tutto torna, tutto si spiega.

*

Urge però cominciare da un preludio: durante il ricovero a Grafenhof la madre di Thomas, da tempo malata di cancro, viene a mancare. E Bernhard lo viene a sapere nel modo più crudele e grottesco possibile: “Fu allora che scoprii un giorno nella rubrica ‘annunci mortuari’ del giornale che avevo portato con me sulla panchina il seguente annuncio ‘Herta Pavian, 46 anni’. Era mia madre. Lei si chiamava Herta Fabjan, ma senza dubbio il nome Pavian era frutto di un fraintendimento del giornale che si faceva comunicare quotidianamente per telefono i decessi del giorno per pubblicarla in una rubrica nascosta ma letta avidamente da tutti. Herta Pavian! Corsi nella mia stanza e dissi al dottore, il quale giaceva nel suo letto più morto che vivo, che mia madre era morta e che il suo decesso veniva riportato dal giornale sotto il nome di Herta Pavian anziché sotto il nome giusto di Herta Fabjan. ‘Herta Pavian, 46 anni’, ripetevo in continuazione tra me e me”. Bernhard ottiene il permesso per poter almeno andare al funerale, ma il grottesco di quell’annuncio rende insopportabile persino l’ultimo addio: “Continuavo a sentire da tutte le parti la parola ‘Pavian’ e per finire fui costretto a lasciare il cimitero prima ancora che la cerimonia finisse. Pavian! Pavian! Pavian! sentivo urlare nelle mie orecchie e lasciai precipitosamente il paese senza aspettare i miei, e feci ritorno a Salisburgo”. Il mondo di Bernhard crolla a pezzi, in briciole, in polvere“Adesso ho perso tutto, pensavo, adesso la mia vita è completamente senza senso. Mi piegai al corso della giornata, non mi preoccupavo più di nulla, subivo passivamente ogni cosa. Lasciavo che tutto si avvicinasse a me purché niente assumesse una forma distinta, sopportavo le cose soltanto quando erano indistinte, confuse. Trascorsi alcune settimane in questo stato”.

*

A salvare Thomas sono i libri. A dare una speranza, uno scopo, un motivo di vivere, e non sopravvivere, è in particolare un libro. Il libro di tutti i libri, per Bernhard (e per chiunque colga il significato del leggere): “Mi immersi in Verlaine e in Trakl, e lessi ‘I demoni’ di Dostoevskij, un libro di una tale insaziabilità e radicalismo, e anche di una tale grossezza non lo avevo mai letto in tutta la mia vita, mi inebriai e per qualche tempo mi perdetti totalmente nei ‘Demoni’. Quando ritornai in me, per un po’ non volli leggere nient’altro perché sapevo con certezza che avrei avuto un’immensa delusione, che sarei caduto in un abisso terrorizzante. Per settimane intere rifiutai qualsiasi altra lettura. La mostruosità dei ‘Demoni’ mi aveva fortificato, mi aveva mostrato una via, mi aveva detto che ero sulla buona strada per ‘venirne fuori’. Ero stato così colpito da un’opera letteraria impetuosa e grande che io stesso ne ero uscito come un eroe. Non mi è accaduto spesso, in seguito, che un’opera letteraria esercitasse su di me un influsso così immenso. (…) Il pudore che mi tratteneva dallo scrivere poesie era più grande di quanto avessi pensato, e quindi mi astenni dallo scrivere anche una sola poesia. Cercai di leggere i libri di mio nonno ma non vi riuscii, ne avevo passate troppe nel frattempo, avevo visto troppe cose, li misi da parte. Nei ‘Demoni’ avevo trovato una consonanza. Cercai nella biblioteca altri prodigi di quel genere, opere altrettanto eccezionali, ma non ce n’erano più. È superfluo elencare i nomi degli autori di cui ho aperto i libri per poi richiuderli immediatamente perché quei libri non potevano far altro che disgustarmi per la loro pochezza e meschinità. La letteratura, fatta eccezione per ‘I demoni’, non era fatta per me, ma io pensavo che di questi ‘Demoni’ ne esistono certamente altri. Ma certo non dovevo cercarli nella biblioteca del sanatorio, che straripava di ottusità e cattivo gusto, di cattolicesimo e nazionalsocialismo Ma come fare a procurarsi altri ‘Demoni’? La sola via possibile per me era lasciare Grafenhof al più presto e cercare in libertà altri ‘Demoni’”. Bernhard, dopo quasi un anno lascia Grafenhof. Segue controvoglia le indicazioni mediche, salta i controlli, avrebbe quindi bisogno di ritornarci. Ma è deciso. Ha deciso. Le sembianze che avrà la sua morte già le conosce, il suo respiro è compromesso per sempre. I demoni li troverà e li scriverà, nelle sue pagine e nei suoi libri. Ma non bastano queste poche righe per raccontarli.  Ci sono le sue opere. Divoratele.

http://www.pangea.news/bernhard-dostoevskij-mongelli/

L’esercito degli educatori - Emiliano Schember

Un esercito di educatori marcia inarrestabile attraverso le periferie degradate, i centro città indecorosi, recidendo le sacche del disagio, sbaragliando la devianza, pacificando le indocili genti che pascolano senza vergogna ai margini della civiltà, redimendo chi è disposto a pentirsi della sua inadeguatezza e consegnando alla legge i recidivi.

Con una certa regolarità l’opinione pubblica è scossa da episodi di brutale violenza commessi da minorenni su altri minorenni o su adulti più o meno fragili. D’improvviso lo sconcerto si impadronisce dei più di fronte a video su YouTube nei quali indifesi insegnanti vengono impietosamente bullizzati dai propri studenti, ma anche di fronte a episodi ripugnanti come stupri di gruppo, accoltellamenti, pestaggi. È in queste occasioni che politici, giornalisti, spacciatori di opinioni, invocano gli educatori: un esercito di educatori. Questo mantra è il contraltare progressista di chi impugna il manganello, fa tintinnare le manette, chiede la galera per i genitori e l’abbassamento dell’età punibile fino al periodo fetale e sbraita per più esercito, più polizia, più carabinieri, ronde, porto d’armi in allegato ai quotidiani in edicola e pistole nei distributori automatici agli autogrill. Curiosamente a quest’ultima categoria appartengono i difensori della famiglia contro agli assistenti sociali, quando un bambino abusato da un parente viene portato in una comunità.

Il comune denominatore tra i sostenitori della società law & order e quelli della società liberale dove “tutti nasciamo uguali e con le stesse opportunità e poi saranno i nostri talenti a stabilire chi diventeremo”, è la tendenza a individualizzare il disagio: i ragazzi che commettono atrocità sono individui con qualche problema, risolvibile con la galera o con un percorso educativo a seconda dell’orientamento del maître à penser. Così come secoli fa, ancora oggi si tende a considerare il comportamento violento un problema d’indole o, addirittura, di spessore morale; quindi, se un ragazzino partecipa a uno stupro di gruppo, pesta un altro ragazzino o lo accoltella è perché è fatto così, è cattivo: “Franti tu uccidi tua madre! – Tutti si voltarono a guardar Franti. E quell’infame sorrise!”.

Se tutto si riduce a una questione morale, o qualche positivista potrebbe dire genetica, “perbacco è tutto scritto nel Dna!”, si capisce allora che tipo di esercito deve essere quello degli educatori: un esercito della salvezza. Nel caso della natura genetica del male passeremmo, addirittura, dalla missione salvifica a quella miracolistica! Non si capisce in base a quale particolare disposizione un educatore, nell’incontro empatico, si dice così, con il ragazzino deviante, dovrebbe mostrargli che la vita non è tanto male, che ci sono tante possibilità e che è solo una questione di volontà coglierle o meno. Ecco, è una questione di volontà. Quindi se non le cogli, le occasioni, è colpa tua.

Che poi l’educatore, se non è un volontario, sia un lavoratore precario, sfruttato, malpagato, frustrato, represso, calpestato, odiato, è una cosa che nessuno mette in conto, ma che potrebbe comprensibilmente inficiare la sua capacità di prospettare al ragazzo praterie sconfinate di possibilità. Meno che mai potrebbe essere, agli occhi del giovane deviante, un modello salvifico di identificazione.

Eppure, caso strano, nessuno nell’invocare l’esercito degli educatori rivendica un miglioramento delle condizioni di vita delle truppe. Neanche gli stessi soldati. Questo succede perché anche molti educatori si sentono investiti di una missione salvifica, sono convinti che il loro lavoro consista nel salvare gli assistiti, nel redimerli, nel farli diventare persone migliori. Anche molti educatori, quindi, condividono l’orizzonte morale del disagio giovanile, si possono far diventare buoni i cattivi: “Franti tu uccidi tua madre! – Tutti si voltarono a guardar Franti. E quell’infame scoppiò in un pianto disperato!”.

L’abnegazione personale, la vocazione salvifica, operando di fatto come fattori di rimozione delle condizioni di vita dell’educatore, che con il suo lavoro occupa un segmento preciso della catena di produzione e riproduzione sociale ed economica, nascondono la violenza di cui quelle condizioni di vita sono espressione. La precarietà lavorativa, che diventa precarietà esistenziale, che conduce tanti laureati di vario livello sulla strada della proletarizzazione o, in termini più contemporanei, dell’impoverimento rispetto alle condizioni economiche della famiglia di provenienza, è di fatto la manifestazione di una violenza sistemica che attiva un ascensore sociale al contrario, che spinge le persone verso il basso.

L’educatore che subisce questa forma non spettacolare di violenza incontra sulla sua strada giovani, provenienti spesso da contesti nei quali non c’è mai stata nessuna forma di ascensore sociale, né verso l’alto né verso il basso, che vivono un quotidiano fatto di relazioni affettive brutali, prive di elaborazione, inabilitanti sul piano cognitivo, che trovano nelle istituzioni come la scuola moltiplicatori di disagio per la pochezza e l’inadeguatezza dei mezzi e, talvolta, l’impreparazione del personale docente, che hanno nella violenza, in quanto possessori di un corpo, l’unica possibilità di affermazione e di riconoscimento rispetto al contesto nel quale vivono.

Non c’è una strategia esplicita, una pianificazione, al fondo dell’uso della violenza che i ragazzi fanno, ma l’esibizione di atteggiamenti aggressivi e il tentativo di imporsi attraverso l’esercizio nudo e crudo della forza sono una possibilità presente negli abituali rapporti sociali: chi ha visto Briatore imitare Trump in Apprentice Italia, può capire come a un ragazzo delle tante periferie urbane italiane possa venire in mente che prendere a calci un altro ragazzino per stabilire chi comanda sia tutto sommato lecito.

Di fronte a questo tipo di violenza, che non ha niente a che fare con l’indole o la moralità della persona, ma è la diretta espressione della nostra organizzazione sociale, la base su cui si fondano in gran parte le nostre relazioni anche affettive, l’educatore salvifico non ha strumenti, perché l’intento missionario con cui rimuove la consapevolezza della sua condizione di sfruttato gli impedisce di vedere le dinamiche sociali che sono alla base dei comportamenti violenti dei ragazzi. L’educatore con il suo fardello di violenza subita inconsapevolmente incontra il ragazzo con il suo bagaglio di violenza agita, ma non metabolizzata, e ne risulta disarmato, impotente.

Questa impotenza, quando non porta l’educatore al burn-out, lo spinge a rifugiarsi in una narrazione fantastica del suo lavoro nel quale ogni alito di vento è una dichiarazione d’amore, mentre la violenza delle relazioni sociali resta sostanzialmente immutata. L’esercito degli educatori è un album di figurine.

Più che salvare il prossimo e redimere i ragazzi, l’educatore dovrebbe partire da un profondo lavoro di coscientizzazione, che lo renda consapevole del senso del proprio lavoro. Per fare questo l’universo atomizzato e precario degli educatori dovrebbe attivare al suo interno delle sinapsi: entrare in contatto, abbandonare la narrazione dell’individuo come alfa e omega dell’esistente, che ha avvelenato l’umanità negli ultimi quaranta anni, e riscoprire la dimensione collettiva. Percepirsi e iniziare ad agire come soggetto collettivo pronto a fronteggiare un sistema di produzione e riproduzione sociale ed economico che ha nella marginalità, nell’alienazione e nella violenza che ne deriva il suo nutrimento. L’educatore dovrebbe riscoprire la natura sostanzialmente politica del suo lavoro.

All’università insegnano che l’intervento educativo per essere tale deve trasformare i soggetti e i contesti abitati dai soggetti. Però all’università nulla dicono su ciò che fonda i contesti; i giovani educatori lo scoprono sulla loro pelle e per lo più si rifugiano nel meccanismo rimossivo: nessun individuo può fronteggiare un intero modo di produzione. Ma come soggettività collettiva l’educatore potrebbe arrivare alla consapevolezza che un intervento educativo per essere tale deve mirare a essere rivoluzionario.

Allora il problema non sarà più pacificare un soggetto alienato facendogli ingoiare o rimuovere la sua alienazione, ma renderlo consapevole delle ragioni di una violenza che è solito agire senza elaborarla. In termini un po’ estremi si potrebbe dire che la funzione dell’educatore non è nascondere il sasso che il ragazzo sta per lanciare, né tantomeno convincere il ragazzo a non lanciarlo, dato che i motivi della sua rabbia vanno oltre il gesto in sé, ma aiutarlo a comprendere le ragioni profonde del suo gesto mettendolo nelle condizioni di scegliere se o contro chi lanciare il sasso.

“Il Direttore guardò fisso Franti, in mezzo al silenzio della classe, e gli disse con un accento da far tremare: – Franti, tu uccidi tua madre! – Tutti si voltarono a guardar Franti. E quell’infame baciò il Direttore sulla bocca!”.

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I due contagi - Giancarlo Ghigi

Nel mezzo della crisi causata dal Covid, dilagano due fenomeni: quello dei negazionisti del morbo e quello dei negazionisti del disciplinamento

Due malattie conformano da marzo il nostro quotidiano: un morbo ed il disciplinamento sociale. Nel caos da spiazzamento che è scaturito con la crisi del Covid (e che ha comportato tra l’altro un balzo all’indietro del 10% del Pil) si sono affermati nel sociale due corposi schieramenti d’opinione: quello dei negazionisti del morbo e quello dei negazionisti del disciplinamento.

negazionisti del morbo lanciano i loro strali sul disciplinamento, ne descrivono le caratteristiche totalitarie e vagheggiano la presenza di un piano per sedimentare nella società una struttura omologante e autoritaria attraverso una malattia artatamente esagerata. Dall’altra polarità invece, i negazionisti del disciplinamento si focalizzano sull’onnipotenza del morbo, sottostimano i dispositivi normativi imposti o autoimposti, tendendo in sostanza ad affidarsi senza dialettica alcuna all’apparato, partecipando in modo spesso silente a un processo di assiepamento che tende a coagularsi inevitabilmente intorno a leader paternalistici o autoritari. La compressione costituzionale, l’ordinaria violenza ottica e fisica dell’odierna società con il velo sanitario, sembrano fornire ottimi argomenti ai primi, mentre la mortalità di aprile a Bergamo e l’aumento esponenziale delle terapie intensive in questa seconda ondata del contagio forniscono razionali e solidi argomenti ai secondi. 

E nel frattempo la società tutta si disciplina, avverando l’eterno sogno d’ogni tiranno: avere alla propria mercé un popolo ammassato e diviso, che ritrova una flebile sintesi alle proprie paure giusto intorno al trono, un trono invocato da un trauma che ha reso ormai il quotidiano irriconoscibile. Il distanziamento sociale, data la perdurante assenza di momenti strutturati di incontro (pensiamo ad esempio al crollo dell’offerta culturale di prossimità, ben maggiore di quello del Pil), tende oggi a contribuire alla radicalizzazione delle opinioni, riduce sempre più gli spazi di ricucitura delle narrazioni, estremizzandole. I meccanismi premiali tipici dei social network inoltre moltiplicano viralmente questi posizionamenti trasformandoli in verità documentate dalla semplice ridondanza dei messaggi. L’aspetto oggi più inquietante è che i tanti negazionisti del morbo contrastando quella che loro chiamano una «dittatura sanitaria» non trovino migliori alleati che dei novelli condottieri autocratici; e infatti alcuni abili voltagabbana dal piglio autoritario (pensiamo a Trump o Bolsonaro) si ergono ormai a portabandiera di una nebbiosa denuncia dell’irreggimentazione sociale, spinta da non meglio specificati «altri» poteri occulti. Una contorsione che ricorda il bipensiero orwelliano e il vittimismo tipico della mentalità totalitaria raccontata da David Bidussa. Il morbo insomma irregimenta da sé, spinto da entrambe queste polarità, offrendo infinite occasioni alla burocrazia statale nel suo complesso per allargare il recinto del suo intervento paternalista teso a colonizzare sfere biopolitiche finora tutelate. E parallelamente queste due tifoserie dilagano nel sociale, alimentando la focalizzazione del potere in una spirale che si autoalimenta. La guerra al morbo si incarna infatti in un onnivoro potenziamento d’autorità che non risparmia i gironi inferiori, quelli dei vassalli, nei quali si rafforza il sindaco bifolco, il patriarca, il poliziotto, il sicofante di condominio, il pilota dell’autobus con ritrovato distintivo.

Riconoscere il morbo come oggettività e contrastare al contempo l’irregimentazione sociale che ne deriva ed eccede, pare un’operazione troppo complessa per la temperie dominante. Senza immaginare un «loro» che agiscono contro «le libertà individuali» sulla base di un «morbo inventato» viene infatti a mancare un soggetto-feticcio su cui scaricare la Frustrazione. E così si alimenta ciò che si esorcizza e si diffonde ciò che si crea. Si crea l’untore misterioso del «complotto medicalizzante» come al tempo del pogrom si creava il panettiere profittatore, l’ebreo usuraio o la strega. Solo in apparenza questa frustrazione si scarica su un «loro» che venga poi realmente soggettivizzato al vertice della piramide sociale, molto più frequentemente l’aggressività retorica si concentra invece sui presunti «collaborazionisti» di prossimità, sulle masse che ancora non credono al complotto.

Tra i negazionisti del disciplinamento le cose non vanno meglio. È un quotidiano lasciarsi andare all’autorità, è un’invocazione passivizzante al pater familias perché intervenga visto che «non siamo capaci di controllarci», perché Lui ci mostri nelle conferenze stampa i disegni coi cuoricini che i bimbi gli mandano, ci legga un po’ di quei numeri che sono capaci prima di spaventarci e poi di rassicurarci quando infine giunge la sapiente slide riconciliante che chiude con «l’andate in pace» questa messa laica.  La paura ci insegna ogni giorno a ricondurre il narratore istituzionale a una nuova figura familiare e l’isolamento sociale ci aiuta a riconfermarlo nella sua carica, così egli prende il posto del prete e dell’introvabile medico di famiglia. E le frustrazioni trovano altri e diversi feticci di comodo, si scaricano sui giovani che bevono per strada, sui negazionisti del Covid, sugli indifferenti dal naso impertinente che sbuca sopra la mascherina blu, esattamente come a marzo si accanivano sui runner che sfiatavano durante la corsetta intorno al palazzo.

La voce di chi non si polarizza, di chi cerca un baricentro mobile tra dispositivi e malattia, tra queste fazioni retoriche solo apparentemente in lotta, quella voce che invoca la complessità, oggi appare assai flebile, incapace di aver presa sulla roccia, oggettivamente poco suadente. Senza la forza di denuncia del complotto né quella di denuncia dei dissidenti smascherati, le manca un feticcio pratico, una coperta di Linus alla portata dello stress. È per questo che mentre le due tifoserie sociali risultano fluide e si riesce nel discorrere quotidiano a passare dai temi cardine di una a quelli dell’altra anche nel medesimo discorso, una riflessione sulla complessità del fenomeno oggi non ha alcun grip, manca di un invocato piglio decisionista. Essa narra banalmente di un morbo di cui è necessario il contrasto ma che al contempo si sta incarnando in dispositivo, e di un dispositivo che sedimenterà ben oltre il morbo, che farà radicare un diffuso modo di intendere l’autorità e gli altri. Narra di un cambio d’epoca, in cui la fine sanitaria della malattia non coincide con la sua fine sociale come ci spiega Gina Kolata sul New York Times. Un cambio di paradigma che confermerà quello che Daniele Rambaudi scriveva a proposito della forma mentis figlia del fascismo e ampiamente sopravvissuta nella retorica sociale del dopoguerra.
Il pensiero complesso perde così ogni giorno terreno in questo dibattito sacrificale che esige di trovare un prossimo di comodo su cui scaricare la rabbia per l’impotenza che deriva dalla sorpresa, dal trauma collettivo, dalla negazione freudiana delle sue conseguenze.

La complessità non verrà invocata dal sociale per affrontare questo problema complesso, rimarrà ai margini del dibattito pubblico per lungo tempo. E nello stesso momento è caso di incoraggiarla decisamente, controcorrente, incessantemente, perché essa appare l’unico argine alla presente deriva.

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giovedì 29 ottobre 2020

Il foglio bianco, gli spazi bianchi - Giorgio Messori

 

«Sarebbe bello se vedere e rabbrividire
fossero uniti etimologicamente»
Ludwig Hohl

Credo che sia stato ampiamente provato, anche scientificamente, che noi vediamo soprattutto col cervello. Cioè vediamo quelle cose che riusciamo già a riconoscere, o che possiamo paragonare con altre cose che già conosciamo.
A questo proposito, lo scrittore Ludwig Hohl racconta di un pastore che era capace di riconoscere, fra tutti gli animali, soltanto le pecore. E se per caso s’imbatteva in una mucca o un asino, per lui c’era soltanto uno spazio bianco ed ammetteva tranquillamente di non vedere niente. Se poi da quel «niente» riceveva un calcio, si lamentava perché gli facevano male le reni, ma non riusciva ad ammettere la presenza di qualcosa che non conosceva.
Mi viene in mente questa storia, che parrebbe quasi inverosimile, perché in effetti registra una situazione che mi sembra di vivere ogni volta che mi propongo di scrivere. Ho la sensazione di avere qualcosa davanti, qualcosa che può avere i contorni di una storia o di un paesaggio, che però non riesco a vedere. A volte sento anche di aver ricevuto qualche calcio che mi fa pure male. Ma ugualmente non riesco a distinguere nulla. E come mai, mi chiedo, pretendo di usare la scrittura per scoprire questo qualcosa che non sono capace di vedere?
Devo dire che quando mi accingo a scrivere (per esempio questo testo) ho quasi sempre l’impressione di non sapere niente, o meglio che tutto quello che so sia come sospeso, confuso. È un atteggiamento che può avere risvolti negativi: è la paura del foglio bianco, che spesso mi assale e che può portare a lunghi e frustranti stati di paralisi, di assoluta cecità. In quei momenti prevale la sensazione che tutto ciò che si vede, e si vive, non possa entrare nella propria scrittura, perché magari lo si riesce solo a riportare in parole e in frasi, già largamente riconoscibili, che pare non esprimano o mostrino più nulla. «Lo scrittore», sostiene Max Frisch, «sottopone le proprie percezioni alla domanda se siano degne di descrizione, e vive malvolentieri ciò che in nessun caso si può ridurre in parole. Questa malattia professionale degli scrittori ne riduce molti all’alcolismo».
E Kafka, ribaltando un po’ il problema, e cioè cercando di scorgere le potenzialità percettive che possono derivare da un atto di scrittura, annotava in una delle ultime pagine del suo diario: «Strana, misteriosa, forse redentrice consolazione dello scrivere: uscire dalla fila degli uccisori, osservare i fatti. Osservazione dei fatti in quanto si crea una specie superiore di osservazione, superiore, non più acuta, e quanto più è superiore, quanto più è irraggiungibile partendo dalla “fila”, tanto più diventa indipendente, tanto più segue proprie leggi di moto, tanto più la sua vita è incalcolabile, gioconda, ascendente».
Ho letto e riletto più volte questo brano. Mi sembra che Kafka sia riuscito a sondare, molto in profondità, quel particolare rapporto che s’instaura fra scrittura e osservazione. Infatti coglie lo sguardo che nasce dalla scrittura, che si esercita mentre si scrive. Ma avverte anche i pericoli dell’oblìo, dell’indistinto, che può esercitare la scrittura sullo sguardo. E appunto lo scrivere che permette di «uscire dalla fila degli uccisori», dice Kafka; è la scrittura che rende possibile l’osservazione, facendone un atto, un movimento verso una forma. Ma proprio seguendo questo movimento si corre il rischio di andare verso forme che si allontanano sempre di più da ciò che si vorrebbe descrivere, da quei fatti che si vorrebbero osservare.
«Ancora una volta», consiglia Peter Handke in un suo diario, «evita, di pensare col linguaggio, rimani nelle cose e nel loro splendore. Così diventa il linguaggio reale, così il linguaggio diventa reale. Non pensare al linguaggio. Ed è proprio scrivendo che corro meno il rischio di pensare col linguaggio tradendo le cose». E in una poesia di qualche anno prima lo stesso Handke diceva: «Da adolescente/quando appariva un senso del mondo/provavo solo il piacere di qualcosa da SCRIVERE./Adesso, per lo più, si manifesta un piacere poetico del mondo/soltanto con lo scrivere». Ed è più o meno quello che afferma anche Max Frisch in una sua battuta: «Vivere è noioso, ormai faccio delle esperienze soltanto quando scrivo».
Scrivere, sembrano intendere Handke e Frisch, può ridare una presenza al mondo, aiutando forse a dare un senso anche alla propria vita. Ciò che si può avvertire, con maggior intensità, è infatti l’enigma dell’esserci, delle cose che sono e che svelano una inattesa prossimità. Di conseguenza possiamo avvertire anche una nostra effettiva presenza al mondo, che tanto spesso non riusciamo più a sentire. E credo che questa sia un’esperienza che si può verificare in alcuni momenti di un processo di scrittura.
Ieri ad esempio, mentre già ero concentrato a scrivere questo intervento, è capitato che un aereo mi sfrecciasse a bassa quota sopra la testa, e che subito dopo si venisse a posare un piccione sul davanzale della mia finestra. Mi sono quasi spaventato. In effetti erano solo piccoli eventi a cui mi dovrei essere abituato, e che di solito non attirano la mia attenzione. Eppure, mentre sto scrivendo, queste stesse situazioni a volte mi sorprendono, e possono arrivare a spaventarmi. Forse questo è un particolare effetto di quell’allucinazione di realtà prodotta dalla scrittura, e che permette alla stessa scrittura di vedere cose di cui altrimenti non ci si accorgerebbe neppure.
E un’esperienza analoga mi è accaduta qualche ora fa, quando ero in un ristorante per mangiare qualcosa, e mi sono accorto di osservare quasi inebetito, su un giornale che stavo sfogliando, la fotografia di un poliziotto che arresta uno scioperante, durante una manifestazione di minatori inglesi. Questa immagine era in effetti simile a tante altre, e voleva semplicemente riferire visivamente una notizia. Ma ora mi colpiva la corporatura massiccia del minatore, infagottato in un giubbotto di stoffa quadrettata, il suo sguardo smarrito e la bocca aperta di fronte al poliziotto, equipaggiato con elmetto e scudo, e mi accorgevo pure che il poliziotto inglese «digrignava i denti». In altre circostanze, nella maggior parte dei casi, questa immagine avrebbe illustrato soltanto una notizia, secondo cliché che i fotoreporter dimostrano di conoscere molto bene. Ma anche quello che di solito interpreto come un semplice fatto di cronaca, e che perciò mi lascia spesso indifferente, in quel momento mi colpiva, riuscivo a vederne tutta la violenza, e anche una certa tragicità grottesca. Il fatto che fossi già immerso in un progetto di scrittura mi permetteva di intravedere oltre il cliché di questa immagine. Riuscivo persino a distinguere (forse immaginare) l’espressione di due uomini, ritratti a figura intera in una piccola foto in bianco e nero, per di più mal riprodotta sulla carta di un quotidiano. E magari la stessa fotografia, se fosse stata stampata in grande, sulla carta patinata di una rivista, mi avrebbe lasciato indifferente, o forse mi avrebbe anche un po’ irritato. Ma io non mi trovavo nella posizione di giudicare nulla poiché era l’immagine che s’imponeva a me, uscendo dallo sfondo del giornale che stavo sfogliando, e anche dallo sfondo del ristorante in cui mi trovavo. È quell’inconsapevole fissità dello sguardo, che nasce dalla scrittura, che mi fa rilevare particolari così appiattiti dal normale flusso dell’informazione, e dai gesti sempre più sfuggenti delle nostre comunicazioni quotidiane.
Mi piace ad esempio immaginare, e forse mi sbaglio, che Alfred Hitchcock abbia pensato di fare un film come Gli uccelli, perché magari è stato improvvisamente sorpreso da un uccellino sul davanzale della sua finestra. Poi gli è bastato guardare in cielo, per le strade, le piazze di una città, per accorgersi di questa presenza, così ovvia da non riuscire più a vederla.
Questa può essere una forza della scrittura, per immagini o con le parole: seguire e rendere visibili quei processi percettivi che ormai compiamo senza accorgercene, ridare evidenza alle cose che ci stanno attorno.
Credo che chiunque sia uscito dal cinema dopo aver visto Gli uccelli, si sia accorto improvvisamente di quanti uccelli popolassero il cielo, gli camminassero di fianco, fossero appoggiati sul tetto di una macchina, sul ramo di un albero, o sospesi su un cavo della luce. Improvvisamente ci si può rendere conto di una presenza che pure abbiamo davanti agli occhi tutti i giorni. Perciò anche degli uccelli possono essere cose che quotidianamente guardiamo senza vedere, come quegli spazi bianchi, dove magari c’erano delle mucche o degli asini, per quel pastore che sapeva vedere solo le pecore.
Ma Hitchcock, ovviamente, non ci ha mostrato soltanto delle sequenze, più o meno casuali, con degli uccelli, come quelle che potremmo vedere anche noi, una volta usciti dal cinema. Per poter seguire e rendere visibili questi processi percettivi, ormai impermeabili allo sguardo, è necessario organizzarli in una forma. Questa forma, nel cinema e nella letteratura, coincide spesso con una narrazione.
Una narrazione può nascere anche dalla paura del foglio bianco. Se ci mettessimo a scrivere solo quello che crediamo di sapere, probabilmente non riusciremmo a vedere più niente. La possibilità di scrivere, di narrare, ci permette ancora di sorprenderci per un uccellino sul davanzale della finestra, o per un poliziotto inglese che arresta un minatore, e da lì possiamo cominciare a seguire quelle orme che ci conducono a una storia, a produrre una storia.
«Quando cerco le mie storie nel quotidiano», spiega Peter Bichsel, «quando guardo la gente e ciò che mi circonda, allora non cerco esattamente le storie, ma cerco indizi per delle storie. Cerco dei volti, degli atteggiamenti, dei movimenti che indichino delle storie».
Sono convinto che per scrivere sia appunto essenziale seguire questi indizi, che ci invitano a cercare qualcosa al di fuori di noi, e di tutto ciò che presumiamo già di conoscere. E per accorgermi di queste tracce, di queste improvvise apparizioni, sono arrivato a escogitare anche un piccolo trucco. Quando scrivo qualcosa, un racconto o un intervento a tema, scrivo sempre «da due parti», cioè tengo un foglio sulla macchina da scrivere, dove seguo il filo di quello che vorrei dire, e da un’altra parte metto un foglio bianco, o un brogliaccio, dove butto giù tutto quello «che mi scappa». In quei fogli bianchi, scritti a mano, va a finire tutto ciò che non riesce a entrare ancora nel filo del discorso, e che nasce quasi sempre dall’esterno, oda appunti che mi sembra non abbiano alcuna destinazione. Mano a mano, «quello che mi scappa» prende sempre più posto sulla macchina da scrivere.
Forse è necessario, per dirla con Gregory Bateson, mettersi nei pasticci: «Se non ci cacciassimo nei pasticci, i nostri discorsi sarebbero come giocare a ramino senza prima mescolare le carte». Cacciarsi nei pasticci è infatti un modo per infrangere, e superare, quei cliché che ormai agiscono automaticamente sulla scrittura, e sugli stessi meccanismi del nostro pensiero.
«Cliché», spiega ancora Bateson, «è una parola francese, credo che in origine fosse un termine tipografico. Quando si stampa una frase, si devono prendere le lettere separatamente e metterle una per una in una specie di barra scanalata per comporre la frase. Ma per parole e frasi che la gente usa spesso, il tipografo tiene piccole sbarre di lettere già bell’e pronte. E queste frasi già fatte si chiamano cliché. (...) Ma se il tipografo vuole stampare qualcosa di nuovo, per esempio una cosa in una lingua straniera, dovrà disfare tutte quelle vecchie disposizioni di lettere. Allo stesso modo, per pensare idee nuove e dire cose nuove, dobbiamo disfare tutte le idee già pronte e mescolare i pezzi».
Forse questa definizione di Bateson si avvicina già a un principio costitutivo della scrittura, di una narrazione, o semplicemente della costruzione di una frase che consenta di rinnovare le forme con cui percepiamo il mondo. Per scrivere e pensare frasi, idee nuove, bisogna formulare nuove aggregazioni del discorso, come fa il tipografo quando deve stampare un testo in una lingua straniera.
Ricordo, solo per fare un esempio, che tempo fa leggendo un racconto di fantascienza, un racconto di Ballard, sono stato sorpreso da una frase: «Quando arrivò a casa, la luce del crepuscolo già filtrava nella nebbia color ciliegia che vagava sui motel e i vecchi casinò».
Perché questa frase mi aveva sorpreso? Credo perché non ho mai pensato di vedere una nebbia color ciliegia al crepuscolo. Quando guardo i colori, di solito li percepisco nella loro definizione più astratta, e al massimo mi vengono in mente delle associazioni che già sono diventate cliché di una particolare gradazione, come «verde pisello», o «rosso fuoco».
Ma dopo aver letto una frase come quella di Ballard, può capitare che mi trovi fuori all’ora del crepuscolo e che sia sorpreso da una nebbia color ciliegia, e le mie sensazioni non saranno così opache, risplenderanno di una luce, magari tragicamente dolce, come può essere la luce color ciliegia del crepuscolo che filtra attraverso la nebbia.
Mentre leggevo quel racconto di Ballard — è per questo che me lo ricordo — ero seduto su una panchina immerso nella lettura, e non mi accorgevo del tempo che passava. Quando sono arrivato al punto in cui Ballard descrive la luce del crepuscolo, già mi si stavano gelando i piedi e le mani, così ho alzato gli occhi, e in una perfetta coincidenza e simultaneità di situazioni, mi sono trovato avvolto da una nebbia color ciliegia. Ero entrato in un ambiente che percepivo con una nuova intensità. Quella frase mi dava il potere di modellarmi una sensazione percettiva, che fino ad allora mi era sconosciuta.
Non so se una narrazione si possa basare sulla costruzione di simili frasi. E certo che una scrittura continuamente proiettata a una visione di un esterno, rischia di mandare in cortocircuito la lettura. Si rischia di perdere, insomma, quella che si definisce la «fluidità del narrare».
Chi conosceva bene questi cortocircuiti, era sicuramente Robert Walser.
Amo molto leggere Walser. Non riesco però a leggerlo tutto d’un fiato. Ogni tanto devo interrompere la lettura perché avverto una leggera ebrezza, un capogiro che mi costringe a fermarmi, magari per tornare indietro di qualche pagina, oppure non fare niente per un po’.
Eppure la lettura di Walser mi assorbe completamente, mi cattura come poche altre. Ma spesso vengo scosso da una sorta di eccesso d’intensità. Intensità di cui Walser era consapevole, e che l’ha portato a prediligere la forma del racconto breve, che rispetto al romanzo ha questo vantaggio: l’impressione che si possano raccogliere infinite storie in qualsiasi momento, cogliendo qualsiasi occasione. Basta gira-re gli occhi per incontrare sempre un’altra storia.
In Walser — e in questo lo considero esemplare — la paura del foglio bianco coincide quasi sempre con la tensione di riuscire a definire gli spazi bianchi della realtà. Egli infatti assume in pieno la fragilità della scrittura di fronte alle possibili rappresentazioni del mondo esterno. Ed è anche per questo, credo, che posso sentirmelo molto vicino quando io stesso mi metto a scrivere.
Simon Tanner, protagonista di un romanzo di Walser, costretto per alcuni mesi ad un lavoro in banca, dice a un certo punto: «Adesso fuori è primavera, e io avrei voglia di uscire con un salto dalla finestra, tanto mi fa male questo lungo, lungo non-potermi-muovere. L’edificio di una banca è proprio una cosa stupida, in primavera. Che effetto farebbe un istituto bancario in mezzo a un rigoglioso prato verde? Forse la mia penna mi sembrerebbe un piccolo fiore appena spuntato dalla terra. Ah no, non ho voglia di scherzare. Forse tutto deve essere così, forse tutto ha uno scopo. Solo che io non vedo la connessione perché vedo troppo l’aspetto esteriore. Ed è un aspetto un po’ scoraggiante: fuori dalle finestre questo cielo, negli orecchi questi dolci canti. Le nuvole passano nel ciclo, e io devo stare qui a scrivere».
«Forse tutto ha uno scopo», ammette Simon. «Solo che io non vedo la connessione perché vedo troppo l’aspetto esteriore». E la prima connessione che salta, nella prosa di Walser, è il tempo. Nella sua scrittura quasi tutto è al presente, e spesso è presente all’atto stesso della scrittura. Per questo si diceva, e non è tanto importante verificare se sia vero, che Walser scrivesse senza correggere mai quello che aveva già scritto.
E certo che, leggendolo, non percepiamo quella fluidità narrativa scandita dal tempo, dalla possibilità di dare una forma al tempo. La fluidità, se così la si può ancora definire, è garantita dalla tensione della scrittura, che vuole ad ogni istante restituire una presenza al mondo visibile. Ed è proprio in questo gesto, in questa dichiarata disponibilità al presente, che la scrittura mostra la sua fragilità, e va incontro alle rotture di quelle cadenze narrative che solo una forma del tempo poteva dare.
Il passeggiare, il vagabondare, che è un po’ il tratto distintivo di tutta la prosa di Walser, non è una forma, ma un’ipotetica estensione dello spazio, che si può aprire illimitatamente ai possibili incontri col mondo.
Non è un caso che le varie poetiche dello sguardo, che si sono avvicendate nella letteratura narrativa del Novecento, si siano affermate a mano a mano che si perdeva la tradizione orale del raccontare, che pure era l’autentica legittimazione di ogni narrazione scritta. La lingua ha perduto via via la possibilità di organizzarsi in quelle forme epiche di racconto, che organizzavano le forme del tempo e dell’esistenza. Lo possiamo verificare anche quotidianamente, quando ad esempio guardiamo della gente che si ritrova assieme, e notiamo come ormai non ci si preoccupi tanto di dirsi delle cose, né tantomeno di trasmettersi delle esperienze. Spesso ci si limita a scambiarsi semplici informazioni, e molte volte non ci si parla neppure, ma si comunica con gesti che rimandano ad altri sistemi comunicativi.
Mi è capitato di osservare recentemente, mentre viaggiavo su un treno, dei ragazzi che andavano a vedere una partita di calcio. Comunicavano tra loro con pochissime parole, e con quel fitto scambio di suoni e gesti che vediamo nei cartoni animati: ridacchiavano alzando ritmicamente le spalle, lasciavano partire le braccia con il movimento di un proiettile o di un colpo di karaté, e poi scoppi di risa, sibili, e burn, bam, crash!
Esiste infatti anche quel grande spazio bianco, che è la nostra vita, la vita di un uomo, degli uomini, che spesso si svolge senza che nessuna forma riesca più a percepirla, senza che nessuna lingua riesca più a raccontarla. Lo scrittore si trova ad agire tra l’indistinto del cosiddetto reale, del quotidiano, e l’indistinto della lingua. Ed è solo nello sforzo di dare sostanza a degli spazi visibili che può anche ridare una disponibilità al mondo, perché lo sottrae a una totalità, o a un nulla.
Il gesto del narrare, che ha perso la sua legittimazione più autentica, è diventato anche una tensione sentimentale che forse allude a una forma che non esiste più. Può essere quella nostalgia di cui parla Gianni Celati: «Ho nostalgia di un tono narrativo che mi leghi agli altri, perché tutto quello che so scrivere sono cose separate dalla vita degli altri. Il sentimento vero e forte che potrei raccontare è quello di essere perduto. Non io in particolare, come individuo. È piuttosto uno stato di cose che mi pare di leggere ovunque». E può essere anche quella tristezza di cui parla Peter Bichsel: «Proprio quello stato d’animo in cui le storie non ci possono aiutare, e da cui esse nascono».
E una grande tristezza assale anche Robert Walser, al termine della sua Passeggiata, quando ormai sta calando la sera e lui si trova un mazzo di fiori in rasano, e non sa più a chi li può donare. Scrive Walser: «“Ho raccolto dei fiori per posarli sulla mia infelicità?” mi domandai, e il mazzo di fiori mi cadde di mano».
La letteratura, proprio nel suo sforzo di riorganizzare le forme del visibile, si ricongiunge a una lingua degli uomini che forse non esiste più, o non esiste ancora, se non nell’intensità dell’attesa, o della nostalgia, di altre e forse più vaste forme di organizzazione del visibile.
«Sui volti degli uomini», scrive ancora Bichsel, «non sono scritte soltanto le storie vissute, ma molto di più, e più chiaramente, le storie che vorrebbero produrre».
Con la letteratura, con una narrazione, possiamo anche intravedere, attraverso gli spazi bianchi del visibile, quei grandi spazi bianchi che sono le esistenze degli uomini, la loro vita, le loro relazioni col mondo. E solo muovendoci verso gli altri, e verso ciò che ci circonda, potremmo anche immaginarci una felicità che poi dovrà venire.

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La lezione del Coronavirus - coniarerivolta

È appena iniziato un nuovo anno scolastico, decisamente il più difficile. Anche se ogni anno, probabilmente, si potrebbe dire lo stesso, perché da ormai vent’anni l’istruzione pubblica subisce tagli di bilancio ingenti da parte di qualsiasi Governo in carica. Se le sforbiciate all’istruzione hanno conosciuto una forte accelerazione dal 2008 (riforma Gelmini-Tremonti), lo stravolgimento della scuola si è iniziato a delineare con la riforma Berlinguer del 2000, che ha dato inizio al processo di progressiva aziendalizzazione dell’istruzione. Certo, la scuola non è l’unica vittima dell’austerità, che ha massacrato sistematicamente l’intero settore pubblico, ormai allo stremo e sottorganico nella maggioranza dei suoi comparti. Tanto per citarne uno, l’esperienza del Coronavirus ci ha mostrato come la sanità si arrivata vicina al collasso nei mesi più duri della pandemia, rivelando a tutti la fragilità del sistema e l’effetto nefasto dei tagli degli ultimi anni.

Come se non bastasse, sul sistema educativo si pratica pure un esercizio retorico di rara ipocrisia, continuando a dichiarare che l’Italia potrà riparte solo con la scuola. Alle parole, tuttavia, non seguono i fatti. In questi mesi, si sono viste infatti tutte le difficoltà che l’istruzione, dall’infanzia fino all’Università, ha dovuto fronteggiare.

Mancanza di professori, insufficienza di aule, impossibilità di offrire a tutti gli studenti le lezioni a distanza, e così via. D’altronde, che la scuola fosse in grave sofferenza si sapeva da tempo. La citata riforma Gelmini tagliò in soli 3 anni – dal 2008 al 2011 – più di 8 miliardi di euro in termini di spesa per l’istruzione, con una tragica conseguenza sull’occupazione: 81.120 cattedre e 44.500 personale non docente (ATA) in meno. Da allora, non è cambiato l’orientamento politico sull’istruzione. I tagli sono stati continui, basti pensare che nel 2009 si spendevano quasi 72 miliardi di euro nel settore scolastico, a fronte dei 66 del 2017. Tagli che hanno riguardato, ovviamente, non soltanto il personale ma anche la chiusura di moltissime strutture scolastiche, costringendo studenti ed insegnanti dentro ignobili classi-pollaio. E, guarda caso, ora che si impone un distanziamento minimo tra gli studenti, si denuncia la mancanza di aule. Così la Ministra dell’Istruzione Azzolina ha proposto di utilizzare 3000 edifici dismessi ma che, ormai in stato di abbandono, non rispettano le normali condizioni di sicurezza.

Le conseguenze delle politiche di austerità (per intenderci, dei tagli) si riflettono non soltanto nei livelli occupazionali, ma anche nelle tipologie contrattuali di docenti e personale tecnico e amministrativo. I tagli all’istruzione hanno reso sempre più precario il mestiere dell’insegnante, ingrossando le fila dell’esercito dei supplenti e diminuendo quelli di ruolo. Soltanto negli ultimi sei anni, si registra una riduzione di quasi 200.000 tra docenti e ATA a fronte di un aumento di personale con contratti a tempo determinato per l’ordinario funzionamento: nell’anno scolastico 2013-2014 i docenti precari erano 137.000, mentre nel 2020-2021 saranno più di 200.000. In parole povere, si riduce il personale complessivamente impiegato, e lo si rende più fragile. La precarietà nell’insegnamento significa, peraltro, anche un danno al percorso educativo delle giovani generazioni, costrette a subire una continua alternanza nei docenti precari, che destabilizza la programmazione della didattica e mina la continuità della formazione.

Eppure, al peggio sembra non esserci mai fine. Mentre affannosamente cercava di mettere pezze ad una situazione dai toni drammatici, tra mascherine che non si trovano e banchi singoli che non sono ancora arrivati, la Azzolina annunciavatrionfalmente, alla fine di agosto, che grazie alle risorse stanziate per l’emergenza ci saranno oltre 70mila unità di organico in più per la ripartenza tra docenti e ATA. Se la pandemia è stata una tragedia sotto mille aspetti, a prima vista sembrava almeno aver suonato l’allarme sull’importanza di certi settori, tra cui la scuola, col Governo che pareva intenzionato a ovviare alle carenze di personale tramite l’assunzione di migliaia di nuovi lavoratori dell’istruzione.

Tutto bene sembrerebbe. Peccato che si tratti semplicemente di carne mandata al macello, precari da spremere nel momento della necessità per poi essere rigettati nel mare nero della disoccupazione e della precarietà, una volta passata la tempesta. Tra i nuovi incarichi, infatti, 40.000 sono riservati a docenti supplenti, che hanno ben poco da festeggiare. Proprio in questi giorni si è tornati a discutere dell’ignobile clausola Covid prevista nel decreto Rilancio per i contratti di questi supplenti. In pratica, se l’istituto chiude e le attività didattiche in presenza sono sospese causa Covid, il contratto di lavoro a tempo determinato si interrompe, il docente precario a cui era stata assegnata la supplenza viene licenziato ‘per giusta causa’ e senza diritto ad alcun indennizzo. Oltre a danneggiare il docente-lavoratore, privato di qualsiasi dignità, la clausola danneggia anche gli studenti, perché in caso di interruzione della didattica in presenza questa dovrà essere portata avanti a distanza. Il Governo sottovaluta enormemente lo sforzo che serve a tradurre la didattica ordinaria (le lezioni frontali) in didattica a distanza: quest’ultima comporta cambiamenti significativi rispetto alla didattica tradizionale, tra cui un apporto del docente a termine (il supplente) che diventerebbe fondamentale considerando le competenze digitali che questa trasformazione comporta e la giovane età (in media) degli insegnanti precari.

Dunque, lo Stato coltiva il sogno di tutti i padroni: liberare la classe lavoratrice di ogni possibile tutela. Non solo sei precario perché il tuo lavoro, se tutto va bene, finisce a giugno ma, se dovesse andare male, finisce all’istante e senza un briciolo di indennizzo. Del resto, lo smantellamento dei servizi pubblici più essenziali e la precarizzazione del lavoro pubblico rispondono ad un disegno ben preciso plasmato dalle politiche liberiste di austerità attuate in modo continuativo da trent’anni. Tagliare la spesa pubblica e allo stesso tempo depotenziare diritti e protezioni sociali per i cittadini e i lavoratori del settore pubblico significa incrementare direttamente o indirettamente povertà, precariato e disoccupazione dentro e fuori dal settore pubblico. Questi mali rappresentano il miglior carburante per una caduta generale dei salari nel complesso dell’economia dal momento che i lavoratori saranno indotti dalle peggiori condizioni di vita e dalla mancanza di alternative sul mercato del lavoro ad accettare condizioni sempre più miserabili. Immaginate come gongola la classe imprenditoriale italiana. Storicamente, il settore pubblico rappresenta infatti un punto di riferimento in termini di diritti e retribuzioni del lavoro: ogni volta che si attaccano i diritti dei lavoratori della scuola e della sanità si lancia un messaggio alle imprese, che rischia di diventare una tendenza generalizzata anche nel settore privato. E non può rappresentare un alibi per lo Stato la situazione di emergenza causata dalla pandemia. Perché lo Stato, nel momento di crisi, dovrebbe essere ancora più presente per far fronte alle necessità della popolazione e invece ne approfitta per dare un’ulteriore mazzata ai diritti dei lavoratori, già ridotti al lumicino dopo le diverse riforme del lavoro che si sono succedute in Italia negli ultimi trenta anni.

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